RESOCONTO MISSIONE DI PACE IN PALESTINA



ACTION FOR PEACE  27 dicembre 2001-3 gennaio 2002
Per informazioni: Silvia Macchi <s.macchi at libero.it>

Gerusalemme, 28 dicembre 2001
MANIFESTAZIONE DELLA COALIZIONE DELLE DONNE PER UNA PACE GIUSTA

Oltre 3000 pacifisti - israeliani, europei e nordamericani - hanno accolto l'invito della Coalition of Women for a Just Peace a manifestare silenziosamente per le strade di Gerusalemme nell'ultimo venerdì dell'anno. Alle "manine" delle Donne in nero con la scritta "basta con l'occupazione" si sono aggiunti gli striscioni di solidarietà delle delegazioni italiana, francese e belga, e numerosi cartelli con slogans quali "smantellare subito gli insediamenti" e "confini del '67 = confini di pace". Presenti anche alcuni parlamentari italiani (il senatore Marino, on. Giovanni Russo Spena e on. Silvana Pisa) e il presidente della Regione Campania Antonio Bassolino. Il corteo si è mosso verso le 11,00 da Paris Square, a Gerusalemme Ovest, ed è arrivato dopo un'ora davanti alle mura della città vecchia, alla Porta di Giaffa. Tutto si è svolto nella massima tranquillità, nonostante la presenza di piccoli gruppi di coloni che contestavano con veemenza l'iniziativa dai bordi della strada. Alla Porta di Giaffa i manifestanti si sono raccolti intorno ad un palco per ascoltare le testimonianza di numerosi pacifisti israeliani e di alcune personalità palestinesi ed europee. Tra queste: Shulamit Aloni, ex-ministra israeliane ed esponente storica del movimento pacifista israeliano, Pnina Firestein, dell'organizzazione antimilitarista New Profile, Jeff Halper, direttore dell'Alternative Information Center e promotore della Campagna contro la demolizione delle case, Zaira Kamal, delegata alle questioni di genere presso il Ministero della Pianificazione e della Cooperazione Internazionale dell'ANP, Luisa Morgantini, parlamentare europea e donna in nero.
La manifestazione si è conclusa verso le 13,30 con il gospel una cantante nera.


Gerusalemme, 28 dicembre 2001
INCONTRO CON I PACIFISTI ISRAELIANI

Nel pomeriggio, presso l'Hotel New Imperial, nella città vecchia, la delegazioni italiana ha incontrato i pacifisti israeliani. I momenti di dibattito sono stati due: uno incentrato sulle attività di New Profile e della Campagna contro la demolizione delle case; l'altro dedicato essenzialmente ai movimenti delle donne che fanno capo alla Coalizione per una Pace Giusta. L'incontro con le donne è stato coordinato da Debbie Lermann, donna in nero israeliana, che attualmente lavora presso il Parlamento Europeo in tandem con la palestinese Jihan Anastas. La Coalizione ha la peculiarità di coinvolgere numerosi gruppi stranieri nelle sue iniziative, come nel caso dell'ultimo venerdì dell'anno quando in oltre 100 città del mondo si manifesta con gli stessi slogans. La Coalizione è costituita da 9 movimenti di donne israeliane, non tutti rappresentati alla riunione. Sono intervenute in successione esponenti delle Donne in Nero, di Bat Shalom, di Windows e del WILPF (Lega Internazionale delle Donne per la Pace e la Libertà). L'idea delle Donne in Nero è nata a Gerusalemme, durante la prima Intifada (1988), come dimostrazione di lutto per le morti inutili da entrambe le parti e riprende l'esempio delle Madri di Maggio, in Argentina. Il movimento ha raggiunto rapidamente oltre 30 gruppi locali in Israele. Dopo gli accordi di Oslo(1993) molte hanno lasciato il movimento, ritenendo che non fosse più necessario. Ma uno dei primi nuclei, quello di Tel Aviv, è sempre rimasto attivo, scendendo in piazza tutti i venerdì senza interruzioni. Con la seconda intifada, il movimento sta riprendendo consistenza. Oggi conta 12 gruppi locali, un numero destinato ad aumentare e soprattutto a diversificarsi. Esistono due gruppi locali di palestinesi israeliane, nelle città di Nazareth e Acre, e a Tel Aviv le più giovani hanno formato un gruppo autonomo rispetto a quello originario, introducendo nuove pratiche di disobbedienza civile. Bat Shalom rappresenta la componente israeliana del Jerusalem Link, mentre la componente palestinese è costituita dal Jerusalem Center for Women. Da entrambe le parti si porta avanti un lavoro parallelo a favore del dialogo e informato da una serie di principi (ripresi in gran parte dalla Coalizione). I fondamentali sono: due stati per due popoli; mettere fine all'occupazione e ristabilire i confini del '67; assumersi la responsabilità dei problemi creati ai palestinesi con la formazione dello stato di Israele (problema dei rifugiati); mettere fine alla politica dei militari e della violenza e dare spazio alla politica delle donne, che devono avere un ruolo attivo nei negoziati di pace. La priorità attuale di Bat Shalom è la richiesta di Protezione Internazionale per il Popolo Palestinese. Infine Windows è un'organizzazione israelo-palestinese che ha come obiettivo la promozione della conoscenza reciproca come base per la costruzione del dialogo. I campi di attività sono essenzialmente tre: 1) una rivista bimensile per ragazzi (10-14 anni) dove vengono trattati tutti i temi sollecitati dai giovani lettori, dallo sport all'identità nazionale. La collaborazione tra le due parti è assai difficile dopo l'Intifada, ma continua. Il gruppo redazionale sta lavorando ora alla messa a punto di strumenti educativi che possano aiutare genitori e insegnanti ad affrontare con i ragazzi i problemi attuali. 2) Un centro dell'amicizia a Tel Aviv, con programmi culturali di vario tipo, che si prefigge di far conoscere agli israeliani il punto di vista dei palestinesi. Esiste un progetto per la creazione di centri analoghi in campo palestinese, attualmente bloccato per la situazione di conflitto. 3) Attività di aiuto umanitario ai rifugiati (cibo, giochi) e di sostegno ai bambini di famiglie disagiate nella città di Giaffa. L'esponente del WILPF ha sottolineato l'importanza delle connessioni internazionali che caratterizzano la Lega per il contatto tra le donne israeliane e le donne delle comunità ebraiche nel mondo. Questo tema è stato oggetto di dibattito e c'è stata un'esplicita richiesta di Debbie affinché le donne italiane si facciano promotrici di una possibile relazione tra donne israeliane e donne ebree italiane. Debbie ha sottolineato la rilevanza politica di tale attività poichè il governo Sharon sembra particolarmente sensibile alle pressioni delle comunità ebraiche fuori da Israele. Sempre da Debbie viene la proposta di creare un momento ad hoc (un seminario) per confrontarsi sulle pratiche delle donne israeliane e delle donne italiane rispetto alla questione israelo-palestinese.


ACTION FOR PEACE  27 dicembre 2001-3 gennaio 2002
da Silvia Macchi


Gerusalemme, 29 dicembre 2001
MISSIONE A NABLUS

Nella giornata del 29 dicembre, la delegazione italiana, composta di oltre 200 persone, si è divisa in tre gruppi con mete e programmi differenti. Una cinquantina di persone sono andate a manifestare al check point tra Ramallah e l'università di Birzeit, insieme agli studenti palestinesi e a pacifisti nordamericani e francesi. Una trentina si è unita alla delegazione belga e si è recata a visitare i luoghi di origine dei rifugiati palestinesi (Haifa ed altri villaggi in territorio israeliano). Il resto della delegazione, con una consistente componente sindacale, si è recata a Nablus insieme ad una cinquantina di francesi e belgi. Il viaggio di andata, iniziato alle 8 e 30, è durato molto più del previsto perché i pullman sono rimasti fermi più di un'ora al check point di Nablus. Motivo del contendere è stata la presenza di tre ragazzi palestinesi, volontari del PNGO incaricati di accompagnarci. I soldati israeliani, dopo aver controllato il passaporto ad ognuno di noi, proponevano di farci continuare a piedi sulla strada principale mentre i pullman con i tre palestinesi ci avrebbero raggiunto più tardi, attraverso una strada secondaria aperta ai palestinesi. La proposta è sembrata inaccettabile e soprattutto poco credibile. Chi ci assicurava che i palestinesi avrebbero potuto effettivamente raggiungerci, una volta che non erano più tutelati dalla nostra presenza? Davanti al nostro rifiuto e dopo una mezz'ora di ulteriori discussioni, i soldati ci fanno passare tutti, palestinesi compresi. Arriviamo a Nablus a mezzogiorno e troviamo moltissime persone ad aspettarci: autorità, sindacalisti, famiglie dei martiri, attivisti ed attiviste vecchi e giovani, studenti, ecc. Ci accolgono nella grande sala della sede del sindacato, un edificio recente e ben attrezzato realizzato grazie ai finanziamenti di diverse organizzazioni sindacali europee. Sul palco si succedono velocemente alcuni rappresentati delle società civile palestinese e il governatore di Nablus. Quindi ci viene chiesto di raggiungere l'università per unirci ad una manifestazione degli studenti contro alcune postazioni militari israeliane vicinissime alle case palestinesi. Una volta sul posto, ci rendiamo conto dell'incredibile situazione di vessazione cui sono sottoposti gli abitanti di Nablus. La cosiddetta "strada secondaria", unico accesso alla città aperto ai palestinesi, è un viottolo sterrato che scende piuttosto ripidamente dalla cima di una delle montagne che circondano la vallata in cui sorge Nablus. Chi vuole uscire, quindi, deve salire in auto in cima alla montagna, poi discendere il viottolo a piedi per circa 500 metri, fino a raggiungere un'altra auto o un autobus. Alcuni asini vengono utilizzati per i bagagli più pesanti, ma in genere pacchi e bambini vengono portati a forza di braccia. Ma questo ancora è quasi normale per chi vive nei territori. La cosa veramente spaventosa sono i carrarmati che sostano su un pianoro che sovrasta il viottolo. Di là i soldati si "divertono" a terrorizzare chiunque passa, sparacchiando di tanto in tanto ed obbligando i malcapitati ad abbandonare il loro carico sulla strada per ripararsi nel vicino dirupo. E questo tutti i minuti di tutti i giorni. Naturalmente esiste una "motivazione ufficiale": i carrarmati proteggono l'insediamento di coloni sorto poco lontano. Insieme agli studenti e ad un buon numero di donne e uomini palestinesi, le delegazioni straniere percorrono il viottolo e risalgono verso i carrarmati. Davanti un cordone di stranieri, dietro i ragazzi palestinesi, dietro ancora un misto di stranieri e palestinesi. A cinquanta metri dai carrarmati, il corteo viene fermato da raffiche di mitra sparate a terra. Si indietreggia, qualcuno scappa, i ragazzi palestinesi passano in testa. Poi ci si ricompatta e si torna ad avanzare. Ogni sparo o rombo di motore è accolto da fischi e slogans, ma tutti si abbassano per paura dei proiettili. Il mio vicino, palestinese, mi dice che ad ogni manifestazione ci sono dei feriti e spesso anche qualche morto. Questo spiega la presenza di ben tre ambulanze alle nostre spalle e di alcuni giovanissimi barellieri (e tra loro molte ragazze) che accompagnano il corteo, pronti ad intervenire. Tra spari e grida, il mio vicino ed io iniziamo a discutere. Gli dico che noi non vogliamo assolutamente altri "martiri", che davanti ci sono troppi ragazzi giovani e che dobbiamo fare qualcosa. Lui mi risponde che i palestinesi devono combattere e che i "martiri" sono il prezzo necessario di questa lotta. Io ribatto che dobbiamo trovare altre forme di lotta perché non trovo accettabile la morte di tante giovani persone. Nonostante la distanza delle nostre posizioni, i toni sono molto pacati. Intanto che parliamo, lui si preoccupa di farmi abbassare ogni volta che si sente uno sparo. Io gli chiedo se mi può far capire un po' meglio dove ci troviamo e che cosa sta succedendo.. La manifestazione dura circa un'ora. Ci ritiriamo senza problemi, chiacchierando tra noi, scherzando anche, mentre l'ennesimo carrarmato prende posizione accanto gli altri. Per un'ora una interminabile colonna di persone, di tutte le età e carica di ogni sorta di bagaglio (pacchetti e pacconi, lattine, sacchetti di plastica, bottiglie, sacchi di iuta, valigie, ecc.), ha percorso il viottolo in tutta fretta, senza mai fermarsi, approfittano della nostra presenza davanti ai carrarmati. Per un'ora abbiamo garantito loro di poter percorrere poche centinaia di metri senza rischi. Ce ne andiamo soddisfatti ma io non posso fare a meno di chiedermi se non faremmo meglio a restare.

ACTION FOR PEACE  27 dicembre 2001-3 gennaio 2002
da Silvia Macchi

Negato ai pacifisti italiani, europei e americani il permesso di accedere a Hebron
Hebron chiusa fino al 9 gennaio
Comunicato stampa

Gerusalemme 30 dicembre
E' durata due ore, dalle 9 alle 11, la trattativa tra il movimento internazionale Action for Peace e l'esercito israeliano, che aveva bloccato i pullman dei pacifisti al check-point tra Betlemme e Hebron, impedendo loro di raggiungere la città dover li aspettava il sindaco. Due ore durante le quali i coloni israeliani di Hebron (notoriamente i più fanatici e intolleranti) si sono fatti vedere e sentire, non solo insultando i pacifisti, ma soprattutto intimando ai soldati di "non trattare con i terroristi". Gli stessi soldati hanno fatto capire ai pacifisti italiani che il problema era proprio l'aggressività dei coloni. "E' la prima volta che vediamo i coloni dare ordine all'esercito, è impressionante quanto sia aumentato il loro peso politico" ha dichiarato il senatore Giovanni Russo Spena, che ha condotto la trattativa insieme agli altri parlamentari presenti. I soldati hanno mostrato un ordine di polizia, in base al quale Hebron e tutta la sua regione sono "chiuse" (nessuno può cioè entrare e uscire) dalle 12 del 29 dicembre al 9 gennaio compreso. Una misura che inasprisce ulteriormente le già disumane condizioni di vita della popolazione civile, cui la missione Action for Peace è venuta a testimoniare la solidarietà della società civile europea. In assenza del console d'Italia Ghisi, il viceconsole Petruzzella ha tentato una trattativa telefonica con le autorità militari israeliane, ricevendone in cambio l'offerta o di consentire al sindaco di Hebron di incontrare i pacifisti a Gerusalemme o di lasciar passare i soli parlamentari - oltre al senatore Russo Spena, l'eurodeputata Luisa Morgantini e i deputati Silvana Pisa e Luigi Marino - trasportati su una camionetta dell'esercito israeliano.
Entrambe le proposte sono state giudicate inaccettabili e rifiutate.

I pacifisti europei sono giunti nei giorni scorsi in Palestina in segno di solidarietà con la società civile palestinese e con le forze di pace israeliane e per richiamare l'attenzione della comunità internazionale sulla necessità di una forza di interposizione per la tutela della popolazione civile. Dall'Italia sono giunte oltre 200 persone: rappresentanti di associazioni, sindacati, associazioni delle donne, organizzazioni non governative, ecc.... L'iniziativa, denominata "Action for Peace" e' promossa dalla Piattaforma italiana per la pace in Medio Oriente, che raccoglie questo vasto arco di forze, e si inserisce nell'iniziativa europea coordinata dallo ECCP (European Coordinating Committee for the question of Palestine)

ACTION FOR PEACE  27 dicembre 2001-3 gennaio 2002
da Silvia Macchi


Gerusalemme, 31 dicembre 2001
MANIFESTAZIONE A BETLEMME

Per la fine dell'anno i Patriarchi di Betlemme hanno promosso una manifestazione con l'obiettivo di forzare il check-point di Betlemme e recarsi a Gerusalemme, insieme ai loro fedeli palestinesi, per pregare nei rispettivi luoghi sacri. La manifestazione è sostenuta dalle delegazioni internazionali presenti in Palestina, con il coordinamento del Rapprochement between people, e dai pacifisti israeliani. Il concentramento avviene intorno alle 10, davanti al Bethlehm Hotel. Sono presenti un migliaio di palestinesi e tra loro molti religiosi delle più disparate confessioni (cattolici, ortodossi, maroniti, musulmani e anche un monaco buddista). Il corteo si forma: in testa le delegazioni nordamericane e francesi con una rappresentanza italiana, seguono i patriarchi, quindi gruppi di fedeli (molte le donne e i bambini), chiudono gruppi di giovani palestinesi mescolati con gli italiani del campo anti-imperialista. I 200 italiani di Action for Peace formano i cordoni laterali. Passiamo davanti al Paradise Hotel, che nel passato ha ospitato altre delegazioni italiane, reso inagibile dai recenti bombardamenti. Quindi deviamo per Caritas street, poiché il tratto di strada davanti alla Tomba di Rachele è sbarrato da blocchi di cemento e presidiato dai soldati israeliani. In Caritas street, proprio di fronte alle sede dell'Applied Research Institute - Jerusalem (ARIJ) dove abbiamo molti amici, l'esercito israeliano ha piazzato alcune camionette. Il corteo è costretto a fermarsi. Iniziano i soliti negoziati. Tutti colgono l'occasione per scambiare due chiacchiere con i loro "vicini di manifestazione" e i moltissimi giornalisti approfittano della sosta per intervistare i Patriarchi. Dopo una mezz'ora le camionette vengono spostate e si allontanano. Possiamo procedere e arrivare in prossimità del check-point, dove ci attende un altro sbarramento di camionette. Qui ci fermiamo di nuovo e iniziano i negoziati più difficili. Il tentativo è quello di passare tutti insieme e imbarcarci sui pullman che ci aspettano dall'altra parte. Ma i negoziatori riescono ad ottenere l'ingresso a Gerusalemme solo per i Patriarchi. Nessun altro palestinese potrà accompagnarli. I fedeli palestinesi potranno recitare le loro preghiere davanti al check-point, prima che i Patriarchi lascino Betlemme. Obbedendo alle richieste dei promotori, nessuno tenta di forzare il check-point. Iniziano le preghiere, una per ogni confessione. Quindi il corteo si scioglie mentre una voce al microfono dice che, nonostante lo scarso risultato dei negoziati, l'iniziativa può essere considerata riuscita. La manifestazione ha avuto luogo, la partecipazione è stata ampia, non ci sono stati incidenti e, soprattutto, si è dimostrato davanti ad un gran numero di testimoni internazionali che le vessazioni degli israeliani non riguardano solo i musulmani e che qualsiasi palestinese, quale che sia la sua confessione, subisce le stesse assurde limitazioni alla sua libertà di movimento e si vede precluso di fatto l'accesso ai luoghi sacri della città di Gerusalemme.



Gerusalemme, 31 dicembre 2001
MEZZANOTTE NELLA PIAZZA DI RAMALLAH

Alle 20 del 31 gennaio iniziano i festeggiamenti organizzati dal PNGO (coordinamento delle ONG palestinesi) per le delegazioni internazionali. Veniamo accolti nel teatro della Friends Boy School di Ramallah. Sul palco un cantante e gli allievi della locale scuola di danza, una decina di ragazzine tra gli 8 e i 14 anni e quattro ragazzini. I costumi sono tradizionali, a colori vivaci. Dal copricapo delle ragazzine sputano bellissimi capelli, leggermente arricciati, neri, castani, biondi. La musica e le leggerezza delle danze commuovono tutti. Uno spettacolo veramente straordinario. Finiti gli applausi, arriva Mustafa Barghouti, presidente del PNGO nonché direttore dell'HDIP (Istituto per lo sviluppo, l'informazione e le politiche della salute). Mustafa è un medico e viene da una delle più importati famiglie palestinesi, la stessa del leader politico Marwan Barghouti. Parla un buon inglese e veste in modo sportivo. Con il suo aspetto e i suoi modi informali, incarna la figura di certi nuovi dirigenti della società civile palestinese, capace di mantenere un rapporto dialettico con le istituzioni e i partiti, sempre preoccupato di tenere insieme istanze nazionaliste e diritti umani. Il suo discorso è breve ed efficace. Ringrazia una ad una le delegazioni straniere (statunitense, canadese, francese, svizzera, belga, spagnola e italiana). Ci dice che abbiamo contribuito a sollevare il morale della popolazione palestinese, terribilmente basso dopo l'11 settembre. Ora sanno di non essere soli. Ci prega di portare nei nostri paesi la testimonianza di quanto abbiamo vissuto in Palestina e di intervenire con tutti i mezzi presso i nostri governi e l'Unione Europea. Quindi ringrazia i tantissimi volontari palestinesi che hanno lavorato nell'organizzazione delle missioni e ci hanno costantemente accompagnato da una città all'altra. Infine lancia l'augurio che il 2002 sia l'anno della liberazione della Palestina. Alle 21,00 siamo fuori dal teatro, pronti per l'incontro con Yasser Arafat. Ci accompagnano in un enorme sala (siamo almeno 500). Dopo pochissimi minuti arriva Arafat, accompagnato da Mustafa Barghouti e da alcuni leaders politici, tra cui Marwan Barghouti. Interviene per primo Mustafa Barghouti, decisamente soddisfatto nel mostrare al Presidente i risultati del suo lavoro. Mustafa chiede al Presidente di far intervenire tre rappresentanti delle delegazioni presenti e Arafat risponde: "puoi far intervenire tutti quelli che vuoi: 3, 10, 20, ...". La parola passa ai tre promotori della campagna a livello europeo: Luisa Morgantini, il belga Pierre Galland e la francese Claude Léostic. Infine prende il microfono Yasser Arafat. Moltissimi gli applausi, in clima generale di festa che nessuno ha voglia di turbare con note polemiche o altre espressioni di dissenso. Dopo un'ora la "cerimonia" è finita e ci trasferiamo nella piazza principale di Ramallah. Sono le 23,00 ed è già abbastanza piena. Un palco attende gli ospiti d'onore (tra cui Marwan Barghouti e Luisa Morgantini) e sui tetti vicini sono pronti i fuochi d'artificio. Vengono distribuite delle candele bianche da accendere alla mezzanotte. Continua ad arrivare gente, molti ragazzi ma anche intere famiglie, genitori giovani con quattro o cinque bambini, coppie più anziane a braccetto. Ci dicono che questa festa in piazza è una vera e propria novità per Ramallah e che da mesi non si vedevano tante persone per strada di notte. A mezzanotte partono i fuochi d'artificio e molti di noi tirano un sospiro di sollievo: non ci sono armi in giro e gli unici "botti" sono quelli di Capodanno.

ACTION FOR PEACE  27 dicembre 2001-3 gennaio 2002
da Silvia Macchi


Gerusalemme, 1 gennaio 2002
INCONTRO CON ZAIRA KAMAL E REEMA HAMMAMI

Finalmente riusciamo a trovare un po' di tempo per incontrare le nostre amiche palestinesi. Alle 18,00 del 1 gennaio, Zaira Kamal e Reema Hammami ci raggiungono al nostro albergo. Non c'è che dire: un ottimo inizio d'anno! Zaira Kamal ha superato i cinquanta ed ha vissuto in prima persona la prima intifada, subendo sia il carcere che interminabili mesi di arresti domiciliari. Oggi è delegata alle questioni di genere presso il Ministero della Pianificazione e della Cooperazione Internazionale dell'ANP. Reema Hammami è invece una quarantenne nata e cresciuta negli USA che ha partecipato attivamente al dopo-Oslo. Insegna Antropologia all'Università di Birzeit e fa parte del Programma di Women Studies della stessa università. L'incontro è presieduto da Raffaella Lamberti, che invita le due ospiti ad esporre la loro analisi della situazione attuale, mettendo in evidenza le differenze rispetto alla prima intifada, e a passare quindi alla formulazione di possibili linee di azione. Entrambe esordiscono con parole di ringraziamento nei nostri confronti. Zaira ritiene che le iniziative "people to people", quale la nostra, possono servire a fare arrivare la sua voce in Europa, superando la censura dei media. Reema sottolinea il valore della nostra missione in termini di rottura dell'isolamento e della solitudine del popolo palestinese.

Passando all'analisi, Zaira parte dicendo che la causa prima delle differenze tra prima e seconda intifada va ricercata nel processo di Oslo e nella conseguente costituzione delle ANP (Autorità Nazionale Palestinese). Durante la prima intifada non c'erano dubbi: la Palestina era un paese sotto occupazione e l'intifada era una lotta di liberazione. Nella seconda intifada, invece, l'esistenza dell'ANP confonde le idee soprattutto a chi guarda dall'esterno. I cittadini europei non sanno che l'ANP governa solo la zona A (18% della Cisgiordania e 70% della striscia di Gaza) per cui non capiscono perché si parla di occupazione e non percepiscono l'intifada come lotta di liberazione. La maggioranza pensa che si tratti di una guerra tra due paesi, mentre di fatto c'è un popolo occupato e un esercito occupante. Proprio per l'esistenza della ANP, la reazione di Israele è oggi molto più violenta che in passato. Dopo 15 mesi di intifada il bilancio è di 700 morti, 2000 feriti, centinaia di case distrutte, centinaia di migliaia di alberi sradicati, pesanti limitazioni alla libertà di movimento, 300.000 persone che hanno perso il lavoro e un tasso di disoccupazione altissimo. Il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e per moltissimi il pasto principale è costituito da the e pane. I Palestinesi hanno perso qualsiasi speranza per il futuro e ciò ha indotto comportamenti molto violenti nei confronti degli Israeliani. Per quanto riguarda la sofferenza delle donne palestinesi, molte sono le vedove giovani e giovanissime o le donne con il marito disoccupato che si ritrovano senza reddito, senza formazione al lavoro e con i bambini piccoli da accudire. Alla loro sofferenza si aggiunge inevitabilmente quella dei figli: molti sono i casi di perdita della parola, di difficoltà scolastica, di perdita della capacità di concentrazione. C'è una grande necessità di trattamento psicologico per i bambini e di formazione al lavoro per le donne. Anche per quanto riguarda il rapporto tra donne e intifada molto è cambiato tra prima e seconda intifada. Sono mutati i luoghi dello scontro: i soldati israeliani non sono più nelle strade, davanti alle case, non fanno più parte degli incontri quotidiani per chi si muove solo all'interno del proprio villaggio; le manifestazioni si sono spostate ai check point e spesso prevedono l'uso delle armi per cui le donne non partecipano. Inoltre, con l'avvento dell'ANP, la questione "nazionale" è uscita dagli interessi delle organizzazioni di donne che si sono maggiormente dedicate alla questioni sociali e ai difesa loro diritti nell'ambito della società palestinese. Lo stesso vale per i giovani e per i lavoratori. Oggi c'è una ripresa di interesse per la questione nazionale e la volontà della donne di tenere insieme questione nazionale e questione sociale. Ma non è facile ed è proprio su questo punto che Zaira chiede la nostra collaborazione.

L'analisi di Reema parte dalla affermazione che la situazione attuale è estremamente pericolosa e che tale pericolosità è andata crescendo con l'elezione di Sharon, poi con l'11 settembre e ancora nelle ultime due settimane prima di Natale. La politica di Sharon, che raccoglie il 55% del consenso israeliano, mira alla eliminazione della ANP e alla distruzione di qualsiasi identità nazionale palestinese. Non potendo però agire direttamente in questo senso, usa tutti gli strumenti possibili per ottenere lo stesso risultato indirettamente, tendendo un serie di trappole politiche alla ANP e minando l'economia dei territori. Una volta eliminata l'ANP, i palestinesi resterebbero intrappolati in una serie di bantustan, governati da leader locali controllati da Israele e circondati dagli insediamenti dei coloni. Per quanto riguarda le differenze tra prima e seconda intifada, Reema descrive la prima come un largo movimento di massa, con la partecipazione delle organizzazioni dei lavoratori e di altre organizzazioni di base, che ha come obbiettivo la pace e che predilige la disobbedienza civile alla violenza armata. Per queste sue caratteristiche, la prima intifada riuscì a raccogliere il consenso di parte dell'opinione pubblica israeliana aprendo così la strada al processo di pace. La seconda intifada, invece, avviene in un momento in cui la società politica palestinese vive una crisi di democrazia interna, in cui non esiste una struttura capace di mobilitare la popolazione né di elaborare una strategia politica. Il background di questa intifada è il processo di pace e il governo israeliano sfrutta questo elemento per dire che i Palestinesi non vogliono la pace, ottenendo così di ricompattare l'opinione pubblica israeliana a destra e contro i Palestinesi. Reema concorda con Zaira nel definire "militarizzata" la seconda intifada. Questa militarizzazione, ovvero il ricorso alle armi da entrambi le parti, è stata strategicamente voluta dal governo israeliano proprio per compattare la sua opinione pubblica. Sharon ha infatti imparato dalla prima intifada che una rivolta non violenta dei palestinesi può raccogliere un buon numero di consensi tra i cittadini israeliani. Fin dai primi mesi l'esercito israeliano ha risposto con le armi al lancio delle pietre da parte dei ragazzi palestinesi. Ed infatti nei primi due mesi il numero di vittime palestinesi sotto i 18 anni è altissimo. D'altra parte, in questa seconda intifada, la società palestinese non sembra avere la struttura necessaria per organizzare una rivolta civile che vada oltre il lancio delle pietre. Il processo di pace e la successiva formazione dell'ANP hanno portato ad una sostanziale smobilitazione della popolazione palestinese. E la sistematica militarizzazione dell'intifada ha reso ancora più difficile l'organizzazione di una resistenza su larga base popolare. Reema affronta quindi la relazione tra donne e intifada, riprendendo quanto già detto da Zaira. Il problema principale è rappresentato dalla scissione tra questioni nazionali e questioni sociali in seno alle organizzazioni delle donne. Tale problema era già evidente prima dell'intifada, tanto è vero che cinque anni fa l'Università di Birzeit aveva organizzato una conferenza su questo tema. L'intifada ha reso palesi le conseguenze di questa scissione, in termini di non partecipazione delle donne. Tuttavia Reema sottolinea che, a suo avviso, le donne non possono affrontare le questioni nazionali da sole e che l'elaborazione politica deve avvenire in un contesto più ampio che includa tutte le componenti della società.

Si passa quindi al secondo tema proposto da Raffaella Lamberti: i progetti per il futuro. Su questo punto, Zaira e Reema sono concordi nel riconoscere la situazione attuale come estremamente difficile. La società palestinese è stremata da 15 mesi di lotta quotidiana per la sopravvivenza. Zaira porta il suo esempio personale: gran parte del suo tempo e delle sue energie sono consumate negli spostamenti, dagli attraversamenti dei check point a piedi in mezzo al fango e alla polvere, dal folle passare da un taxi all'altro anche per brevissimi tragitti. Quando finalmente si trova seduta alla sua scrivania non ha più le forze e il tempo necessario per elaborare una strategia politica. Reema ci confessa di essere estremamente depressa, di uscire poco di casa e di passare molto tempo a letto. Questo è ciò che voleva Sharon e ci è riuscito; ma, al tempo stesso, questo sta rafforzando la società palestinese che sta dimostrando una incredibile capacità di resistenza.

Per quanto riguarda la nostra comune azione per il futuro, Zaira individua una serie di priorità: 1) fare pressione politica su tutti governi per ottenere la protezione internazionale 2) sostenere le ong e le altre organizzazioni della società civile al fine di creare nuove opportunità di lavoro, specialmente per le donne. Non basta più lavorare sulla formazione e sui diritti umani; servono urgentemente interventi che diano alle donne la possibilità di avere un reddito stabile e duraturo 3) fare pressione su Israele attraverso strumenti quali il boicottaggio dei prodotti dei settlements o altri strumenti in grado di produrre una danno economico 4) sostenere i servizi sociali e psicologici, sviluppando un'offerta differenziata. Zaira si sofferma sulle attività di drammatizzazione che possono aiutare i bambini ad elaborare la sofferenza attuale. Finora questo tipo di attività sono state trascurate e hanno ricevuto finanziamenti irrisori
5) sostenere i prodotti del lavoro delle donne per aumentare il loro reddito

Reema riprende le priorità di Zaira, aggiungendo alcune sue considerazioni.
Per quanto riguarda il lavoro da fare all'estero, ritiene fondamentale il lavoro che possiamo fare rispetto ai nostri governi e le attività di boicottaggio nei confronti di Israele. Propone anzi di andare oltre il boicottaggio economico e di lavorare per il boicottaggio culturale, come si fece per il Sudafrica (escludere le squadre israeliane dalle competizioni sportive; impedire le tournée degli artisti israeliani; ecc.) Passando al lavoro da fare nei territori, Reema sottolinea l'importanza delle missioni civili di protezione perché ritiene molto difficile riuscire a superare il veto degli USA in seno alle Nazioni Unite. Quindi ci chiede di farle sapere di che cosa abbiamo bisogno per operare nei territori nel senso indicato da Zaira, mettendosi a nostra disposizione per creare le condizioni necessarie al nostro lavoro futuro

L'incontro termina sulla questione degli attentati suicidi. Reema riconosce che si è atteso fin troppo per aprire il dibattito su questa questione ma che qualcosa si comincia a muovere. Del resto è molto difficile esprimersi negativamente rispetto a dei giovani che danno la loro vita per la patria. I tutto il mondo questo tipo di comportamento è considerato positivamente. Comunque si tratta di un dibattito che deve coinvolgere tutta la società e non solo le donne. Quindi fa riferimento ad alcune statistiche che mettono in relazione la situazione politica generale con la % di consensi raccolti dagli attentati suicidi. Nel 1994, nel clima di ottimismo creato dagli accordi di Oslo, solo il 20% dei palestinesi approvavano gli attacchi suicidi. Tale percentuale saliva al 50% dopo tre mesi di intifada (dicembre 2000) e quindi al 75% dopo sei mesi di governo Sharon. Lo stesso andamento si riscontra all'interno della società israeliana se si considera il consenso degli israeliani all'assassinio dei leaders politici palestinesi. Oggi il 70% dei cittadini israeliani approva tali assassini, mentre 5 anni fa la percentuale era molto più bassa. Reema conclude quindi che entrambi i fenomeni dipendono da una serie di variabili esterne alla cultura dei due popoli, ovvero variano con il variare della situazione politica generale. Sono destinati a crescere se il conflitto si inasprisce ulteriormente ma possono diminuire se ritorna la speranza della pace.