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La nonviolenza e' in cammino. 338
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 338
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 11 Jan 2002 00:21:12 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 338 del 10 gennaio 2002 Sommario di questo numero: 1. Non uccidere 2. Marco D'Eramo, l'esempio del Kuwait 3. Luciano Dottarelli: tra Rousseau e Martin Fierro. Radici profonde del pensiero di Ernesto Che Guevara 4. Laura Conti, in realta' sappiamo 5. Rossana Rossanda, gli storici diranno 6. Vandana Shiva, l'attuale integrazione globale 7. Riletture: David Cayley, Conversazioni con Ivan Illich 8. Riletture: Robert Jungk, L'onda pacifista 9. Riletture: Nuto Revelli, L'ultimo fronte 10. La "Carta" del Movimento Nonviolento 11. Per saperne di piu' 1. IL PUNTO. NON UCCIDERE Non vi e' possibilita' alcuna di fondare una societa' se non ci si accorda su questo: non uccidere. Non vi e' possibilita' alcuna di salvare l'umanita' dalla catastrofe se non ci si accorda su questo: non uccidere. Tutto cio' che e' ordinato all'uccidere e' contro l'umanita' intera, e quindi contro ogni singolo essere umano: le armi, gli armati, gli eserciti, le guerre. Cessare di produrre le armi, questo occorre; disarmare tutti gli armati, questo occorre; abolire tutti gli eserciti, questo occorre; impedire tutte le guerre: questo occorre. Ma oltre a dirlo, cosa abbiamo saputo fare in questi terribili mesi? 2. INFORMAZIONE. MARCO D'ERAMO: L'ESEMPIO DEL KUWAIT [Marco D'Eramo, giornalista e saggista, scrive sul quotidiano "Il manifesto"; questo articolo e' apparso nell'edizione dell'8 gennaio] "Ciao Marco, scusa se ti rispondo tardi... posso vedere Al Jazira solo quando vado dalla mia vecchia zia perche' la sua infermiera siriana la guarda avidamente e cosi'... Le ho chiesto cosa stava succedendo... la voce ricorrente e' che tutto e' cominciato quando gli americani hanno bombardato le Twin Towers e hanno dato la colpa ai taleban solo per poter invadere l'Afghanistan perche' vi era stato appena scoperto il petrolio! Il sentimento prevalente qui tra i "barbuti" e' che Osama bin Laden abbia avuto ragione non nel distruggere il World Trade Center ma perche' ha verbalizzato l'antagonismo sentito dagli arabi nei confronti degli americani. Il governo kuwaitiano ha chiuso 45 filiali delle opere pie islamiche, col pretesto che non erano registrate correttamente, ma le organizzazioni madri funzionano ancora e c'e' un legame tra alcune di loro e militanti islamici; alcuni conti bancari sono stati congelati qui e a Londra. Un paio di mesi fa due canadesi, un uomo e una donna, erano stati uccisi a pistolettate qui da un uomo vestito all'afghana/pakistana che gridava 'Allah akbar' mentre gli sparava. Da allora gli stranieri biondi stanno mantenendo un basso profilo, c'e' una mia amica inglese il cui marito le proibisce di uscire se non e' proprio necessario. Se hai capelli chiari o parli inglese c'e' un senso di disagio quando vai in posti frequentati dai "barbuti", come alle grandi sale da esposizione o al mercato del venerdi. Invece i grandi centri commerciali e i supermercati occidentalizzati sono ancora OK. Gli affari vanno male per i negozi. Andavano gia' male prima, ma adesso e' peggio e la gente in genere e' depressa, con quel che e' successo in Afghanistan, quel che sta avvenendo in Palestina... e se ora bombardano l'Iraq... E c'e' una riluttanza a viaggiare, tranne che per lavoro... Dubai e' stata colpita duramente... e' davvero molto calma e molti hotel stanno offrendo sconti del 50% e la gente e' un po' timorosa di andare in Arabia Saudita dove prima c'era stato un attentato alla bomba. Qui ci sono stati molti allarmi di attentati nelle scuole americane e anche in una compagnia che per piu' di un mese dopo l'11 settembre aveva assegnato a tempo pieno un impiegato americano alla colletta per le vittime delle Twin Towers. Per il resto tutto va bene e spero il mese prossimo di andare in Kerala per il matrimonio del figlio di un mio amico...". * Cosi', un paio di settimane fa, rispondeva alla mia domanda "che aria tira da voi?" una persona che ho conosciuto in Kuwait quando sono stato mandato la' da una rivista di viaggi per - missione un po' stravagante - cercare di capire "se le donne kuwaitiane stanno diventando un po' piu' libere grazie al consumismo occidentale dei grandi centri commerciali". Il Kuwait costituisce infatti la principale obiezione a chi sostiene che il fondamentalismo islamico sia incompatibile con la civilta' occidentale, anzi costituisca il suo peggior nemico: appena atterri all'aeroporto, hai l'impressione di avere sbagliato volo e di essere arrivato a Houston e non a Kuwait City: lo stesso sbuffo di aria calda, le stesse autostrade (in Kuwait la segnaletica e' verde come negli Usa), gli stessi macchinoni fuoristrada, stesse schiere sterminate di casette unifamiliari. E poi stessi malls, stesso sfarzo opulento e grassoccio. Certo, qualche stonatura c'e': a guidare i macchinoni vedi spesso donne infagotatte in vestiti che paiono sacchi di patate neri che le coprono dalla testa ai piedi. Ma nel complesso, piu' scorrono i giorni a Kuwait City, piu' ti sembra che questo paese sia "l'America meno la liberta'", anche perche' la sua classe dominante e' anglofona, ha frequentqato scuole americane e inglesi, passa le vacanze a Londra e negli States. * Il Kuwait ti offre cioe' l'immagine di una possibile variante al modello statunitense, di una diversa modernita' americana, quella di una societa' consumistica, tecnologica, affluente, motorizzata, climatizzata, asfaltata, parabolica, e insieme bigotta, fondamentalista, oppressiva, autoritaria, schiavista (e sessuofobica - almeno in apparenza). Forse e' proprio la bigotteria a richiamare il Texas che e' lo stato piu' fondamentalista degli Usa, il nucleo di quella che negli Stati Uniti viene chiamata la Bible belt, la "cintura della Bibbia", cioe' della bigotteria, proprio come esistono una corn belt, una snow belt, una sun belt, una rust belt (la cintura del mais e' quella delle pianure del Mid West; la cintura della neve sono gli stati al confine col Canada; la cintura del sole va dalla California al New Mexico; la cintura della ruggine, comprende i vecchi stati industrializzati in rovina). Il Texas, dove i grandi quotidiani locali pubblicano due pagine al giorno di notizie religiose: a confronto, il Kuwait Times e' un campione di laicita' (ed e' anche un ottimo giornale formato grande, con otto pagine al giorno dedicate alla politica estera fuori dal Golfo: Corriere della Sera e Stampa non ne hanno mai piu' di quattro, salvo eventi eccezionali). D'altronde non puo' non colpire l'ironia della situazione che ha posto a combattere l'integralismo islamico un presidente statunitense proveniente dallo stato Usa piu' bigotto ed eletto coi voti dei fondamentalisti cristiani. C'e' pero' una risposta che ha continuato a intrigarmi mentre intervistavo kuwaitiane dopo kuwaitiane, giovani, anziane, artiste, funzionarie, banchiere, giornaliste, registe, dottoresse, donne di affari (ma tutte inesorabilmente appartenenti a famiglie principesche o almeno a una delle 36 grandi famiglie di mercanti che costituiscono l'originaria elite kuwaitiana). Ed e' che le anziane rimpiangevano la propria liberta' negli anni '60 e le giovani ti raccontavano quanto fossero libere le loro mamme negli anni '60. "Mia mamma vestiva in minigonna" (le donne emancipate oggi vestono comunque con i pantaloni o con gonne sotto il ginocchio). "Allora potevamo andare a studiare all'estero, viaggiare da sole": e basta questa frase a farti capire come fosse ingannatore il dato statistico che era sembrato a prima vista prova dell'emancipazione femminile: e cioe' che il 70% degli studenti dell'universita' di Kuwait sono donne. E' vero, ma solo perche' i maschi vanno a studiare all'estero, mentre le ragazze sono costrette a rimanere a studiare in patria. * Ma cio' vuol dire che negli anni '60 il paese non era fondamentalista. Che e' successo in questi 40 anni? Intanto si puo' dire che 40 anni fa il Kuwait praticamente non esisteva. Aveva solo 200.000 abitanti. Oggi vi vivono 2,4 milioni di persone, di cui soltanto 800.000 kuwaitiani. Esplosione demografica certo, ma soprattutto importazione massiccia di immigrati (e' come se in Italia ci fossero 55 milioni di italiani e 110 milioni di stranieri). E' cambiata quindi la natura della societa' kuwaitiana. I cittadini vivono di rendita, non pagano tasse; scuola, medicina (e anche telefonino) sono gratis, tutti impiegati statali ma in realta' nullafacenti; e tutta la macchina statale, istruzione, sanita', magistratura, e' portata avanti dagli immigrati. Per entrare in Kuwait ogni immigrato deve avere uno sponsor cui e' legato per cinque anni e che spesso lo fa lavorare gratis per avergli consentito di farlo entrare. Se scappa, viene ricercato dalla polizia e la sua foto e' pubblicata sui giornali. Ecco perche' e' uno schiavismo tecnologico. Da quest'ingranaggio di oppressione e' nato tutto il resto. Poiche' tra gli oppressi si facevano strada idee di sinistra, negli anni '70 la famiglia regnante, al-Sabah (composta da 5.000 membri), ha cominciato a favorire i fondamentalisti (proprio come Israele e Usa appoggiavano Hamas per indebolire l'organizzazione laica Al Fatah di Arafat). Alla fine degli anni '70 l'ondata khomeinista nel vicino Iran si e' ripercossa anche in questo emirato dove il 25% della popolazione e' sciita: l'Alleanza Islamica nazionale rappresenta gli sciiti in Kuwait, ha 5 seggi in parlamento, ma non e' il gruppo piu' misogino (appoggia la richiesta di diritti civili per le donne, a cominciare da quelli elettorali). No, il vero fattore destabilizzante per la laicita' kuwaitiana e' venuto dagli immigrati, soprattutto dopo la guerra del Golfo, quando furono cacciati 400.000 immigrati palestinesi di cultura e mentalita' laica. Furono sostituiti in massa da egiziani che ne presero il posto di insegnanti e di giudici. E molti erano Fratelli Musulmani, l'associazione fondamentalista nata in Egitto intorno al 1920. Oggi i Fratelli Musulmani controllano 7 dei 66 seggi parlamentari (su 800.000 cittadini, le donne non possono votare, ma non votano neanche i membri delle forze armate e chi non e' kuwaitiano da tre generazioni: risultato, gli elettori sono meno di 100.000). Sono stati i Fratelli Musulmani a diffondere nelle scuole tra le ragazze kuwaitiane l'obbligo del velo e di vestirsi come sacchi neri di patate. I palestinesi sono stati sostituiti anche da immigrati del subcontinente indiano, di preferenza musulmani (pakistani, bengalesi): cosi' negli ultimi anni sono giunti nel Golfo Persico parecchi studenti delle madrassa pakistane, che in Afghanistan sono chiamati taleban. Ma la guerra del Golfo degli americani ha agito anche in un altro modo, visto che durante i quasi 7 mesi di occupazione irachena tutta l'elite kuweitiana si era rifugiata in Arabia Saudita. Tornando, ha importato il fondamentalismo islamico di tendenza wahabita. E infatti oggi il movimento Salafi, wahabita, controlla almeno tre seggi in parlamento. * Cosi', per il gioco incrociato della struttura di classe, dell'importazione di mano d'opera e conseguenti ondate migratorie, della lotta contro la sinistra politica, degli effetti inattesi della guerra del Golfo, un regime un tempo abbastanza laico si sta integralizzando sempre piu'. Si fa chiaro quindi come sia grave il nostro errore prospettico che vede nel fondamentalismo solo un residuo del passato che ogni tanto riemerge a ostacolare il passo trionfante della modernita'. Mentre a uno sguardo ulteriore l'integralismo si rivela un prodotto della modernita', dei suoi mezzi di comunicazione e di trasporto, dei flussi umani messi in moto dalla globalizzazione degli scambi. In Kuwait oggi i fondamentalisti controllano le associazioni studentesche. Sempre piu' spesso i supermercati cooperativi di quartiere eleggono nei loro consigli di amministrazione rappresentanti integralisti. Un "integralismo in fuoristrada", che viaggia in Cherokee (Chevrolet) o in Pajero (Ford), mentre parla al telefonino, guarda la tv satellitare e compensa tutti i divieti alcoolici e sessuali con una bulimia infinita (che anch'essa accomuna il Kuwait agli Usa). Solo con quest'intreccio di scuole coraniche e americanizzazione si puo' capire come la dinastia che e' stata rimessa sul trono dalle portaerei Usa abbia negato ai propri protettori il permesso di far partire dalle basi in Kuwait gli aerei per i bombardamenti in Afghanistan. 3. STUDI. LUCIANO DOTTARELLI: TRA ROUSSEAU E MARTIN FIERRO. RADICI PROFONDE DEL PENSIERO DI ERNESTO CHE GUEVARA [Il testo seguente e' la stesura ampliata dell'intervento di Luciano Dottarelli al convegno nazionale della Fondazione Guevara svoltosi ad Acquapendente il 15-17 giugno 2001. Esso e' apparso nel volume 4, del 2001, degli annuali "Quaderni della Fondazione Ernesto Che Guevara". Ringraziamo l'autore per avercelo messo a disposizione. Luciano Dottarelli e' docente e saggista; agli studi filosofici unisce una rilevante ed apprezzata esperienza amministrativa: già sindaco di Bolsena, attualmente e' capogruppo DS al Consiglio Provinciale di Viterbo. Opere di Luciano Dottarelli: Popper e il "gioco della scienza", Erre Emme, Roma 1992; Kant e la metafisica come scienza, Ere Emme, Roma 1995. Ha recentemente curato una edizione italiana di Immanuel Kant, Saggio sulle malattie della mente, Massari, Bolsena 2001] C'e' un modo per cavarsela piuttosto a buon mercato di fronte agli interrogativi posti alla nostra passione e alla nostra ragione dalla straordinaria esperienza umana e storica di quel "piccolo profeta ambulante che annuncia l'avvento del giudizio finale con stentorea voce che" - come lo stesso Ernesto Guevara ebbe a definirsi in una lettera alla madre (1). E' quello di indugiare sulla coerenza estrema, fino al sacrificio della vita, con cui egli ha saputo testimoniare le sue idee. E' certamente anche questa rigorosa, limpida coerenza che spiega l'aura di rispetto e di ammirazione che circonda la figura del Che, persino presso gli avversari delle sue idee, ed essa costituisce il nocciolo di autenticita' che si puo' rintracciare al fondo dello stesso fenomeno del consumo superficiale della sua icona. Non c'e' dubbio che la coerenza sia un valore, un prerequisito essenziale per valutare la verita' di una teoria, o, nel caso di un comportamento, la sua legittimita' a proporsi come un modello per il nostro agire. Tuttavia, come la congruenza interna di una dottrina non vale di per se' come dimostrazione della sua verita', cosi' il riconoscimento di una rigorosa consequenzialita' tra i principi proclamati e la prassi non puo' esimere da una valutazione riguardo all'adeguatezza di quei principi alla concreta situazione storica, all'efficacia complessiva della loro traduzione pratica e, da ultimo, alla loro portata universale, alla capacita' di trascendere il proprio tempo per continuare a parlare a chi oggi, come Ernesto Guevara allora, intende lottare per la liberazione dall'asservimento e dal bisogno. Se avvertiamo cosi' forte la necessita' di cogliere la figura del rivoluzionario agentino nel "gorgo storico, culturale, esistenziale in cui concretamente visse, opero', penso'" - come ricordava Peppe Sini in un lucido intervento al convegno del 2000 della Fondazione "Ernesto Che Guevara" (2) - cio' non risponde soltanto ad uno scrupolo metodologico di necessaria contestualizzazione, rivela anche la consapevolezza che la sua testimonianza giunge a noi trascinandosi dietro tutta la concretezza, ma anche il fardello, del suo tempo storico. Egli continua a parlare soprattutto come exemplum, come viva rappresentazione sensibile dell'indignazione per l'ingiustizia, dell'ansia di liberazione e del compito "magnifico ed angoscioso" del rivoluzionario. La figura del Che continua ad essere presente con tutta la sua ricchezza di determinazioni concrete ed umane, ma anche - hegelianamente - con tutti i suoi limiti di universalita'. Riconoscere questo fatto non credo significhi sottovalutare il suo pensiero. E' lo stesso Guevara a riconoscere piu' volte la natura eclettica ed incerta della sua riflessione teorica ed, anzi, forse e' proprio questo carattere di disorganicita' e di perenne incompiutezza ad attenuare le cadute dogmatiche, tutt'altro che infrequenti nei suoi scritti. I tentativi di valorizzare il suo contributo teorico mettono di solito l'accento soprattutto su due aspetti: la critica del determinismo economicistico e l'umanesimo rivoluzionario. Si tratta di componenti indubbiamente rilevanti nel pensiero dell'ultimo Guevara, ma esse emergono con fatica, e non senza sbandamenti, in un orizzonte teorico eterogeneo e raramente originale, che resta ancora segnato dalla precedente adesione acritica agli schemi ideologici del marxismo sovietico, perfino nelle forme irrigidite del Diamat quale risultava dalle sistemazioni teoriche staliniane (3). Al confronto - e sul piano delle idee un confronto deve essere possibile - ben altra radicalita' e respiro utopico ha la ripresa dei temi del Marx giovane in un pensatore come Ernst Bloch e altra stringenza, ad esempio, hanno le critiche di Karl Popper al determinismo storicistico e alla presunta scientificita' del marxismo. Nel valutare lo stesso umanesimo del Che non e' possibile non rilevare l'ambiguita' della nozione di "uomo nuovo" che ne sta a fondamento. Nell'"uomo dal cuore tanto semplice [...], tanto puro, ma [...] capace di realizzare le piu' grandi astrazioni mentali per poter scoprire nuove cose che mettano la natura a disposizione dell'umanita'" (4) si riconosce un topos che ha il suo paradigma nella caratterizzazione dell'"uomo allo stato di natura" di Jean-Jacques Rousseau. La tensione utopica che sospinge con tutta evidenza la figura guevariana dell'uomo nuovo in un tempo a venire ("uomo del futuro", "uomo sviluppato al massimo") e la funzione positiva attribuita allo sviluppo tecnologico consentono certamente di evitare interpretazioni regressive come quelle da cui dovette difendersi Rousseau, ma non di sfuggire ad analoghe difficolta' e rischi. La presenza di Rousseau nel pensiero di Guevara e' del resto ben piu' ampia di quanto appaia. La cosa non dovrebbe sorprenderci piu' di tanto, se e' vero che lo stesso Fidel Castro ebbe a dichiarare che "Jean-Jacques era stato il [proprio] maestro e che aveva combattuto Batista con il Contratto sociale in tasca" (5). D'altra parte il pensiero di Rousseau rappresenta un punto di transito obbligato, benche' spesso inconsapevole, per ogni moderna teoria della rivoluzione. Con la sua soluzione del tradizionale problema della teodicea, che imputa il male presente nel mondo non a Dio ne' ad una colpa originaria del singolo individuo ma alla societa', egli da' il fondamento piu' solido alla convinzione che "tutto dipende sostanzialmente dalla politica" (6), imprimendo cosi' una spinta fortissima all'impegno per la critica e la trasformazione sociale. La presupposizione di un'origine tutta sociale del male puo' giungere ad invalidare non solo l'idea cristiana del peccato originale ma anche la sua traduzione laica (la nozione di "legno storto" di cui parla Kant per indicare la finitudine e l'imperfezione ineliminabile dell'uomo) e divenire il fondamento oggettivo (scientifico) dell'"aspirazione soggettiva e non sistematizzata" di creare un uomo radicalmente nuovo (7). La rivoluzione puo' cosi' proporsi di costruire "la nuova societa' in cui gli uomini avranno caratteristiche diverse" (ivi, p. 702) nella convinzione che "le nuove generazioni saranno libere dal peccato originale" (ivi, p. 710). In questa sorta di experimentum hominis la gioventu' svolge un ruolo decisivo. Essa e' "l'argilla malleabile con cui si puo' costruire l'uomo nuovo" (ibidem). E' una prospettiva in cui, come per l'autore dell'Emilio, diventa centrale il problema dell'educazione: "La societa' nel suo insieme - scrive il Che - deve trasformarsi in una gigantesca scuola" (ivi, p. 701). La pervasivita' di questa missione pedagogica, che "si esercita attraverso l'apparato educativo dello Stato in funzione della cultura generale, tecnica e ideologica, attraverso organismi quali il Ministero dell'educazione e l'apparato di propaganda del partito" richiama i fantasmi della distopia orwelliana e ripropone tutti i risvolti inquietanti che la tradizione liberale ha criticato nella "democrazia totalitaria" di Rousseau. "Nell'immagine delle folle che marciano verso il futuro - scrive Guevara - e' implicito il concetto di istituzionalizzazione, inteso come un insieme armonico di canali, gradini, barriere, apparati ben collaudati che permettono questa marcia e la selezione naturale di coloro che sono destinati a camminare tra l'avanguardia e che stabiliscono il premio o il castigo, rispettivamente per chi compie il proprio dovere e per chi trama contro la societa' in costruzione" (ivi, p. 703). La ricerca di tale nuova forma di istituzionalizzazione, "che permetta un'identificazione perfetta tra il governo e la comunita' nel suo insieme [...] e che rifugga al massimo dai luoghi comuni della democrazia borghese trapiantati nella societa' in formazione" (ivi, p. 704) ripete la tematizzazione rousseauiana della volonta' generale e richiama la sottovalutazione irridente di Marx per la democrazia politica. E' interessante vedere come questa critica del modello liberaldemocratico si congiunga, non solo in Rousseau e Marx ma anche in Guevara, con la critica del cristianesimo. Lo spirito del cristianesimo, con il suo universalismo astratto, non solo impedisce, secondo Rousseau, il radicamento in questo mondo e dispone gli uomini alla rassegnazione e alla dipendenza, esso e' anche contrario allo spirito sociale particolare che deve portare gli uomini ad identificarsi con quel moi commun che e' la propria comunita' sociale, secondo il modello del patriottismo antico (la polis greca, Roma). Anche la critica di Marx non si esaurisce nella denuncia della religione come "sospiro della creatura oppressa" e "oppio dei popoli" ma si spinge ad individuare nel cristianesimo la metafora piu' efficace della falsa universalita' dello Stato liberaldemocratico borghese: come i cristiani, diseguali in terra, si consolano di essere tutti uguali in cielo, cosi' gli individui che vivono in quanto borghesi la diseguaglianza della societa' civile, si consolano nell'illusione di essere tutti uguali, come cittadini, nella sfera dello Stato (8). Nelle opere di Guevara l'esigenza di un confronto diretto con la concezione cristiana dell'uomo e del mondo e' meno pressante e i pochi riferimenti che si trovano sono quasi sempre di scarso impegno teorico. Giulio Girardi, tra i piu' impegnati a ricercare proprio nel pensiero e nella testimonianza del rivoluzionario argentino l'ispirazione per una reinterpretazione del cristianesimo che ne riscatti l'originaria vocazione liberatrice, non si nasconde ne' il severo giudizio storico di Guevara sul ruolo svolto dalla Chiesa nel contesto latinoamericano ne' il dato di fatto che dalla sua interpretazione del fenomeno religioso "si giunge a una conseguenza coerente, che il Che non trae al livello teorico, ma sul piano della sua stessa prassi: l'uomo nuovo e' un umanista ateo" (9). Questa contraddizione dello spirito del cristianesimo con l'ottimismo storico che sta a fondamento della possibilita' di costruire l'uomo nuovo viene inferita, in modo a mio parere legittimo, a partire da alcuni requisiti essenziali che Guevara richiede ad un autentico impegno rivoluzionario: primi fra tutti la fiducia dell'uomo di essere attore consapevole della storia e la disponibilita' ad impegnarsi nella causa della liberazione senza attendersi altra ricompensa che la soddisfazione del dovere compiuto. Anche il collegamento tra spirito del cristianesimo e modello democratico-liberale puo' essere soltanto ricostruito a partire da pochi spunti polemici. In una lettera alla madre, in cui commenta la caduta di Peron, il giovane Ernesto accomuna l'esultanza degli americani, del vescovo di Citta' del Messico, di tutti i cattolici, della gente di destra e degli stessi progressisti e ironizza sulla nuova "aria di liberta'" che si sarebbe instaurata con questa "nuova vittoria del dollaro, della spada e della croce" (10). Anche in una lettera precedente gli spunti polemici nei confronti del cattolicesimo vengono presentati in concomitanza con la critica di quella "certa esteriorita' democratica [...] dove il marcio piu' grande e' coperto da forme pseudodemocratiche di convivenza" facendo presumere che esista anche in Guevara un nesso non occasionale tra ideologia cattolica e modello liberale-borghese. In ogni caso e' sua convinzione saldissima "che il papato e' uno dei principali capitalisti europei, e che nella politica internazionale marcia mano nella mano con gli Usa" (11) e l'irrisione nei confronti dei principi della democrazia liberale resta una costante del suo pensiero. Al "meraviglioso pezzo di carta dentro l'urna di legno" il Che contrappone il "voto diretto, portato sulla punta di un fucile, aggressivo, arrogante, bellicoso, per l'uomo che e' capace di riunire la gigantesca mole umana del Primo Maggio [Fidel Castro]" (12). Questo atteggiamento si connette ad uno scetticismo quasi pregiudiziale riguardo alle effettive possibilita' di ottenere la liberazione per via pacifica ed alla convinzione della ineluttabilita' della guerriglia, almeno nel contesto dell'America Latina, nel quale gli era sembrato ben presto non esserci spazio per i profeti disarmati: "Non sono Cristo e filantropo - aveva scritto alla madre in una lettera del 1956 - sono tutto il contrario di un Cristo e la filantropia mi sembra cosa da [illeggibile], per le cose in cui credo lotto con tutte le armi di cui dispongo e cerco di atterrare l'altro, invece di lasciarmi inchiodare a una croce" (13). Nel gorgo storico in cui Guevara si riconosce drammaticamente gettato - nel quale, generando "un'enorme quantita' di scariche emotive", "alla parola "rivoluzione" si e' unita la parola "patria"" (14) - a dare il tono dominante alla riflessione, contagiandola con tutte le sue aporie e contraddizioni, non puo' essere altro Rousseau, che quello riemerso in Marx senza la mediazione illuministica e cristiano-borghese di Kant. A me piace invece valorizzare altri spunti presenti nella riflessione del Che, che mi appaiono piu' interessanti e duraturi: * L'insistenza sul lavoro volontario. Esso non e' soltanto anticipazione della figura marxiana del lavoro liberato, ma viene a configurarsi come un dono: "l'importante e' che una parte della vita di un individuo venga data alla societa' senza aspettarsi nulla, senza alcuna retribuzione, solo come adempimento di un dovere sociale" (15). * La critica dello "scambio ineguale" che condanna a rimanere nella poverta' e nella dipendenza i popoli economicamente arretrati. La richiesta accorata ai paesi dell'allora blocco socialista affinche' sostenessero i costi per lo sviluppo dei paesi dipendenti, piu' che da stigmatizzare come rivendicazione di una forma di assistenzialismo che avrebbe trovato oggi la sua attuazione con le Organizzazioni Non Governative a fare da "vettori del commercio della carita'" (16), ci appare invece sostanziata da una chiara prefigurazione di quanto sta accadendo con la globalizzazione dei mercati. E le parole del Che - proiettate in un contesto meno storicamente datato - si rivelano ispirate da tensione profetica, ma anche da straordinaria lucidita': "Un grande mutamento di concezioni consistera' nel cambiare l'ordine dei rapporti internazionali; non dev'essere il commercio estero a determinare la politica, ma al contrario esso deve essere subordinato a una politica fraterna tra i popoli" (17). * L'insofferenza per lo scolasticismo e l'apprezzamento della personalita' individuale. Nella critica dell'attitudine conformista e scolastica - come si manifestava in particolare nelle forme congelate del realismo socialista - gli interventi dell'ultimo Guevara, trovano espressioni di rara schiettezza ed efficacia. Nelle parole con le quali bolla i "docili salariati del pensiero ufficiale" e le "erbacce che cosi' facilmente si moltiplicano sul terreno concimato delle sovvenzioni statali" (18) egli va molto al di la' di un atteggiamento di maniera, piuttosto ricorrente, del resto, proprio nella stessa scolastica marxista. Il tema della personalita' individuale merita qualche considerazione aggiuntiva. L'avventuriero che nel suo girovagare per il mondo non ha mai smesso di sentirsi argentino - "questa e' l'essenza della mia personalita'" (19) - immette nella sua critica dello scolasticismo una nota tutta particolare, qualcosa che ha a che fare con il riverbero di un carattere nazionale. E' quel tratto individualistico, anarchico e ribelle, che un altro grande argentino, Jorge Luis Borges, trova consacrato in "una notte della letteratura argentina: la notte disperata nella quale un sergente della polizia rurale grido' che non avrebbe permesso il delitto che si uccidesse un coraggioso e si mise a combattere contro i suoi soldati, accanto al disertore Martin Fierro" (20). Nel poema epico di Jose' Hernandez che narra la storia del gaucho Martin Fierro, anche Guevara sente risuonare "il grido dell'angosciosa ribellione" (21): Vive el aguila en su nido, el tigre vive en la selva, el zorro en la cueva agena, y, en su destino incostante, solo el gaucho vive errante donde la suerte lo lleva. [Jose' Hernandez, Martin Fierro, vv. 7133-7138] Ma di questo individualismo argentino Borges sa cogliere anche l'ambiguita' e la miseria. Utile come antidoto nei confronti delle seduzioni di ogni modello di Stato onnipervasivo e totalitario, esso nasconde in se' una pericolosa presunzione di superiorita': in questo caso anche "giocare ad essere un gaucho", puo' diventare "alla lunga, un'impossibilita' mentale e morale" che assimila a "quei consanguinei del caos, che l'infinita ripetizione dell'interessante formula sono argentino esime dall'onore e dalla pieta'" (22). Guevara corre fino in fondo questo rischio quando declina la nota individualistica nella figura del rivoluzionario d'avanguardia che, come il gaucho del Martin Fierro, No tiene hijos, ni mujer, ni amigos, ni protectores; pues todos son sus señores, sin que ninguno lo ampare. [Jose' Hernandez, Martin Fierro, vv. 1349-1352] Nel suo compito "a un tempo magnifico e angoscioso" il rivoluzionario d'avanguardia "non [puo'] scendere con la [sua] piccola dose di affetto quotidiano nei luoghi in cui lo esercita l'uomo comune" (23). Il soldato della guerriglia deve prepararsi all'"odio intransigente contro il nemico, che spinge molto oltre i limiti naturali dell'essere umano e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere" (24). Si tratta certamente di situare queste parole nel gorgo storico di cui dicevamo; ma restano sempre parole tremende. Condividendo la diffidenza istintiva di Primo Levi per i profeti e l'insofferenza di Kant nei confronti dello Schwaermerei (l'esaltazione fanatica), devo confessare che la mia preferenza va a quella parte del pensiero del Che che lascia varchi (anche se stretti) ad un incontro con la tradizione personalistica e cosmopolita, quella che si origina dalla congiunzione tra il cristianesimo e la tradizione laica dei diritti dell'umanita', mediante la kantiana riconduzione all'illuminismo del pensiero di Rousseau. E' il Guevara che dialoga con le posizioni di Ernesto Sabato, ispirate al personalismo cristiano (25). O quello che si mostra consapevole dei rischi che corre il rivoluzionario d'avanguardia di "cadere in eccessi di dogmatismo, in freddo scolasticismo" e non vuole perdere il radicamento con la dimensione dell'uomo comune: "Per quanto ci riguarda, abbiamo stabilito che i nostri figli debbano avere o essere privi di cio' che hanno o di cui mancano i figli dell'uomo comune" (26). O, infine, quello cui piace esprimere concretamente il principio di universalita' dell'etica nel linguaggio a lui congeniale dell'immagine simbolica, con la citazione che ebbe piu' cara, quella da Jose' Marti': "Ogni vero uomo deve sentire sulla propria guancia lo schiaffo inferto su quella di qualunque essere umano". * Note 1. La lettera, del 17 giugno 1955, e' riportata in E. Che Guevara, Scritti scelti, a cura di Roberto Massari, Erre Emme, Roma 1993, p. 226. Per l'origine del celebre soprannome cfr. R. Massari, Che Guevara. Pensiero e politica dell'utopia, Erre Emme, Roma 1993, pp. 92-93. 2. P. Sini, "Tre tesi per una riflessione necessaria", in Quaderni della Fondazione "Ernesto Che Guevara", 3, 2000, pp. 37-43. 3. In "Note per lo studio della ideologia della rivoluzione cubana", (1960), tr. it. in Scritti scelti, cit., pp. 400-411, aveva scritto: "Ci sono delle verita' cosi' evidenti, cosi' connaturate alla coscienza dei popoli, che e' inutile discuterle. Si deve essere marxisti con la stessa naturalezza con la quale si e' "newtoniani" in fisica o "pasteuriani" in biologia [...]. E per questo diciamo che le verita' essenziali del marxismo sono parte integrante della comunita' culturale e scientifica dei popoli e le accettiamo con la naturalezza che ci deriva da qualcosa che non ha bisogno di ulteriori discussioni". Sull'"itinerario sofferto" della liberazione del Che dalle "concezioni meccanico-evoluzionistiche del cosiddetto "materialismo dialettico", onnicomprensivo e onnisciente dell'epoca staliniana" si veda R. Massari, Che Guevara. Pensiero e politica dell'utopia, cit., pp. 108 e sgg. 4. E. Che Guevara, "La meccanizzazione dell'agricoltura" (1963), tr. it. in Opere, a cura di Carlos Varela, Feltrinelli, Milano 1969, vol. III, tomo 1, p. 377. 5. Citato in L. Colletti, "Rousseau critico della "societa' civile"", in Ideologia e societa', Laterza, Bari 1969, p. 196. 6. Le confessioni di J.-J. Rousseau, tr. it. di V. Sottile Scaduto, in J.-J. Rousseau, Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, p. 977. Nel saggio Il problema Gian Giacomo Rousseau (tr. it. di Maria Albanese, La Nuova Italia, Firenze 1938, p. 60) Ernst Cassirer scrive: "Tutte le lotte sociali del presente vengono ancor oggi mosse e sostenute da quest'impulso originario. Esse si radicano nella coscienza della responsabilita' della societa', che Rousseau per primo ha posseduta e che ha trapiantata nelle epoche successive". Sul rapporto Rousseau-Marx resta fondamentale il lavoro di Galvano Della Volpe, Rousseau e Marx, Editori Riuniti, Roma 1962. 7. E. Che Guevara, "Il socialismo e l'uomo a Cuba" (1965), tr. it. in Scritti scelti, cit. p. 709. 8. K. Marx, La questione ebraica, tr. it. di R. Panzieri, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 66: "La democrazia politica e' cristiana perche' in essa l'uomo, non soltanto un uomo ma ogni uomo, vale come essere sovrano, come essere supremo; si tratta pero' dell'uomo [...] in quanto ente estraneo, differente dall'uomo reale". 9. G. Girardi, "Le idee del Che di fronte alla globalizzazione (I)", in Quaderni della Fondazione "Ernesto Che Guevara", 3, 2000, pp. 18-31. Vedi anche: "La "morte del Che" nella lotta ideologica. "Morte del Che" e "morte del marxismo": riflessioni sulla crisi dell'ottimismo storico", in Quaderni della Fondazione "Ernesto Che Guevara", 2, 1999, pp. 19-27. 10. "Lettera alla madre del 24 settembre 1955", in Scritti scelti, cit., pp. 236-238. 11. "Lettera alla madre del 20 luglio 1955", in Scritti scelti, cit., pp. 226-231. 12. "Cacareco, i voti argentini e altri rinoceronti" (1960), in Opere, cit., vol. III, tomo 2, p. 416. 13. In Scritti scelti, cit., pp. 263-266. 14. E. Che Guevara, "I giovani e la rivoluzione" (1964), in Scritti scelti, cit., p. 684. Sull'origine della parola d'ordine "Patria o morte. Vinceremo", adottata dal Che per concludere le sue lettere e i suoi interventi a partire dal 1960, cfr. la nota del curatore delle Opere, vol. III, tomo 1, cit., p. 341. 15. E. Che Guevara, "I giovani e la rivoluzione", cit., pp. 689-690. 16. E. Burgos, "Decostruzione di un mito", in Quaderni della Fondazione "Ernesto Che Guevara", 3, 2000, pp. 32-36. 17. E. Che Guevara, "Discorso al II seminario economico di solidarieta' afroasiatica" (1965), in Scritti scelti, cit., p. 650. 18. E. Che Guevara, "Il socialismo e l'uomo a Cuba", cit., pp.708-710. 19. E. Che Guevara, "Rivoluzionare anche la medicina" (1959), tr. it. in Opere, vol. III, tomo 2, cit., p. 119. 20. J. L. Borges, "Il nostro povero individualismo", in Altre inquisizioni, tr. it. di F. Tentori Montalto, Feltrinelli, Milano 1976, p. 40. 21. E. Che Guevara, Poesie e scritti sulla letteratura e l'arte, tr. it. di E. Clementelli e W. Mauro, Newton Compton, Roma 1999, pp. 65-67. 22. J. L. Borges, "Annotazione al 23 agosto 1944 ", in Altre inquisizioni, cit., pp. 133-134. 23. E. Che Guevara, "Il socialismo e l'uomo a Cuba", cit., p. 712: "I dirigenti della rivoluzione hanno figli che nei loro primi balbettii non imparano a nominare il padre; mogli che devono partecipare al sacrificio della loro vita, al fine di condurre la rivoluzione verso il suo destino; la cerchia dei loro amici coincide con quella dei compagni della rivoluzione. Non c'e' vita al di fuori di questa". 24. E. Che Guevara, "Creare due, tre... molti Vietnam e' la parola d'ordine" (1967), in Scritti scelti, cit., p. 674. 25. E. Che Guevara, "Lettera a Ernesto Sabato" (1960), in Scritti scelti, cit. pp. 393-399. Cfr. la nota dello stesso Sabato, riportata in E. Che Guevara, Scritti, discorsi e diari di guerriglia 1959-67, a cura di L. Gonsalez, Einaudi, Torino 1969, p. 1446. 26. E. Che Guevara, "Il socialismo e l'uomo a Cuba", cit., p. 712-713. 4. MAESTRE. LAURA CONTI: IN REALTA' SAPPIAMO [Da Laura Conti, Che cos'e' l'ecologia, Mazzotta, Milano 1977, 1981, p. VIII. Laura Conti nata a Udine nel 1921, partigiana, deportata e sopravvissuta al lager. Medico, parlamentare, rappresentante autorevole dell'ambientalismo scientifico e del movimento ecologista. E' scomparsa nel 1993. Opere di Laura Conti: Assistenza e previdenza sociale, Feltrinelli, Milano 1958; La condizione sperimentale, Mondadori, Milano 1965; Sesso e educazione, Editori Riuniti, Roma 1975; Visto da Seveso, Feltrinelli, Milano 1978; Una lepre con la faccia di bambina, Editori Riuniti, Roma 1978; Che cos'è l'ecologia, Mazzotta, Milano 1981; Il tormento e lo scudo, Mazzotta, Milano 1981; Ambiente terra, Mondadori, Milano 1988. Opere su Laura Conti: non conosciamo monografie specifiche, un breve profilo è nel libro di Andrea Poggio, Ambientalismo, Bibliografica, Milano 1996. Indirizzi utili: presso l' Ecoistituto del Veneto è istituito un Premio ecologia "Laura Conti" a soggetti impegnati concretamente per un futuro sostenibile: viale Venezia 7, 30171 Mestre (VE), e-mail: info at ecoistituto.veneto.it] In realta' sappiamo che al mondo si produce tanto da poter dare a ciascuno non solo 200 kg di cereali all'anno ma anche un etto al giorno di carne o pesce: e che, se c'e' gente che muore di fame, e' soltanto perche' non c'e' uguaglianza, e i ricchi tolgono il cibo ai poveri. 5. MAESTRE. ROSSANA ROSSANDA: GLI STORICI DIRANNO [Da Rossana Rossanda, Un viaggio inutile, Bompiani, Milano 1981, p. 139. Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista, dirigente del PCI (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure più vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di più drammatica attualità e sui temi politici, culturali, morali più urgenti. Opere di Rossana Rossanda: Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalità, Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda è tuttora dispersa in articoli e saggi pubblicati in giornali e riviste. Opere su Rossana Rossanda: non ci risulta che siano state fin qui pubblicate monografie; di Rossana Rossanda parlano tra gli altri in alcuni loro volumi Simone de Beauvoir e Jorge Semprún. Indirizzi utili: redazione de "Il manifesto", via Tomacelli 146, 00186 Roma] Forse gli storici diranno che l'economia fiori', crebbero le cose e perirono soltanto gli uomini. 6. MAESTRE. VANDANA SHIVA: L'ATTUALE INTEGRAZIONE GLOBALE [Da Vandana Shiva, Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990, p. 268. Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture native, è oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen 1999; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, 2001] La natura paradossale dell'attuale integrazione globale dell'economia mondiale, attraverso la trama delle speculazioni e dei prestiti, e' che questa si serve di mitiche formulazioni su computer e tabelloni elettronici, ed e' capace di distruggere in un attimo le economie reali di interi paesi. 7. RILETTURE. DAVID CAYLEY:CONVERSAZIONI CON IVAN ILLICH David Cayley, Conversazioni con Ivan Illich, Eleuthera, Milano 1994, pp. 224, lire 27.000. Un'ampia intervista al grande pensatore. Ivan Illich è nato a Spalato nel 1925. Laurea in mineralogia a Firenze, studi ulteriori di psicologia, arte, storia (dottorato a Salisburgo). Ordinato sacerdote nel 1951, per cinque anni opera in una parrocchia portoricana a New York, poi è prorettore dell'Università Cattolica di Portorico. A Cuernavaca (Messico) fonda il CIDOC (Centro interculturale di documentazione). Docente in varie università, conferenziere, studioso costantemente impegnato nella critica delle istituzioni e nella indicazione di alternative che sviluppino la creatività e dignità umana. Pensatore originale, ha promosso importanti ed ampie discussioni su temi come la scuola, l'energia, la medicina, il lavoro. Tra le opere di Ivan Illich: Descolarizzare la società, Mondadori; La convivialità, Mondadori, poi Red; Rovesciare le istituzioni, Armando; Energia ed equità, Feltrinelli; Nemesi medica: l'espropriazione della salute, Mondadori, poi Red; Il genere e il sesso, Mondadori; Per una storia dei bisogni, Mondadori; Lavoro-ombra, Mondadori; H2O e le acque dell'oblio, Macro; Nello specchio del passato, Red; Disoccupazione creativa, Red. Raccoglie i materiali di un seminario con Illich il volume Illich risponde dopo "Nemesi medica", Cittadella, Assisi 1978. Utile anche il volume di AA. VV., Le professioni mutilanti, Cittadella, Assisi 1978 (che si apre con un intervento di Illich). 8. RILETTURE. ROBERT JUNGK: L'ONDA PACIFISTA Robert Jungk, L'onda pacifista, Garzanti, Milano 1984, pp. 256. L'indimenticabile Robert Jungk, con la sua lucidita', con la sua tenacia. Era nato a Berlino nel 1913, abbandonata la Germania nel 1933, va in esilio prima in Francia, poi in Svizzera, poi in America. Successivamente ha vissuto a Vienna. Giornalista e saggista impegnato nella coscientizzazione e nei movimenti ecologisti e pacifisti. Opere di Robert Jungk: presso Einaudi sono stati pubblicati Il futuro è già cominciato, Gli apprendisti stregoni (storia degli scienziati atomici), Hiroshima il giorno dopo, La grande macchina, L'uomo del millennio, Lo stato atomico; presso Garzanti L'onda pacifista. 9. RILETTURE. NUTO REVELLI: L'ULTIMO FRONTE Nuto Revelli, L'ultimo fronte, Einaudi, Torino 1971, 1989, pp. 424. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale raccolte e presentate dall'eroe della Resistenza e testimone della memoria popolare. Nuto Revelli e' nato a Cuneo nel 1919, ufficiale degli alpini nella tragedia della campagna di Russia, eroe della Resistenza, testimone della cultura contadina e delle sofferenze delle classi popolari in guerra e in pace. Le sue opere non sono letteratura, ma grande testimonianza storica, lucido impegno civile, e limpida guida morale. Opere di Nuto Revelli: La guerra dei poveri, La strada del davai, Mai tardi, L'ultimo fronte, Il mondo dei vinti, L'anello forte, Il disperso di Marburg, Il prete giusto, tutti pubblicati presso Einaudi. 10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 11. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ; per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben at libero.it ; angelaebeppe at libero.it ; mir at peacelink.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 338 del 10 gennaio 2002
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