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Riflessioni sulla Pace e sulla Guerra - Umberto Eco
- Subject: Riflessioni sulla Pace e sulla Guerra - Umberto Eco
- From: Emilio.Rossetti at cec.eu.int (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Tue, 09 Apr 2002 17:27:23 +0200
Riflessioni sulla Pace e sulla Guerra Umberto Eco Il 25 febbraio scorso è stata presentata, presso il palazzo dei Giureconsulti a Milano, la Fondazione Sant'Egidio. In quella occasione Umberto Eco ha pronunciato la relazione che segue. Chi vi parla ha collaborato a fondare, nei primi anni Sessanta, il "comitato italiano per il disarmo atomico" e ha partecipato ad alcune marce della pace. Questo premetto, dichiarandomi pacifista per vocazione (certamente ancora oggi); questa sera però dovrò non solo parlare male della guerra, ma anche parlare male della pace. Cercate di seguirmi con indulgenza. Ho scritto una serie di interventi sulla guerra a partire dalla guerra del Golfo in avanti, e mi rendo conto che ad ogni capitolo dovevo modificare le mie idee sul concetto di guerra. Come a dire che il concetto di guerra, che era rimasto più o meno lo stesso (indipendentemente dalle armi che si usavano) dai tempi dei greci sino a ieri, negli ultimi dieci anni ha dovuto essere ripensato almeno tre volte. La Paleoguerra Qual è stato nel corso dei secoli il fine di quella guerra che chiameremo Paleoguerra? Si faceva una guerra per sconfiggere l'avversario in modo da trarre un beneficio dalla sua perdita, si cercava di realizzare le nostre intenzioni cogliendolo di sorpresa, si faceva il possibile perché l'avversario non realizzasse le proprie intenzioni, si accettava un prezzo da pagare in vite umane per infliggere al nemico un danno maggiore del nostro. A tali fini si dovevano poter mettere in campo tutte le forze di cui si poteva disporre. Il gioco si giocava tra i due contendenti. La neutralità degli altri, il fatto che dalla guerra altrui non traessero danno, ma semmai profitto, era condizione necessaria per la libertà di manovra dei belligeranti. Dimenticavo, c'era un'ultima condizione: sapere chi fosse il nemico e dove stesse. Per questo, di solito, lo scontro era frontale e coinvolgeva due o più territori riconoscibili. Nel nostro secolo la nozione di "guerra mondiale", tale che potesse coinvolgere anche società senza storia come le tribù Polinesiane, ha eliminato il rapporto tra belligeranti e neutrali. L'energia atomica fa sì che, chiunque siano i contendenti, dalla loro guerra è danneggiato l'intero pianeta. La conseguenza è stata la transizione dalla Paleoguerra alla Neoguerra attraverso la Guerra Fredda. La Guerra Fredda stabiliva una tensione di pace belligerante o belligeranza pacifica, di equilibrio del terrore, che garantiva un notevole equilibrio al centro e permetteva, o rendeva indispensabili, delle forme di Paleoguerra marginali (Viet Nam, Medio Oriente, stati africani, eccetera). La Guerra Fredda in fondo garantiva la pace al primo e secondo mondo, a prezzo di alcune guerre stagionali o endemiche nel terzo. La Neoguerra del Golfo Con la caduta dell'impero sovietico cessano le condizioni della guerra fredda, ma vengono al pettine i nodi delle guerre mai cessate nel terzo mondo. Con l'invasione del Kuwait ci si rende conto che si deve in qualche modo rimettere in opera una sorta di guerra tradizionale (se vi ricordate, il richiamo era proprio alle origini della seconda guerra mondiale: "se si fosse fermato subito Hitler non appena ha invaso la Polonia"...) ma ci si è subito accorti che la guerra non era più (o non soltanto) tra due fronti separati. Lo scandalo dei giornalisti americani a Baghdad era in quei giorni pari allo scandalo, di dimensioni ben maggiori, di milioni e milioni di musulmani filo-iracheni che vivevano nei paesi dell'alleanza anti-irachena. Nelle guerre di un tempo i potenziali nemici venivano internati (o massacrati); un compatriota che dal territorio nemico parlava delle ragioni dell'avversario veniva, a fine guerra, impiccato - ricordate come fu impiccato dagli inglesi John Amery, che attaccava il suo paese dalla radio fascista, e come solo la grande notorietà e il soccorso degli intellettuali di ogni paese salvò, a prezzo di una conclamata malattia mentale, il traditore Ezra Pound. Quali erano le nuove caratteristiche della Neoguerra? È incerto chi sia il nemico. Tutti gli iracheni? Tutti i serbi? Chi bisogna distruggere? La guerra non è frontale. La Neoguerra non poteva più essere frontale a causa della natura stessa del capitalismo multinazionale. Che l'Iraq fosse stato armato dalle industrie occidentali non era un incidente, e parimenti non è stato un incidente che dalle industrie occidentali fossero armati, dieci anni dopo, i talebani. Era nella logica del capitalismo maturo, che si sottrae al controllo dei singoli stati. Ricorderete un particolare apparentemente minore, ma significativo: a un certo punto ci si accorge che gli aerei occidentali avevano creduto di distruggere un deposito di carri armati o aerei di Saddam per poi scoprire che anzitutto erano modelli civetta e, successivamente, che erano stati prodotti, e venduti regolarmente a Saddam, da una industria italiana. Con le Paleoguerre si avvantaggiavano le industrie belliche di ciascuno dei paesi belligeranti, con la Neoguerra iniziavano ad avvantaggiarsi multinazionali che avevano interessi da una parte e dall'altra della barricata (se barricata ci fosse ancora stata). Ma non soltanto. Se la Paleoguerra ingrassava i mercanti di cannoni, e questo guadagno faceva passare in secondo piano l'arresto provvisorio di alcuni scambi commerciali, la Neoguerra, se arricchiva i mercanti di cannoni, metteva in crisi (e su tutto il globo) le industrie dei trasporti aerei, del divertimento e del turismo, degli stessi media (che perdevano pubblicità commerciale) e in genere tutta l'industria del superfluo - ossatura del sistema - dal mercato edilizio all'automobile. Nella Neoguerra alcuni poteri economici si trovano in concorrenza con altri, e la logica del loro conflitto superava la logica delle potenze nazionali. Avevo annotato a quei tempi che questa era l'unica condizione che faceva sì che, almeno, fosse tipico di una Neoguerra il dovere durare poco, perché prolungarla, alla fin fine, non poteva giovare a nessuno. Ma se la logica dei singoli stati in conflitto doveva, con la Neoguerra, sottostare alla logica industriale delle multinazionali, doveva sottostare anche alle esigenze dell'industria dell'informazione. Con la guerra del Golfo si è assistito, per la prima volta nella storia, al fatto che i media occidentali davano voce alle riserve e alle proteste non solo dei rappresentanti del pacifismo occidentale, il papa in testa, ma persino degli ambasciatori e dei giornalisti dei paesi arabi simpatizzanti per Saddam. L'informazione dava continuamente la parola all'avversario (mentre il fine di ogni politica bellica è bloccare la propaganda avversaria) e demoralizzava i cittadini delle singole parti nei confronti del proprio governo (mentre Clausewitz ricordava che condizione della vittoria è la coesione morale di tutti i combattenti). Ogni guerra del passato si basava sul principio che i cittadini, credendola giusta, fossero ansiosi di distruggere il nemico. Ora invece l'informazione non solo faceva vacillare la fede dei cittadini, ma li rendeva vulnerabili di fronte alla morte dei nemici - non più evento lontano e impreciso, ma evidenza visiva insostenibile. La guerra del Golfo è stata la prima volta in cui i cittadini compiangevano i nemici (qualcosa di simile si era profilato ai tempi del Viet Nam, anche se allora parlavano, in sedi ben specifiche e sovente marginali, i gruppi radicali americani, ma non si vedeva l'ambasciatore di Hô Chi Min o del generale Giap concionare alla BBC. Né si vedevano giornalisti americani che trasmettevano notizie da un hotel di Hanoi come Peter Arnett trasmetteva da un hotel di Baghdad). L'informazione pone il nemico nelle retrovie. Pertanto si stabiliva con la guerra del Golfo che nella Neoguerra odierna chiunque ha il nemico nelle retrovie. Quand'anche i media fossero imbavagliati, le nuove tecnologie della comunicazione permetterebbero flussi d'informazione inarrestabili - e neppure un dittatore può bloccarli, perché si avvalgono di infrastrutture tecnologiche minime a cui neppure lui può rinunciare. Questo flusso d'informazione svolge la funzione che nelle guerre tradizionali svolgevano i servizi segreti: neutralizza ogni azione di sorpresa - e non è possibile guerra in cui non si possa sorprendere l'avversario. La Neoguerra istituzionalizzava il ruolo di Mata Hari e produceva dunque una intelligenza col nemico generalizzata. Mettendo in gioco troppi poteri, spesso in conflitto reciproco, la Neoguerra già non era più un fenomeno in cui il calcolo e l'intenzione dei protagonisti avesse valore determinante. Per la moltiplicazione dei poteri in gioco (eravamo davvero all'inizio della globalizzazione) essa si distribuiva secondo assetti imprevedibili. Di conseguenza era anche possibile che l'assetto finale risultasse conveniente per uno dei contendenti ma, in linea di principio era perduta per entrambi. Affermare che un conflitto si è rivelato vantaggioso per qualcuno a un momento dato, implicherebbe che si identificasse il vantaggio "a un momento dato" col vantaggio finale. Ma ci sarebbe momento finale se la guerra fosse ancora, come voleva Clausewitz, la continuazione della politica con altri mezzi (per cui la guerra finirebbe quando si raggiungesse uno stato di equilibrio tale da consentire il ritorno alla politica). Ma già con le due grandi guerre mondiali del ventesimo secolo si era visto che la politica del dopoguerra sarebbe stata sempre e comunque la continuazione (con qualsiasi mezzo) delle premesse poste dalla guerra. Comunque la guerra andasse, essa, avendo provocato un riassetto generale che non poteva corrispondere pienamente alla volontà dei contendenti, si sarebbe prolungata in una drammatica instabilità politica, economica e psicologica per i decenni a venire, che altro non avrebbe potuto produrre che una politica guerreggiata. D'altra parte, è mai davvero accaduto diversamente? Decidere che le guerre classiche producessero dei risultati ragionevoli - un equilibrio finale - deriva da un pregiudizio hegeliano, per cui la storia ha una direzione. Non c'è prova scientifica (né logica) che l'assetto del Mediterraneo dopo le guerre puniche, o quello dell'Europa dopo le guerre napoleoniche, debba essere identificato con un equilibrio. Potrebbe essere identificato con uno stato di squilibrio che non si sarebbe verificato se non ci fosse stata la guerra. Il fatto che l'umanità abbia per decine di migliaia di anni praticato la guerra come una soluzione degli stati di squilibrio non è più probante del fatto che nello stesso periodo l'umanità abbia deciso di risolvere squilibri psicologici ricorrendo all'alcool o ad altre droghe. La prova che queste mie riflessioni di allora non fossero campate in aria è stata data dagli eventi che hanno seguito la guerra del Golfo. Le forze occidentali hanno liberato il Kuwait, ma poi si sono arrestate perché non potevano permettersi di procedere sino all'annientamento finale dell'avversario. L'equilibrio che ne è risultato non era poi tanto diverso da quello che aveva originato il conflitto, tanto è vero che ritorna continuamente sul tavolo il problema di come distruggere Saddam Hussein. Saddam non è finito a Sant'Elena, né è stato spinto al suicidio dagli agenti romani, come è accaduto ad Annibale. È che con la Neoguerra del Golfo si è profilato un problema assolutamente nuovo rispetto non solo alla logica e alla dinamica, ma alla stessa psicologia che governava le Paleoguerre. Il fine della Paleoguerra era distruggere quanti più nemici fosse possibile, accettando che morissero anche molti dei nostri. I grandi condottieri del passato percorrevano la notte, dopo la vittoria, un campo di battaglia disseminato di migliaia e migliaia di morti, e non erano stupiti del fatto che la metà di essi fossero propri soldati. La morte dei nostri veniva celebrata con medaglie e cerimonie commoventi, e dava origine al culto degli eroi. La morte degli altri era pubblicizzata, magnificata e i cittadini, a casa, dovevano godere e rallegrarsi per ogni nemico in più che fosse stato distrutto. Con il Golfo si stabiliscono due principi: (i) non dovrebbe morire nessuno dei nostri e (ii) che si dovrebbero uccidere gli avversari il meno possibile. Per quanto riguardava la morte degli avversari, nel Golfo abbiamo assistito a qualche reticenza e ipocrisia, perché nel deserto gli iracheni sono morti in grande quantità, ma il fatto stesso che si cercasse di non enfatizzare questo dettaglio era già un segno interessante. In ogni caso pareva ormai tipico della Neoguerra cercare di non uccidere i civili, se non per accidente, perché a ucciderne troppi si sarebbe incorsi nella riprovazione dei media internazionali. Di qui l'uso e la celebrazione delle bombe intelligenti. A molti giovani tanta sensibilità sarà forse parsa normale, dopo 50 anni di pace dovuti alla benefica guerra fredda, ma riuscite a immaginarvi questa sensibilità ai tempi in cui le V1 distruggevano Londra e le bombe alleate radevano al suolo Dresda? Per quanto riguarda i propri soldati, il Golfo è stato il primo conflitto in cui appariva inaccettabile perdere anche un solo uomo. Il paese in guerra non avrebbe sopportato la logica paleomilitare che vuole i propri figli pronti a morire, a migliaia e migliaia, per consentire la vittoria. La perdita di un aereo occidentale era sentita come un fatto dolorosissimo e si è giunti a celebrare, dagli schermi televisivi, militari catturati dal nemico che, per salvare la vita, avevano acconsentito a farsi interpreti della propaganda nemica (poverini, si diceva, sono stati costretti a suon di botte - dimenticando il sacro principio che il soldato catturato non parla neppure sotto tortura). Nella logica della Paleoguerra questi personaggi sarebbero stati additati al pubblico disprezzo - o almeno si sarebbe gettato un velo pietoso sul loro sfortunato incidente. Invece sono stati compresi, avvolti da sensi di calda solidarietà, premiati, se non dalle autorità militari, dalla curiosità mediatica, perché in fondo erano riusciti a sopravvivere. In poche parole, la Neoguerra era divenuta un prodotto mediatico, tanto che Baudrillard ha potuto dire, per paradosso, che non ha avuto luogo, ma è stata soltanto rappresentata televisivamente. I media vendono per definizione felicità e non dolore: i media erano obbligati a introdurre nella logica della guerra un principio di felicità massimale o almeno di sacrificio minimale. Ora, una guerra che non debba comportare sacrificio e si preoccupi di salvare il principio di felicità massimale deve durare poco. Così è stato per la guerra del Golfo. Ma è durata talmente poco da essere stata in larga parte inutile, altrimenti Bush non sarebbe ora qui a discutere se e quando attaccare Saddam. La Neoguerra era ormai in contraddizione con le stesse ragioni per cui veniva fatta. La Neoguerra del Kosovo Tutte le caratteristiche della Neoguerra, profilatesi ai tempi del Golfo, si sono riproposte con la guerra del Kosovo, e in misura ancora più intensa. Non solo i giornalisti occidentali rimanevano a Belgrado, ma l'Italia inviava aerei in Serbia e contemporaneamente manteneva relazioni diplomatiche e commerciali con la Jugoslavia, e le televisioni della Nato comunicavano ora per ora ai serbi quali aerei Nato stessero lasciando Aviano, agenti serbi sostenevano le ragioni del loro governo dagli schermi della televisione - e li abbiamo visti e sentiti. Ma non eravamo solo noi ad avere il nemico in casa. Anche loro. Ricorderete invece che una giornalista serba inviava giorno per giorno corrispondenze anti-Milosevic alla "Repubblica". Come bombardare una città i cui abitanti inviano lettere di amicizia al nemico manifestando ostilità verso il loro governo? Certo, anche Milano nel 1944, era abitata da tanti antifascisti che attendevano l'aiuto degli alleati, eppure questo non ha impedito agli alleati, per ragioni militari ineccepibili, di bombardare selvaggiamente Milano, e ai resistenti di non protestare, e pensare che fosse giusto. Invece nei bombardamenti di Belgrado vigeva un clima di vittimismo sia da parte di Milosevic, sia da parte dei serbi antimiloseviani, sia da parte degli occidentali che bombardavano. Di qui la pubblicità data all'uso delle bombe intelligenti, anche quando intelligenti non si dimostravano affatto. Ancora una volta, nella seconda Neoguerra non doveva morire nessuno, e in ogni caso meno che in Iraq, perché in fin dei conti i serbi erano bianchi ed europei come chi li bombardava, e alla fin fine si è dovuto persino proteggerli dagli albanesi, per proteggere i quali dai serbi era iniziato il conflitto. Il conflitto non era certo frontale e le parti in gioco non erano separate da una linea retta, ma da serpentine intrecciate. Non si era mai vista una guerra che si basasse tanto sul principio di felicità massimale e sacrificio minimo. Ragione per cui anche questa è dovuta durare pochissimo. Afghanistan Con l'11 settembre si verifica un nuovo ribaltamento della logica bellica. Si badi che con l'11 settembre non inizia la guerra afghana ma la confrontazione, ancora in atto, tra mondo occidentale e più specificamente tra Stati uniti e terrorismo islamico. Se l'11 settembre è stato l'inizio di un confronto bellico, in questa nuova fase della Neoguerra dovremmo dire che si è completamente dissolto il principio di frontalità. Anche coloro che pensano che il conflitto opponga il mondo occidentale a quello islamico sanno che in ogni caso il confronto non è più territoriale. I famosi 'stati canaglia' sono caso mai punti caldi di appoggio al terrorismo, ma il terrorismo oltrepassa territori e frontiere. Soprattutto, esso sta anche all'interno dei paesi occidentali. Questa volta e per davvero il nemico sta nelle retrovie. Salvo che ai tempi del Golfo e del Kosovo gli agenti nemici che agivano in casa li si conosceva (tanto è vero che andavano alla televisione), mentre col terrorismo internazionale la loro forza è che (i) essi rimangono ignoti, (ii) i media dei nostri non possono monitorarli come Peter Arnett monitorava la vita di Baghdad sotto i bombardamenti occidentali e (iii) del nemico potenziale non fanno parte soltanto dei soggetti etnicamente stranieri infiltratisi a casa nostra, ma potenzialmente anche dei nostri compatrioti - a tal punto che è possibile, ed è in ogni caso possibile pensare, che le buste all'antrace non fossero messe in circolazione da kamikaze musulmani ma da gruppi settari yankee, neonazisti o fanatici di altra specie. Inoltre il ruolo giocato dai media è stato ben diverso da quello che avevano avuto nelle due Neoguerre precedenti, dove al massimo davano voce alle opinioni dell'avversario. Ogni atto terroristico viene compiuto per lanciare un messaggio che appunto diffonda terrore, o come minimo inquietudine. Il messaggio terroristico destabilizza anche se l'impatto è minimo, e a maggior ragione destabilizza se l'obiettivo è un simbolo "forte". Quale era il proposito di Bin Laden nel colpire le due torri? Creare "il più grande spettacolo del mondo", mai immaginato neppure dai film catastrofici, dare l'impressione visiva dell'assalto ai simboli stessi del potere occidentale e mostrare che di questo potere potevano essere violati i maggiori santuari. Ora, se il fine di Bin Laden era colpire l'opinione pubblica mondiale con quella immagine, i mass media sono stati obbligati a darne notizia, a mostrare il dramma dei soccorsi, degli scavi, della skyline mutilata di Manhattan. Erano obbligati a ripetere quella notizia ogni giorno, e per almeno un mese, con foto, filmati, infiniti racconti ripetuti di testimoni oculari, reiterando agli occhi di chiunque l'immagine di quella ferita? È molto difficile rispondere. I giornali con quelle foto hanno aumentato le vendite, le televisioni con la ripetizione di quei filmati hanno aumentato gli ascolti, il pubblico stesso chiedeva di rivedere quelle scene terribili, vuoi per coltivare la propria indignazione, vuoi talora per inconscio sadismo. Forse era impossibile fare diversamente, sta di fatto che in questo modo i mass media hanno regalato a Bin Laden miliardi di dollari di pubblicità gratuita, nel senso che hanno mostrato ogni giorno le immagini che egli aveva creato, e proprio perché tutti le vedessero, gli occidentali per trarne ragione di smarrimento, i suoi seguaci fondamentalisti per trarne ragione di orgoglio. Così i mass media, mentre lo riprovavano, sono stati i migliori alleati di Bin Laden, che in questo modo ha vinto la prima mano. D'altra parte anche i tentativi di censurare o addolcire i comunicati che Bin Laden inviava attraverso Al Jazeera si sono rivelati in pratica fallimentari. La rete globale dell'informazione era più forte del Pentagono e dunque si ristabiliva il principio fondamentale della Neoguerra per cui il nemico ti parla in casa. Anche in questo caso la Neoguerra non ha messo più di fronte due Patrie, ma metteva in concorrenza infiniti poteri, salvo che questi vari poteri nelle due Neoguerre precedenti potevano lavorare per abbreviare il conflitto e indurre alla pace, mentre questa volta rischiano di prolungare la guerra. L'ex direttore della Cia ha detto mesi fa in una intervista a "Repubblica" che paradossalmente il nemico da bombardare sarebbero state le banche "off shore", tipo quelle delle Cayman Islands e forse quelle delle grandi città europee. Pochi giorni prima, a una trasmissione di Vespa, di fronte a una insinuazione del genere (che però era indebolita dal fatto di venire non dall'ex direttore della Cia ma da un no global), Gustavo Selva ha reagito sdegnato, dicendo che è pazzesco e criminale pensare che le grandi banche occidentali facciano il gioco dei terroristi. Ecco come un uomo politico di età ampiamente pensionabile mostrava di non essere neppure in grado di concepire la vera natura di una Neoguerra. Certamente l'aveva concepita qualcuno a Washington, e sappiamo benissimo che nella prima fase, intercorsa tra 11 settembre e l'inizio delle operazioni in Afghanistan, gli Stati Uniti avevano pensato di poter condurre il conflitto come grande guerra di spie, paralizzando il terrorismo nei suoi centri economici. Ma occorreva risarcire subito una opinione pubblica americana profondamente umiliata e l'unico modo di farlo subito è stato quello di riproporre una Paleoguerra. Così il conflitto afghano è stato nuovamente basato su confronto territoriale, scontro campale, modalità tattiche tradizionali, tanto da ricordare le campagne ottecentesche degli inglesi al Kyber Pass, e recuperava alcuni dei principi della Paleoguerra. (i) Non era, di nuovo, consentito all'informazione di minare l'efficacia delle operazioni militari dall'interno: di qui qualcosa di molto vicino alla censura. Che poi il sistema globale dell'informazione facesse sì che quello che non volevano dire i media americani lo dicesse una televisione araba era certo il segno che la Paleoguerra non è davvero possibile nell'era di Internet, ma si è tentato di tornarvi. (ii) Se l'avversario aveva vinto la prima mano dal punto di vista simbolico, lo si doveva annientare fisicamente. È rimasto il principio che si doveva rispetto formale ai civili innocenti (e dunque l'uso ancora una volta di bombe intelligenti), ma si è accettato che, quando non agivano gli occidentali bensì i locali dell'alleanza del nord, non si potesse evitare qualche massacro, su cui si cercava di sorvolare. (iii) Si è di nuovo accettato che si potessero perdere vite dei propri soldati e si è invitata la nazione a prepararsi a un nuovo sacrificio. Bush figlio, come il Churchill della seconda guerra mondiale, ha promesso ai suoi, sì, la vittoria finale, ma anche lacrime e sangue, mentre Bush padre non lo aveva fatto ai tempi del Golfo. La Paleoguerra afghana ha forse risolto i problemi che essa stessa ha posto (vale a dire che in talebani sono stati allontanati dal potere), ma non ha i risolto i problemi della Neoguerra di terza fase da cui è stata originata. Infatti se il fine della Neoguerra era eliminare il terrorismo internazionale islamico e neutralizzarne le centrali, è evidente che esse esistono ancora da altre parti, e l'imbarazzo è solo stabilire dove fare la seconda mossa; se il fine era eliminare Bin Laden, non è affatto evidente che vi si sia riusciti; se pure ci si fosse riusciti, forse si scoprirà che Bin Laden era figura certamente carismatica, ma che nella sua immagine non si risolveva il terrorismo fondamentalista islamico. Uomini acuti come Metternich sapevano benissimo che anche mandando Napoleone a morire a Sant'Elena non si eliminava il bonapartismo, e Metternich è stato costretto a perfezionare Waterloo col Congresso di Vienna (che tra l'altro non è bastato, come ha dimostrato la storia del XIX secolo). Quindi, sino a questo punto, la Neoguerra iniziata l'11 settembre non è stata vinta né risolta con la Paleoguerra afghana - e onestamente non saprei dirvi se e come Bush avrebbe potuto agire diversamente, né è questo il punto in discussione. Il punto è che, di fronte alle Neoguerre, pare che non ci siano comandi militari capaci di vincerle. A questo punto la contraddizione è massima e massima la confusione sotto il cielo. Da un lato sono cessate tutte le condizioni per cui si possa condurre una guerra, dato che il nemico si è totalmente mimetizzato, e dall'altro, per poter dimostrare che in qualche modo al nemico si tiene ancora testa, si debbono costruire simulacri di Paleoguerra, che però servono solo a tenere saldo il fronte interno, e a far dimenticare ai propri cittadini che il nemico non è là dove lo si sta bombardando, ma è tra noi. Di fronte a questo smarrimento l'opinione pubblica (di cui certi capipopolo si sono fatti interpreti) ha cercato disperatamente di ritrovare l'immagine di una Paleoguerra possibile, e la metafora è stata quella della crociata, dello scontro di civiltà, del rinnovato conflitto di Lepanto tra cristiani e infedeli. Se si è in fondo vinta militarmente la piccola Paleoguerra afghana, perché non sarebbe possibile vincere la Neoguerra globale, facendola diventare una Paleoguerra mondiale, noi bianchi contro i Mori? Messa così sembra una cosa da fumetto, ma il successo del libro di Oriana Fallaci ci dice che, se fumetto è, viene letto da molti adulti. I sostenitori della crociata non hanno pensato che, anche in questo caso, la crociata è pur sempre una forma di Paleoguerra che non può essere condotta nella situazione globale che ha creato le condizioni e le contraddizioni della Neoguerra. Sulla impossibilità della crociata, e al di là di ogni considerazione filosofica, morale o religiosa, avevo cercato di dire qualcosa nell'autunno scorso, tracciando provocatoriamente uno scenario di crociata possibile. Ripeto questo mio scenario, sperabilmente di pura fantascienza. Immaginiamo allora un confronto globale tra mondo cristiano e mondo musulmano - scontro frontale, dunque, come nel passato. Ma nel passato c'era un'Europa ben definita nei suoi confini, con il Mediterraneo tra cristiani e infedeli, e i Pirenei che tenevano isolata la propaggine occidentale del continente, ancora in parte araba. Dopo di che lo scontro poteva assumere due forme, o l'attacco o il contenimento. L'attacco è stato costituito dalle Crociate, ma si è visto che cosa è successo. L'unica crociata che ha portato a una effettiva conquista (con l'installazione di regni franchi in Medio Oriente) è stata la prima. Dopo meno di un secolo Gerusalemme è caduta di nuovo in mano ai musulmani e per un secolo e mezzo ci sono state altre sette crociate, che non hanno risolto nulla. L'unica operazione militare riuscita è stata più tardi la Reconquista della Spagna, ma non era una spedizione oltremare, bensì una lotta di riunificazione nazionale, che non ha eliminato il confronto tra i due mondi, bensì ne ha semplicemente spostato la linea di confine. Quanto al contenimento, si sono fermati i turchi davanti a Vienna, si è vinto a Lepanto, si sono erette torri sulle coste per avvistare i pirati saraceni, i turchi non hanno conquistato l'Europa, ma il confronto è rimasto. Poi l'occidente, atteso che l'oriente s'indebolisca, lo colonializza. Come operazione è stata certamente coronata da successo, e per lungo tempo, ma i risultati li vediamo oggi. Il confronto non è stato eliminato, bensì acuito. Se oggi si riproponesse lo scontro frontale, che cosa avrebbe questo scontro di diverso rispetto ai confronti del passato? Ai tempi delle crociate il potenziale bellico dei musulmani non era tanto dissimile da quello dei cristiani, spade e macchine ossidionali erano a disposizione di entrambi. Oggi l'occidente è in vantaggio quanto a tecnologia di guerra. È vero che il Pakistan, in mano ai fondamentalisti, potrebbe usare l'atomica, ma al massimo riuscirebbe, diciamo, a radere al suolo Parigi, e subito le sue riserve nucleari verrebbero distrutte. Se cade un aereo americano ne fanno un altro, se cade un aereo siriano avrebbero difficoltà ad acquistarne uno nuovo in occidente. L'Est rade al suolo Parigi e l'Ovest getta una bomba atomica sulla Mecca. L'Est diffonde il botulino per posta e l'Ovest gli avvelena tutto il deserto d'Arabia, come si fa coi pesticidi nei campi sterminati del Midwest, e muoiono persino i cammelli. Benissimo. Non sarebbe neppure una cosa troppo lunga, un anno al massimo, poi si continua tutti con le pietre, ma loro avrebbero forse la peggio. Salvo che c'è un'altra differenza rispetto al passato. Ai tempi delle crociate i cristiani non avevano bisogno del ferro arabo per fare le loro spade, né i musulmani del ferro cristiano. Oggi invece anche la nostra tecnologia più avanzata vive sul petrolio, e il petrolio ce l'hanno loro, almeno per la maggior parte. Loro da soli, specie se gli bombardi i pozzi, non ce la fanno più ad estrarlo, ma noi rimaniamo senza. L'occidente dovrebbe dunque ristrutturare tutta la sua tecnologia in modo da eliminare il petrolio. Visto che ancora oggi non siamo riusciti a fare un automobile elettrica che vada a più di ottanta chilometri all'ora e non impieghi una notte per ricaricarsi, non so quanto tempo questa riconversione prenderà. Anche a propellere aerei e carri armati, e a far funzionare le nostre centrali elettriche a energia atomica, senza calcolare la vulnerabilità delle nuove centrali, ci vorrebbe molto tempo. Poi vorrei vedere se le Sette Sorelle ci stanno. Non mi stupirei se dei petrolieri occidentali, pur di continuare a fare profitti, fossero pronti ad accettare un mondo islamizzato. Ma la cosa non finisce qui. Ai bei tempi andati i saraceni stavano da una parte, oltremare, e i cristiani dall'altra. Oggi invece l'Europa è piena di islamici, che parlano le nostre lingue e studiano nelle nostre scuole. Se già oggi alcuni di loro si allineano coi fondamentalisti di casa loro, immaginiamoci se ci trovassimo al confronto globale. Essa sarebbe la prima guerra col nemico non solo sistemato in casa, ma assistito dalla mutua. Si badi bene che lo stesso problema si porrebbe al mondo islamico, che ha a casa propria industrie occidentali, e addirittura enclaves cristiane, come l'Etiopia. Siccome il nemico è per definizione cattivo, tutti i cristiani d'oltremare li diamo per perduti. La guerra è guerra. Sono già in partenza carne da foiba. Poi li canonizzeremo tutti in piazza San Pietro. Che cosa facciamo invece a casa nostra? Se il conflitto si radicalizza oltre misura, e crollano altri due o tre grattacieli, o addirittura San Pietro, si avrà la caccia al musulmano. Una sorta di notte di San Bartolomeo o di Vespri Siciliani: si prende chiunque abbia i baffi e la carnagione non chiarissima e lo si sgozza. Si tratta di ammazzare milioni di persone, ma ci penserà la folla senza scomodare le forze armate. Potrebbe prevalere la ragione. Non si sgozza nessuno. Ma anche i liberalissimi americani, all'inizio della seconda guerra mondiale, hanno messo in campo di concentramento, sia pure con molta umanità, tutti i giapponesi che avevano in casa, anche se erano nati laggiù. Quindi (e sempre senza guardare per il sottile) si vanno a individuare tutti coloro che potrebbero essere musulmani - e se sono, per esempio, etiopici cristiani pazienza, Dio riconoscerà i suoi - e li si mette da qualche parte. Dove? A fare dei campi di prigionia, con la quantità di extracomunitari che girano per l'Europa, si avrebbe bisogno di spazio, organizzazione, sorveglianza, cibo e cure mediche insostenibili, senza contare che quei campi sarebbero delle bombe pronte a esplodere. Oppure li si prende, tutti (e non è facile, ma guai se ne resta appena uno, e bisogna farlo subito, in un colpo solo), li si carica su una flotta di navi da trasporto e si scaricano... Dove? Si dice "scusi signor Gheddafi, scusi signor Hussein, mi prende per favore questi tre milioni di turchi che cerco di sbatter fuori dalla Germania"? L'unica soluzione sarebbe quella degli scafisti, li si butta a mare. Milioni di cadaveri a galla sul Mediterraneo. Voglio vedere il governo che decide di farlo, altro che desaparecidos, persino Hitler massacrava poco alla volta e di nascosto. Come alternativa, visto che siamo buoni, li lasciamo stare tranquilli a casa nostra, ma dietro a ciascuno mettiamo un agente della Digos che lo sorvegli. E dove trovi tanti agenti? Li arruoli tra gli extracomunitari? E se poi ti viene il sospetto sorto negli Stati Uniti, dove le compagnie aeree, per risparmiare, facevano fare i controlli aeroportuali a immigrati dal terzo mondo, e poi gli è venuto in mente che potessero non essere affidabili? Naturalmente tutte queste riflessioni potrebbe farle, dall'altra parte della barricata, un musulmano ragionevole. Il fronte fondamentalista non sarebbe certo del tutto vincente, una serie di guerre civili insanguinerebbe i loro paesi portando a orribili massacri, i contraccolpi economici ricadrebbero anche su di loro, avrebbero meno cibo e meno medicine delle poche che hanno oggi, morirebbero come mosche. Ma se si parte dal punto di vista di uno scontro frontale, non ci si deve preoccupare dei loro problemi bensì dei nostri. Tornando dunque all'Ovest, si creerebbero all'interno del nostro schieramento gruppi filoislamici, non per fede ma per opposizione alla guerra, nuove sette che rifiutano la scelta dell'occidente, ghandiani che incrocerebbero le braccia e si rifiuterebbero di collaborare coi loro governi, fanatici come quelli di Waco che inizierebbero (senza essere fondamentalisti musulmani) a scatenare il terrore per purificare l'occidente corrotto. Si creerebbero per le strade di Europa cortei di oranti che attendono disperati e passivi l'Apocalisse. Ma non è indispensabile pensare solo a queste frange. Accetterebbero tutti la diminuzione dell'energia elettrica senza neppure poter ricorrere alle lampade a petrolio, l'oscuramento fatale dei mezzi di comunicazione e quindi non più di un'ora di televisione al giorno, i viaggi in bicicletta anziché in automobile, i cinematografi e le discoteche chiuse, la coda ai McDonalds per avere la razione giornaliera di una fettina di pane di crusca con una foglia d'insalata, insomma la cessazione di una economia della prosperità e dello spreco? Figuriamoci che cosa importa a un afghano o a un profugo palestinese vivere in economia di guerra, per loro non cambierebbe nulla. Ma noi? A quale crisi di depressione e demotivazione collettiva si andrebbe incontro? Saremmo disposti ad accettare l'appello di un nuovo Churchill che ci promettesse lacrime e sangue? Quanto si identificherebbero ancora con l'occidente i neri di Harlem, i diseredati del Bronx, i chicanos della California? Infine, che cosa farebbero i paesi dell'America Latina, dove molti, senza essere musulmani, hanno elaborato sentimenti di rancore verso i gringos, tanto che anche laggiù, dopo la caduta delle due torri, c'è chi sussurra che i gringos se la sono cercata? Insomma, la guerra globale potrebbe certo vedere un Islam meno monolitico di quello che si pensa, ma certo vedrebbe una cristianità frammentata e nevrotica, dove pochissimi si candiderebbero a essere i nuovi Templari, ovvero i kamikaze dell'occidente. Questo è, l'ho detto, uno scenario di fantascienza, che non vorrei mai vedere realizzato. Ma va disegnato per mostrare che, il giorno che si realizzasse, non porterebbe alla vittoria di nessuno. Quindi, anche trasformandosi in Paleoguerra globale la Neoguerra di terza fase non condurrebbe ad alcun risultato che non fosse la sua continuazione perenne in uno scenario desolato da Conan il Barbaro. Il che significa che nell'era della globalizzazione una guerra globale è impossibile, ovvero che porterebbe alla sconfitta di tutti. Quando scrivevo le mie riflessioni sulla Neoguerra del Golfo, la conclusione che la guerra fosse ormai impossibile mi portava alla idea che forse era giunto il momento di dichiarare il tabù universale della guerra, ma mi rendo ora conto, dopo le esperienze successive, che si trattava di una pia illusione. Oggi la mia impressione è che, poiché la Neoguerra non ha né vincitori né vinti, e le Paleoguerre non risolvono nulla se non sul piano della soddisfazione psicologica del vincitore provvisorio, il risultato sarà una forma di Neoguerra permanente, con tante Paleoguerre periferiche sempre riaperte e sempre provvisoriamente richiuse. Immagino che la cosa non piaccia perché, tutti voi che mi ascoltate, siete affascinati dall'ideale della Pace. L'idea che l'inutilità delle Neoguerre potesse portare a prendere sul serio la Pace era certamente molto bella, ma è appunto irrealistica. È che la vicenda stessa della Neoguerra ci induce a riflettere sulla natura equivoca della nozione di Pace. Quando si parla di pace e si auspica la pace, si pensa sempre (nella misura consentita dal nostro orizzonte di visione) a una pace universale o globale. Non parleremmo di pace se pensassimo solo al bene di una pace per pochi, altrimenti andremmo ad abitare in Svizzera - o entreremmo in un monastero, come si usava fare in tempi molto bui di invasione permanente. La pace o si propone come concetto globale, pare, o non vale la pena di pensarla. Il secondo modo di pensare la pace, complementare al primo, è che essa sia situazione originaria. Dall'idea di una condizione edenica a quella di una età dell'oro, si è sempre caldeggiata la pace pensando che si trattasse di restaurare una condizione primordiale dell'umanità (che contemplava persino la pace tra mondo umano e mondo animale) che era stata a un certo punto corrotta da un atto di odio e sopraffazione. Ma non dimentichiamo che, di fronte ai miti dell'età dell'oro, Eraclito ha avuto il coraggio di affermare che, se tutto scorre, allora "la lotta è la regola del mondo e la guerra è comune generatrice e signora di tutte le cose" Seguiranno a ruota lo homo homini lupus di Hobbes e lo struggle for life di Darwin. Proviamo allora a immaginare che la curva generale dell'entropia sia dominata dal conflitto, dalla distruzione e dalla morte, e che le isole di pace siano quelle che Prigogyne chiama strutture dissipative, momenti di ordine, piccoli e graziosi bubboni della curva generale dell'entropia, eccezioni alla guerra, che costano molta energia per poter sopravvivere. Passando dalla scienza alla metafora (non esiste chi sappia una scienza della pace) direi che la pace non è uno stato che già ci era stato donato, che si tratta solo di restaurare, ma una faticosissima conquista, come quelle che avvenivano nelle guerre di trincea, pochi metri alla volta, e a costo di molte morti. Le grandi Paces che abbiamo conosciuto nella storia, quelle che riguardavano ampli territori, come la Pax Romana o ai giorni nostri la Pax Americana (ma c'è stata anche una Pax Sovietica che ha tenuto a freno per settant'anni territori ora in ebollizione e mutuo conflitto), e quella grande e benedetta Pax del primo mondo che si chiamava Guerra Fredda e che tutti rimpiangiamo (ma forse potremmo, che so, andare alla ricerca della struttura della Pax Mogul, o della Pax Cinese) sono state il risultato di una conquista e di una pressione militare continua, per cui si manteneva un certo ordine e si riduceva la conflittualità al centro a prezzo di tante piccole guerre (Paleoguerre) periferiche. Le grandi Paces sono state il risultato di una potenza militare. La cosa può piacere a chi sta dentro all'occhio del ciclone, ma chi se ne sta ai margini subisce le Paleoguerre che servono a mantenere l'equilibrio del sistema. Come a dire che, se si ha pace, la pace è sempre la nostra, mai quella degli altri. Citatemi un solo esempio di pace nel mondo, almeno negli ultimi millenni, che sia sfuggito a questa regola sciaguratamente non aurea ma certamente ferrea. Se c'è qualcosa di valido nella tematica no global è la persuasione che i vantaggi di una globalizzazione pacifica si pagano con gli svantaggi di chi vive alla periferia del sistema. Cambierà forse questa regola della pace con l'avvento delle Neoguerre? Direi proprio di no perché, a riassumere quanto ho cercato di dire sinora, dalle Paleoguerre alla Neoguerra di Terza Fase si sono verificati questi cambiamenti: (i) Le Paleoguerre creavano uno stato di squilibrio transitorio e bilaterale tra due contendenti, lasciando un equilibrio generico alla periferia dei neutrali. (ii) La Guerra Fredda ha creato un equilibrio forzoso, surgelato, al centro dei due primi mondi, a prezzo di molti squilibri transitori in tutte le periferie, agitate dal tante piccole Paleoguerre. (iii) La Neoguerra di terza fase promette uno squilibrio permanente al centro - divenuto territorio di inquietudine quotidiana e di attentati terroristici permanenti - contenuto a titolo di salasso permanente da una serie di Paleoguerre periferiche, di cui l'Afghanistan è stato solo il primo esempio. Quindi, se ne conclude che stiamo certamente peggio di prima, visto che è crollata anche l'illusione, data dalla guerra fredda, che almeno al centro dei primi due mondi ci fosse uno stato di pace. In fondo è la perdita di questa pace quella che gli americani hanno avvertito sulla propria pelle l'11 settembre, e di qui il loro shock. Non credo che su questo globo di uomini che sono lupi ai propri fratelli si raggiungerà la pace globale. In fondo lo ha pensato Fukuyama con la sua idea della fine della storia, ma gli eventi recenti hanno dimostrato che la storia riprende e sempre in forma di conflitto. Se la pace globale è il prodotto della guerra - e quanto più la guerra diventa autofaga e incapace di risolvere i problemi che l'hanno determinata, tanto più la pace diventa impossibile - che cosa rimane per chi crede che la pace sia una conquista e non una eredità da pretendere per grazia divina? Rimane la possibilità di lavorare per una pace a chiazza di leopardo, creando ogni volta che si può situazioni pacifiche nella immensa periferia delle Paleoguerre che si susseguiranno ancora l'una dopo l'altra. Badate che se la pace universale è sempre il risultato di una vittoria militare, la pace locale può nascere da una cessazione della belligeranza. Per raggiungere una pace locale non è necessario fare guerre. Una pace locale si stabilisce quando, di fronte alla stanchezza dei contendenti, una Agenzia Negoziatrice si propone come mediatore. La condizione per la mediazione è che la Paleoguerra fosse marginale e, tanto tempo dopo il suo inizio, i media non la seguano più con troppo interesse. A quel punto chi accetta la mediazione non perde la faccia di fronte all'opinione pubblica internazionale. Perifericità del conflitto e memoria corta dei media sono dunque condizione essenziale della mediazione pacifica. Nessuna negoziazione o mediazione pare capace, oggi come oggi, di sanare uno squilibrio centrale, specie se esso non dipende più dalla volontà di alcun governo. Non è quindi prevedibile un progetto di pace per la Neoguerra di terza fase, ma solo per ciascuna delle Paleoguerre che essa produce. Una serie successiva di paci locali potrebbe, agendo da salasso, diminuire nel lungo periodo le condizioni di tensione che tengono in vita la Neoguerra permanente. Il che significa - se il ridurre il progetto a un esempio non rischia di farne perdere di vista la flessibilità e l'applicabilità a situazioni molto diverse tra loro, minime e massime - che una pace fatta oggi a Gerusalemme certamente contribuirebbe alla riduzione della tensione in tutto l'epicentro della Neoguerra globale. Ma anche se non si raggiungesse sempre e comunque questo risultato, una pace realizzata come piccola bolla nella curva generale del disordine entropico, anche se non fosse né meta finale né tappa verso una meta precisa, rimarrebbe pur sempre esempio e modello. La pace come esempio. Può essere, se volete, e per omaggio a chi mi ha invitato stasera, un concetto molto cristiano, ma avverto che sarebbe stato accettato anche da molti saggi pagani: facciamo la pace tra noi due, sia pure e soltanto tra Montecchi e Capuleti, questo non risolverà i problemi del mondo ma mostrerà che una negoziazione è sempre e ancora possibile. Il lavoro per la riduzione dei conflitti locali serve a dare la fiducia che un giorno si risolveranno anche i conflitti globali. È pia illusione, ma talora bisogna mentire con l'esempio. Mente male chi mente a parole, ma mente bene chi, facendo qualcosa, lascia pensare che altri possano fare altrettanto, anche se mente in quanto lascia pensare attraverso l'esempio che una proposizione particolare (alcuni p fanno q) possa necessariamente trasformarsi in proposizione universale (tutti i p fanno q). Ma queste sono le ragioni per cui l'etica (e la retorica) non sono logica formale. L'unica nostra speranza è lavorare sulle paci locali.
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