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La nonviolenza e' in cammino. 323
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 323
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 27 Dec 2001 01:30:33 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 323 del 26 dicembre 2001 Sommario di questo numero: 1. Mara Selvini Palazzoli, un metodo 2. Tiziano Terzani, il venditore di patate e la gabbia dei vecchi lupi 3. Alcune azioni nonviolente per la pace in Palestina ed Israele (parte seconda) 4. Umberto Santino, finanza e crimine 5. La "Carta" del Movimento Nonviolento 6. Per saperne di piu' 1. MAESTRE. MARA SELVINI PALAZZOLI: UN METODO [Da Mara Selvini Palazzoli, Stefano Cirillo, Matteo Selvini, Anna Maria Sorrentino, I giochi psicotici nella famiglia, Cortina, Milano 1988, 1997, p. 291. Mara Selvini Palazzoli, nata nel 1916 e scomparsa nel 1999, psicoterapeuta, fondatrice a Milano del Centro per lo studio della famiglia, ha dato fondamentali contributi alla ricerca sulla terapia familiare] Un metodo che rifugga dalle semplificazioni mutilanti, nello sforzo continuo di far dialogare la molteplicita', la multidimensionalita', l'eterogeneita'. 2. REPORTAGE. TIZIANO TERZANI: IL VENDITORE DI PATATE E LA GABBIA DEI VECCHI LUPI [Tiziano Terzani e' un noto giornalista, esperto conoscitore delle culture e dei paesi asiatici. Questo articolo e' apparso sul "Corriere della Sera" del 24 dicembre] Kabul - La vista e' stupenda. La piu' bella che potessi immaginarmi. Ogni mattina mi sveglio in un sacco a pelo disteso sul cemento e qualche piastrella di plastica d'uno stanzone vuoto all'ultimo piano del piu' alto edificio del centro citta' e gli occhi mi si riempiono di tutto quel che un viaggiatore diretto qui ha sempre sognato: la mitica corona delle montagne di cui un imperatore come Babur, capostipite dei Moghul, avendole viste una volta, ebbe nostalgia per il resto della vita e desidero' che fossero la sua tomba; la valle percorsa dal fiume sulle cui sponde e' cresciuta la citta' a proposito della quale un poeta, giocando sulle due sillabe del nome Kabul in persiano, scrisse: "La mia casa? Eccola: una goccia di rugiada fra i petali di una rosa"; il vecchio Bazaar dei Quattro Portici dove, si diceva, e' possibile trovare ogni frutto della natura e del lavoro artigiano; la moschea di Puli-i-Khisti; il mausoleo di Timur Shah. Il santuario del Re dalle Due Spade costruito in onore del primo comandante musulmano che nel Settimo secolo dopo Cristo, pur avendo gia' perso la testa, mozzatagli da un fendente, continuo' - secondo la leggenda - a combattere con un'arma per mano, determinato com'era ad imporre l'Islam, una nuova, aggressiva religione appena nata in Arabia, ad una popolazione che qui, da piu' d'un millennio, era felicemente indu' e buddhista; e poi, alta, imponente sulla cresta della prima fila di colli, proprio di fronte alle mie vetrate, la Fortezza di Bala Hissar nella cui Residenza hanno regnato tutti i vincitori e nelle cui galere han languito, o sono stati sgozzati, tutti i perdenti della storia afghana. La vista e' stupenda, ma da quando sono arrivato, piu' di due settimane fa, con in tasca una lettera di presentazione per un vecchio intellettuale, nella borsa una bibliotechina di libri-compagni-di-viaggio e in petto un gran misto di rabbia e di speranza, questa vista non mi da' pace. Non riesco a goderne perche' mai, come da queste finestre impolverate, ho sentito, a volte quasi come un dolore fisico, la follia del destino a cui l'uomo, per sua scelta, sembra essersi votato: con una mano costruisce, con l'altra distrugge; con fantasia da' vita a grandi meraviglie, poi con uguale raffinatezza e passione fa attorno a se' il deserto e massacra i suoi simili. Prima o poi quest'uomo dovra' cambiare strada e rinunciare alla violenza. Il messaggio e' ovvio. Basta guardare Kabul. Di tutto quel che i miei libri raccontano non restano che i resti: la Fortezza e' una maceria, il fiume un rigagnolo fetido di escrementi e spazzatura, il bazaar una distesa di tende, baracche e container; i mausolei, le cupole, i templi, sono sventrati; della vecchia citta' fatta di case in legno intarsiato e fango non restano, a volte in file di centinaia e centinaia di metri, che dei patetici mozziconi color ocra come sulla battigia le guglie dei castelli di sabbia costruiti da bambini e subito espugnati dalle onde. Tanti monumenti sono letteralmente scomparsi. L'enigmatico Minar-i-Chakari , Colonna della Luce, costruito, fuori Kabul sulla vecchia via di Jalalabad, nel Primo Secolo dopo Cristo, forse per commemorare l'illuminazione di Buddha, non ha resistito alle cannonate e dal 1998 non e' che un triste cumulo di antichi sassi. Kabul non e' piu', in nessun senso, una citta', ma un enorme termitaio brulicante di misera umanita'; un immenso cimitero impolverato. Tutto e' polvere ed ho sempre di piu' l'impressione che nella polvere che mi annerisce costantemente le mani, che mi riempie il naso, che mi entra nei polmoni, in questa polvere c'e' tutto quel che resta di tutte le ossa, di tutte le reggie, le case, i giardini, i fiori e gli alberi che hanno un tempo fatto di quella valle un paradiso. Settanta diversi tipi di uva, trentatre' tipi di tulipani, sei grandi giardini folti di cedri erano il vanto di Kabul. Non c'e' assolutamente piu' nulla. E questo non per una maledizione divina, non per l'eruzione di un vulcano, lo straripamento di un fiume o una qualche altra catastrofe naturale. Il paradiso e' finito una volta e poi di nuovo e poi tante altre volte per una sola, unica causa: la guerra. La guerra degli invasori di secoli fa, la guerra del secolo scorso e dell'inizio di questo secolo portata qui dagli inglesi - che ora, poco delicatamente, son voluti tornare a capo della "Forza di pace" -, la guerra degli ultimi vent'anni, quella a cui tutti, in un modo o nell'altro, magari solo vendendo armi ad uno dei tanti contendenti, abbiamo partecipato; ed ora la guerra americana: una fredda guerra di macchine contro uomini. Forse e' l'eta' che mi ha fatto sviluppare una sorta di isterica sensibilita' per la violenza, ma dovunque poso lo sguardo vedo buchi di pallottole, squarci di schegge, vampate nere di esplosioni ed ho l'impressione di esserne trafitto, mutilato, bruciato. Forse ho perso, se l'ho mai avuta, quella obbiettivita' dell'osservatore non coinvolto, o forse e' solo il ricordo di un verso che Gandhi recitava nella sua preghiera quotidiana, chiedendo di potersi "immaginare la sofferenza degli altri" per poter capire il mondo, ma davvero non riesco ad essere distaccato come se questa storia non mi riguardasse. Dall'alto della mia finestra vedo un uomo camminare lento e voltarsi continuamente a guardare una giovane donna che gli arranca dietro senza una gamba. Forse e' sua figlia. Anch'io ne ho una e solo ora, per la prima volta nella vita, penso che potrebbe saltare su una mina. Il freddo ora screpola la pelle e vedo gruppi di bambini-mendicanti che accendono dei falo' con sacchetti e pezzi di plastica trovati nei cumuli di spazzatura. Ho un nipote di quell'eta' e mi immagino lui a respirare quell'aria puzzolenta e cancerogena pur di scaldarsi. Dopo giorni di ricerca sono finalmente riuscito a rintracciare l'anziano signore per il quale avevo una lettera di presentazione: l'ex curatore del Museo di Kabul. L'ho trovato al bazaar di Karte Ariana dove ora, per campare la famiglia, vende patate. Avrebbe potuto succedere a me; potrebbe ancora succedere ad ognuno di noi: a causa di una guerra. Mi hanno raccontato che, durante il periodo piu' duro della guerra, fra il 1992 ed il 1996 quando quelle stesse fazioni dell'Alleanza del Nord che ora governano Kabul, ma che allora avevano fatto di questa citta' il loro campo di battaglia ed il loro mattatoio (piu' di 50.000 furono i morti civili), i grandi container di ferro, arrivati via mare e poi via Pakistan pieni delle armi e munizioni americane per la jihad contro l'Unione Sovietica, venivano usati dai gruppi di mujaheddin come prigioni per i loro nemici e che a volte, per rappresaglia, i prigionieri ci venivano dimenticati dentro, a volte arrostiti bruciandoci attorno taniche di benzina. Non so se sia vero, ma non riesco piu' a guardare uno di questi container - e ce ne sono a migliaia, dappertutto, riciclati in abitazioni, negozi ed officine - senza ripensare a quella storia. Ogni oggetto, ogni muro, ogni faccia qui e' segnata, mi pare, da questa orribile violenza che e' stata ed e' ancora - ora, in questo momento, mentre scrivo - la guerra. Neppure l'alba, dopo una notte di dormiveglia col rombo intermittente dei B-52 che passano alti, e' rincuorante a Kabul. Il sole sembra un incendio dietro il paravento delle montagne che rimangono a lungo come ritagli di carta scura contro l'orizzonte. Capita che, mentre la citta' e' ancora tutta nell'ombra, un solitario B-52 si illumini improvvisamente dei primi raggi dorati e diventi come un misterioso, inquietante, uccello da preda intento a scrivere con le sue quattro code di fuoco strani messaggi di morte nel cielo nero-turchese. I B-52 non sono qui soltanto per bombardare i rifugi degli uomini di Bin Laden o i convogli sospetti in cui potrebbe nascondersi il Mullah Omar. Son qui per ricordare a tutti chi sono i nuovi poliziotti, i nuovi giudici, i nuovi padroni-burattinai di questo paese. L'alzabandiera americano, messo in scena lunedi scorso, giorno della grande festa musulmana di Id, alla fine del Ramadan, era fatto esattamente per dire questo, con la banda dei marines che intonava il "Dio salvi l'America", i discorsi di circostanza, il picchetto d'onore ed il lento, lentissimo issare del vessillo a stelle e strisce sul pennone del giardino. Varie rappresentanze hanno riaperto a Kabul i loro battenti; diplomatici iraniani, turchi, francesi, cinesi, inglesi ed italiani hanno rispolverato le scrivanie e tirato su la bandiera; nessuno ha fatto di questa routine un tale evento. Gli americani hanno una loro sorta di ossessione con la bandiera. Quella che hanno rimesso sulla ambasciata di Kabul e' la stessa che avevano ammainato nel 1989. Ma non era la prima che gli Stati Uniti ripiantavano sul suolo afghano. Quella l'hanno issata i marines nella loro base alla periferia di Kandahar agli inizi della campagna militare. La base e' stata battezzata "Campo Giustizia" e la bandiera, tanto perche' sia chiaro che "giustizia" in questo caso vuol dire soprattutto "vendetta", porta le firme dei familiari delle vittime delle Torri Gemelle. Gli afghani non hanno alcuna difficolta' a capire questo tipo di cose. Nel 1842 il grande Bazaar dei Quattro Portici con i suoi famosi disegni murali e le sue decorazioni floreali venne raso al suolo e saccheggiato dalle truppe inglesi per vendicare l'uccisione di due emissari di Londra ed il successivo sterminio, da parte degli afghani, di un corpo di spedizione di 16.000 uomini e dipendenti sulla via da Kabul a Jalalabad (solo un medico sopravvisse a raccontare la storia). Nel 1880 furono di nuovo gli inglesi, dopo aver impiccato nel cortile della Fortezza 29 capi afghani di una nuova rivolta indipendentista, a radere al suolo gran parte di Bala Hissar "perche' - come scrisse il generale di Sua Maesta' che diresse l'operazione - indelebile resti il ricordo di come sappiamo vendicare i nostri uomini". Con questo tipo di "ricordi" a cui fanno riferimento vari monumenti e nomi di strade e quartieri nella Kabul moderna, sarebbe certo stato piu' corretto da parte di quella misteriosa entita' che si definisce "comunita' internazionale" e che in verita' sembra sempre di piu' essere un club ad uso e consumo degli Stati Uniti, affidare il comando della "Forza di pace" ad un Paese che non fosse, come l'Inghilterra, identificato qui col colonialismo, l'aggressione ed un poco meritevole record: il bombardamento aereo di Kabul e della sua popolazione civile da parte dell'aviazione inglese nel 1919 fu il primo nella storia. Secoli prima gli afghani avevano conosciuto un'altra ed ancor piu' memorabile vendetta. Passando per la piana di Bamiyan nel 1221, Gengis Khan aveva visto morire suo nipote, colpito da una freccia afghana, ed aveva ordinato che in quella valle non fosse lasciato alcun segno di vita. Per giorni i soldati mongoli sgozzarono ogni uomo, donna, bambino ed animale fino a che, si dice, le spade erano senza filo e le braccia stanche; poi segarono ogni albero e sradicarono ogni pianta. Fu cosi' che per centinaia d'anni i grandi Buddha scolpiti nella roccia, ma gia' spogli dell'oro originale che li ricopriva, guardarono con gli occhi vuoti nella valle... aspettando che altri guerrieri, questa volta i Talebani, armati di bazooka, venissero a vendicarsi contro la "comunita' internazionale" che si rifiutava, contro ogni evidenza, di riconoscerli come i legittimi governanti dell'Afghanistan. Ora tocca ai Talebani essere vittime degli americani che vogliono vendicare i loro morti e soprattutto vogliono ristabilire nel mondo l'idea della loro invulnerabilita'. Il fatto che i Talebani non siano direttamente - e forse neppure indirettamente - responsabili di quei morti e' ormai irrilevante. Cosi' come e' irrilevante che gli afghani, certo non coinvolti nel massacro delle Torri Gemelle, siano stati i primi a pagare il conto di quella vendetta. Quanto caro sia stato resta un mistero. Questa e' una guerra seguita da centinaia di giornalisti, una guerra a cui e' certo dedicata piu' carta stampata e piu' ore televisive di qualsiasi altra guerra precedente, eppure e' una guerra che gli Stati Uniti con grande determinazione riescono a mantenere invisibile e di cui non faranno mai sapere l'intera verita'. Ci sono in questa guerra domande a cui gli Stati Uniti si rifiutano di rispondere e che per questo nessuno pone gia' piu'. Eccone alcune: quante sono state finora le vittime civili - quelle assolutamente innocenti - dei bombardamenti americani? A mio parere gia' piu' delle vittime delle Torri Gemelle. Quante sono state le vittime fra i militari Talebani? A mio parere oltre diecimila. La sola prova che ho e' piccola, ma significativa. Prima di venire in Afghanistan sono ripassato da Peshawar e sono tornato nella regione pakistana dominata dai fondamentalisti islamici dove, subito dopo l'inizio dei bombardamenti, avevo incontrato i giovani che partivano, entusiasti, per la jihad. Bene, ne ho rivisto uno che era appena riuscito a tornare: sconfitto. I bombardamenti a tappeto dei B-52, raccontava, erano stati terrificanti e micidiali. Assieme ai suoi compagni era andato per combattere gli americani, ma di quelli non aveva visto neppure l'ombra. Aveva solo sentito i loro aerei rombare in cielo e visto i devastanti risultati delle loro bombe attorno a se'. Di un gruppo di 43 erano sopravvissuti solo in tre. Se e' successo lo stesso la' dove i Talebani han cercato di resistere e mantenere il controllo del terreno, come hanno fatto per settimane a Kandahar, le loro perdite debbono essere state considerevoli. Un'altra improponibile domanda e' questa: che cosa e' successo alle centinaia di famiglie degli arabi venuti in Afghanistan a combattere, per conto degli americani, la jihad contro i sovietici e rimasti poi qui al seguito di Osama Bin Laden? La casa accanto a quella del mio "venditore di patate" era abitata da un gruppo di famiglie cosi'. "C'erano varie donne ed almeno una decina di bambini. Una notte sono tutti partiti su dei camioncini", dice. Dove sono ora? Il mio giovane jehadi fuori Peshawar raccontava che, tornando verso il Pakistan, aveva incontrato dei combattenti arabi che andavano dai contadini pashtun della regione a pregarli di prendere con se' le loro mogli ed i figli, facendosi promettere che si sarebbero occupati di loro. Come certi bambini ebrei lasciati a dei contadini ariani perche' sopravvivessero alle retate naziste. Che colpe hanno quella gente? Chi si occupera' di loro? Ci sono centinaia di migliaia di afghani (250.000 soltanto a Maslakh, vicino ad Herat) che per sfuggire ai bombardamenti americani sono finiti in zone remote del paese dove ora, a causa della neve, e' impossibile far arrivare loro del cibo e che gia' muoiono di fame e rischiano di scomparire in massa. Ma la loro e' una tragedia che passa inosservata: disturba il quadro positivo che i portavoce della Coalizione Internazionale contro il Terrorismo intendono presentare al mondo e, tranne qualche inorridito e ribelle funzionario delle Nazioni Unite, nessuno ne parla, nessuno si indigna. Se qualcuno solleva qualche dubbio la risposta e' ormai sempre la stessa: "Ricordatevi dell'11 settembre", come se quelle vittime potessero giustificare tutto, come se quelle vite fossero diverse dalle altre e comunque valessero molto, molto di piu'. Una forma di violenza si aggiunge ad un'altra. Solo interrompendo questo ciclo si puo' sperare in una qualche soluzione, ma nessuno sembra disposto a cominciare. Fra le tante organizzazioni non governative che si affollano ora in Afghanistan a portare, coi soldi dei vari governi, la loro versione di umanita' e di aiuti, non ho sentito di nessuna che intenda venire qui a lavorare per la riconciliazione, a proporre la nonviolenza, a far riflettere gli afghani - e forse anche gli altri - sulla futilita' della vendetta. E, mio Dio, se ce ne sarebbe bisogno! Raramente ho visto un paese cosi' imbevuto di violenza, di ostilita', cosi' propenso alla guerra. Dovunque mi rivolgo sento odio. I Tagiki odiano i Pashtun, gli Uzbeki odiano i Tagiki, i Pashtun odiano gli Uzbeki e tutti odiano gli Hazara, visti ancora oggi come i discendenti delle orde mongole - il loro nome significa "a migliaia" - ed eredi di Gengis Khan. Ho sempre creduto che la sofferenza fosse una maestra di saggezza e venendo in Afghanistan pensavo di trovare qui, dopo tanta sofferenza, un terreno fertile per una riflessione sulla nonviolenza ed un impegno alla pace. Per niente! Neppure la' dove sarebbe piu' ovvio. Il centro ortopedico del Comitato Internazionale della Croce Rossa, e' uno dei posti piu' commoventi di Kabul, un concentrato di dolore e di speranza, diretto da un torinese, schivo ed efficiente, Alberto Cairo. Lui e' la sola persona del Centro ad avere due mani e due gambe. A tutti gli altri, pazienti ed impiegati, medici e tecnici manca regolarmente qualcosa. Persino l'uomo delle pulizie e' senza una gamba. "Lavorare qui serve a noi a sentirci utili e serve a chi arriva qui, avendo perso un pezzo di se', a vedere che e' possibile continuare a vivere", dice l'uomo che mi accompagna. Era un traduttore. Un giorno, tornando a casa in bicicletta, un cecchino della Alleanza del Nord lo ha centrato in una gamba spappolandogliela sopra al ginocchio. "Se non e' morto, quel tipo e' ora di nuovo a Kabul", ho commentato come soprappensiero, "Lei lo ha perdonato?". "No. No. Se potessi lo ammazzerei con le mie mani", mi ha risposto. Tutti quelli che ci stavano a sentire erano d'accordo. Nella sezione delle donne una ragazzina di 13 anni, impara a camminare con un nuovo piede di plastica, andando lentamente lungo un tracciato di orme rosse sul pavimento. Un giorno, sei mesi fa, la madre le ha chiesto di andare a cercare un po' di legna per il fuoco. Poco dopo ha sentito una esplosione e le urla. Chiedo alla fisioterapista che l'aiuta, anche lei senza una gamba, persa anni fa su una mina nascosta nel cortile della scuola, se pensa possibile un mondo senza guerra. Ride come avessi raccontato una barzelletta. "Impossibile. Impossibile", dice. Ogni politico in visita a Kabul si fa vedere al centro di Alberto Cairo e porta aiuti perche' lui continui il suo convincentissimo lavoro. Quel che nessuno ha il coraggio di dire e' che l'unico modo di metter fine a quel lavoro, agli aiuti ed alle visite dei politici e' quello di proibire, ora, subito il commercio e la costruzione di tutte le mine in tutto il mondo. Che la "comunita' internazionale" mandi una "Forza di pace" a smantellare qualsiasi fabbrica, dovunque si trovi! Cairo e' in Afghanistan da 12 anni e conta di restarci il resto della vita. Di lavoro ne ha: oltre al milione di vecchie mine, ci sono ora tutte quelle nuove lanciate dagli americani. Anche lui sorride della mia speranza in un mondo senza guerra. "In Afghanistan la guerra e' il sale della vita", dice, "la guerra e' piu' saporita della pace". Il suo non e' cinismo; e' rassegnazione. Ma io non posso rassegnarmi anche se mi rendo conto che quello che stiamo vivendo e' un momento particolarmente tragico per l'umanita'. Da settimane tutto quello che vedo e che sento a proposito di questa guerra sembra fatto per dimostrare che l'uomo non e' affatto la parte piu' nobile della creazione e che nel suo cammino di incivilimento sta subendo ora, davanti a noi, con la nostra partecipazione, una grande battuta d'arresto. Proprio all'inizio del terzo millennio, all'inizio di quella che tanti giovani pensavano fosse "l'Era Nuova", l'uomo ha innescato un pericolosissimo processo di nuova barbarie. Proprio quando una serie di regole del convivere umano parevano assicurate e condivise dai piu', tutto e' stato sconvolto e l'amministrazione della morte altrui torna ad essere una routine tecnico-burocratica come alla fine per Eichmann era diventato il trasporto degli ebrei: sotto gli occhi di soldati occidentali, a volte con la loro attiva partecipazione, prigionieri con le mani legate dietro la schiena vengono fucilati ed il massacro, definito convenientemente una "rivolta carceraria" viene archiviato. Interi villaggi di contadini la cui unica colpa e' di essere nelle vicinanze di una montagna chiamata Tora Bora vengono rasi al suolo dai bombardamenti a tappeto con centinaia di vittime, ma la loro esistenza viene spudoratamente negata ripetendo che tutti gli obbiettivi colpiti sono militari. Una personalita' di rilievo come il Segretario alla Difesa Rumsfeld descrive i combattenti di Osama Bin Laden come "animali feriti", per questo particolarmente pericolosi e con cio' possibilmente da abbattere anche quando il rifiutare la resa di un combattente disarmato e' un crimine di guerra secondo le Convenzioni di Ginevra. Il fatto che le quasi quotidiane apparizioni del Segretario Rumsfeld al podio del Pentagono siano diventate uno dei programmi piu' popolari e piu' seguiti d'America, dice molto sullo stato di gran parte dell'umanita' oggi. La tortura stessa cessa di essere un tabu' nella coscienza occidentale e nei talk-show si discute ormai apertamente sulla legittimita' di ricorrerci quando si tratti di estrarre al sospetto-torturato delle informazioni che salvino vite americane. Pochissimi protestano e la "comunita' internazionale" si appresta ad accettare che l'interesse nazionale americano prevalga su qualsiasi altro principio, compreso quello finora sacrosanto della sovranita' nazionale. La stessa stampa americana ha messo da parte molti dei vecchi principi che l'hanno in passato resa importante nel suo ruolo di controllo del potere. Ho visto con i miei occhi l'originale di un articolo scritto dall'Afghanistan da un corrispondente di un grande quotidiano e quel che poi e' stato pubblicato. Un tempo sarebbe stato motivo di scandalo. Non ora. "Ormai siamo diventati la Pravda", diceva il giornalista. La attuale, diffusa indifferenza verso quel che sta succedendo agli afghani ed in fondo a noi stessi ha radici profonde. Anni di sfrenato materialismo hanno ridotto e marginalizzato il ruolo della morale nella vita della gente, facendo di valori come il danaro, il successo ed il tornaconto personale il solo metro di giudizio. E' questo nuovo tipo di uomo occidentale, cinico ed insensibile, egoista e politicamente corretto - qualunque sia la politica -, prodotto della nostra societa' di sviluppo che oggi mi fa paura quanto l'uomo col Kalashnikov e l'aria da grande tagliagole che ora e' ad ogni angolo di strada a Kabul. I due si equivalgono, sono esempi diversi, dello stesso fenomeno: quello dell'uomo che dimentica d'avere una coscienza, che non ha chiaro il suo ruolo nell'universo e diventa il piu' distruttore di tutti gli esseri viventi, ora inquinando le acque della terra, ora tagliandone le foreste, uccidendone gli animali ed usando sempre piu' sofisticate forme di varia violenza contro i suoi simili. In Afghanistan tutto questo mi appare chiaro. E mi brucia e mi riempie di rabbia. Per questo, a pensarci bene, l'unico momento di gioia che ho avuto in questo paese e' stato quando ci son passato sopra. Dall'oblo' di un piccolo aereo a nove posti della Nazioni Unite in rotta da Islamabad a Kabul, il mondo appariva come se l'uomo non fosse mai esistito e non ci avesse lasciato alcuna traccia di se'. Dall'alto il mondo era semplicemente meraviglioso: senza frontiere, senza conflitti, senza bandiere per cui morire, senza patrie da difendere. "Ho pieta' di coloro che l'amore di se' / lega alla patria; / la patria e' soltanto / un campo di tende in un deserto di sassi", dice un vecchio canto himalayano citato da Maraini nel suo Segreto Tibet. Se anche ci fossero state, quelle tende non le avrei viste. Per stare al sicuro l'aereo volava a dieci chilometri di altezza e la terra ora ocra, ora violetta e grigia, era come la pelle grinzosa d'un vecchio gigante; i fiumi le sue vene. Dinanzi, come un immenso oceano in tempesta congelatosi all'improvviso, avevamo la barriera innevata dell'Hindu Kush, "l'assassino di hindu'", a causa delle centinaia di migliaia di indiani morti di freddo in quelle montagne mentre venivano trasportati come schiavi per l'Asia Centrale dai loro conquistatori Moghul. L'Afghanistan e' stato da sempre, per la sua posizione geografica, il grande corridoio del mondo. Da qui son passate tutte le grandi religioni, le grandi civilta', i grandi imperi; da qui son passate tutte le razze, tutte le idee, tutte le arti. L'Afghanistan e' una miniera di storia umana, sepolta nella terra di posti come Mazar-i-Sharif, Kabul, Kunduz, Herat e Balkh. "E voi che ci fate qui?", chiese nel 1924 un viaggiatore americano, sorpreso di vedere a Kabul, fra quelle delle grandi potenze, anche una ambasciata italiana. "L'archeologia", si senti' rispondere dall'allora ministro plenipotenziario Paterno' dei Marchi. Dall'inizio del secolo scorso tanti sono stati gli scavi fatti in Afghanistan da nostre missioni scientifiche ed era davvero penoso, nelle prime settimane dei bombardamenti, sentire che i B-52 americani, alla caccia dei Talebani, praticavano ora una loro nuova forma di archeologia andando a scavare, a suon di bombe a tappeto, proprio in quei posti preziosi. Questo d'essere al centro di un qualche interesse altrui e' il destino dell'Afghanistan. E' cosi' che, da Alessandro il Macedone, ai mongoli, ai russi, agli inglesi nell'Ottocento, il Paese e' sempre stato la posta di un Grande Gioco. E' esattamente ancora oggi cosi'. Quando l'aereo delle Nazioni Unite s'e' posato sulla pista di Bagram, un posto che duemila anni fa fu capitale di un grande civilta' - Kushan - di cui le guerre han spazzato via ogni traccia in superficie, i nuovi giocatori erano tutti la', su quella pista di cemento in mezzo ad una valle ora deserta e punteggiata dalla spettrale presenza di carcasse di carri armati, elicotteri, camion, aerei e cannoni. Mentre tre marines ed un cane lupo, anche lui americano, venivano ad annusare meticolosamente i miei bagagli, dei soldati russi poco lontani trafficavano attorno ad un loro aereo e ad una fila di camion dai tendoni chiusi su cui era scritto "Dalla Russia per i bambini dell'Afghanistan". Dinanzi alle rovine di una caserma si vedevano le sagome di alcuni soldati inglesi. Bisognava guardare le stupefacenti montagne che, al calar del sole, sembrano prendere vita e muoversi col mutare delle ombre e dei colori, per non disperarsi: la vecchia storia stava semplicemente rincominciando. La "comunita' internazionale" pensa di aver trovato una soluzione per i problemi dell'Afghanistan in una formula che combina violenza e soldi, milizie afghane colpevoli di vari misfatti, ma ora tenute a bada anche loro dai B-52, ed una persona per bene come il nuovo capo dell'esecutivo Hamid Karzai, unico e debole Pashtun fra i rappresentanti forti delle altre etnie. Spero che la formula funzioni, ma non ci credo. Certo, anche a Kabul la vita riprende. L'ho vista riprendere a Phnom Penh dopo la fine dei Khmer Rossi, l'ho vista riprendere nelle foreste del Laos e del Vietnam defoliate dagli agenti chimici e cancerogeni degli americani. Ma che vita? Una vita nuova, una vita piu' consapevole, piu' tollerante, piu' serena o la solita vita di ora: aggressiva, rapace, violenta? Uno dei momenti che non dimentichero' di questi giorni a Kabul e' stata la visita allo zoo. "Vale la pena, mi creda", aveva suggerito il "venditore di patate". Era venerdi, giorno di festa per i musulmani, e qualche decina di persone avevano pagato i duemila afghani (150 lire) del biglietto per entrare a vedere la collezione piu' patetica e misera di animali che uno possa immaginarsi: un piccolo orso col naso scortecciato e purulento, un vecchio leone che non sta piu' sulle gambe ed a cui e' morta di recente la leonessa, un cerbiatto, una civetta, due aquile spennacchiate e tanti conigli e piccioni. Durante le battaglie fra i vari gruppi mujaheddin dell'Alleanza del Nord, prima che arrivassero i Talebani, lo zoo e' stato per un po' la linea del fronte; ci son cadute sopra varie bombe e missili e molte gabbie si sono sfasciate permettendo a vari animali di scappare. I lupi non sono stati fortunati ed in una gabbia puzzolentissima, senza acqua, dove un guardiano butta una volta al giorno degli avanzi di carne, sono rimasti due vecchi esemplari. Sono li' da anni: soli, prigionieri, chiusi nello stesso spazio. Si conoscono. Si conoscono bene, eppure strisciano in continuazione guardinghi contro le pareti ormai lustre e la rete tutta rabberciata e, incrociandosi, ogni volta ringhiano, si mostrano i denti e si aggrediscono, aizzati da una piccola folla di uomini che forse s'illudono d'essere diversi e non si rendono conto d'essere, anche loro, nella gabbia dell'esistenza solo per morirci. Tanto varrebbe allora viverci in pace. 3. INIZIATIVE. ALCUNE AZIONI NONVIOLENTE PER LA PACE IN PALESTINA ED ISRAELE (PARTE SECONDA) [Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riportiamo una serie di comunicati concernenti varie iniziative nonviolente congiunte tra israeliani e palestinesi per la pace e la convivenza] Sostegno agli obiettori di coscienza israeliani Leonid, Yair, Daniel ed Eran sono quattro ragazzi israeliani tra i 18 e i 21 anni che si sono rifiutati di servire il loro paese con il servizio militare e, proprio per questo, sono oggi rinchiusi in un carcere militare. Attraverso le vicende di Leonid e di Yair, di cui possediamo maggiori informazioni, ci rendiamo conto di che cosa significa oggi, in Israele, essere obiettori di coscienza. Nel tumulto del conflitto, la loro scelta non fa rumore. Eppure e' il segnale della spaccatura piu' ampia che esiste anche all'interno della popolazione israeliana, come di quella palestinese, con la presenza di singoli e gruppi che rifiutano il ricorso alla violenza. War Resisters' International, che li sostiene, teme per la loro incolumita' e chiede a tutti, gruppi e singoli, che nel mondo si battono per la pace e per il rispetto dei diritti umani, di sostenerli con lettere e testimonianze, e di rivolgersi alle autorita' israeliane chiedendo il loro rilascio immediato. Proprio un forte movimento internazionale di opinione, a diretto contatto con i gruppi presenti sul territorio, potra' essere di aiuto per ridurre le violenze e per far sentire a chi rischia sulla propria pelle che non e' solo. In coda all'articolo sono riportati tutti gli indirizzi necessari. Le lettere di protesta (preferibilmente via fax) dovrebbero essere indirizzate al Ministero della Difesa. Sono necessarie copie alle direzioni delle prigioni militari dove gli obiettori sono rinchiusi. E' preferibile contattare anche la direzione della procura militare e l'ambasciata israeliana nel paese di appartenenza. Infine, potrebbe essere utile una informazione diffusa alle altre autorita' e ai media israeliani. * La storia di Leonid Kressner Leonid Kressner e' un obiettore di coscienza pacifista di 18 anni, rinchiuso in cella di isolamento per aver rifiutato di indossare l'uniforme. Leonid ha dichiarato la sua obiezione ben prima di essere interrogato dal Military Conscience Committee. Il Comitato ha deciso di rifiutare l'esenzione dal servizio militare dopo che il padre di Leonid, con una lettera, ha dichiarato che suo figlio e' desideroso di servire il proprio paese, ma non con le armi. Il Comitato vi ha rilevato una contraddizione e si e' espresso negativamente - o almeno, questo e' quanto dichiarato a Leonid durante la sua udienza, poiche' non esiste alcun documento scritto in cui la decisione venga espressa e motivata. Il giorno del suo arruolamento Leonid Kressner ha acconsentito alle procedure formali di arruolamento. La tattica usata dall'esercito in tali casi, infatti, consiste nel mentire agli obiettori, dicendo loro che tutte le formalita' dovranno essere normalmente adempiute, altrimenti la richiesta di obiezione non sara' esaminata. Dopo aver esplorato tutte le strade a sua disposizione (incluso spiegare la sua posizione di coscienza ad uno psicologo militare), Leonid ha deciso di disertare. Il suo obiettivo era quello di venire condotto di fronte ad un tribunale militare che, sperava, avrebbe stabilito un'udienza e lo avrebbe congedato. Per tutto quel periodo Leonid ha rifiutato con forza di ricevere o di portare la divisa. Dopo 35 giorni di assenza dal servizio militare, Leonid Kressner e' stato arrestato dalla polizia militare, nella sua casa, nel cuore della notte, e condotto nella Prigione Militare n. 6. E' stato visto da un ufficiale per una prova disciplinare, ma Leonid si e' rifiutato - un'opzione concessa dalla legge a tutti i soldati - sperando di arrivare al tribunale militare. Quando i soldati rifiutano la prova disciplinare, i loro casi sono esaminati dall'ufficio del Procuratore Militare Generale che decide se stabilire o meno un'udienza. Nel caso di Leonid Kressner, e' stato deciso il rilasciarlo, spiegando che per accedere ad un'udienza e' necessaria una assenza dal servizio piu' prolungata, e costruendo cosi' l'accusa che oggi gli viene rivolta. Leonid e' ritornato effettivamente a casa, dove e' rimasto fino al 15 ottobre scorso, finche', dopo 69 giorni di assenza dal servizio militare, e' stato portato nuovamente nel Carcere Militare n. 6. A tarda notte anche la casa dei suoi genitori e' stata visitata dalla polizia. Il 16 ottobre, per aver rifiutato di indossare l'uniforme, Leonid Kressner e' stato trasferito nel Carcere Militare n. 4, in cella di isolamento, dove c'e' sempre il pericolo che vengano negati i diritti basilari dei prigionieri e che avvengano maltrattamenti da parte dei guardiani. Dopo alcuni giorni e' stato riportato nuovamente nel Carcere Militare n. 6. Il giudice del tribunale militare di Haifa ha deciso di tenerlo in custodia e di posticipare la sua decisione - una procedura standard nelle pratiche militari. Nel frattempo Leonid e il suo avvocato hanno reiterato la richiesta di esenzione dal servizio militare. Se la loro richiesta sara' accolta, e' quasi certo che Leonid sara' esentato dal servizio e rilasciato dalla prigione, anche se tali procedure potranno richiedere qualche tempo. Le ultime notizie in nostro possesso riguardano il rifiuto, da parte del carcere militare, di una visita con i suoi genitori, gia' stabilita. La ragione dichiarata e' che Leonid Kressner non si mette sull'attenti quando gli viene ordinato. Va detto che, come a tutti i prigionieri in cella d'isolamento, a Leonid Kressner viene impedito di telefonare ai genitori. L'unico caso in cui ha potuto farlo e' stato quando e' stato portato di fronte alla corte militare per una udienza preliminare. * Yair Halper Yair Halper (ISR11599), 18enne, e' stato condannato a 28 giorni di prigione e trasferito in cella di isolamento nel Carcere Militare n. 4 per essersi rifiutato di prestare servizio nell'esercito e di indossare l'uniforme. Questo carcere e' noto per la presenza di guardiani che esercitano abusi ai danni dei prigionieri. Il 17 ottobre, prima di entrare in cella, Yair Halper ha dichiarato: "Mi considero un pacifista, e uso questa parola solo per la mancanza di una migliore. Ho solo 18 anni, ancora un bambino (almeno ai miei occhi). Continuo a chiedere a me stesso che diavolo so del pacifismo? I miei valori non sono mai stati veramente messi a prova. Comunque, "pacifista" e' l'aggettivo piu' vicino che riesco a trovare per definire quello che sono. Come pacifista, obietto a tutti gli eserciti del mondo, non importa dove si trovano, chi vi lavora e per quali scopi. Inoltre, obietto al servizio nelle Forze Militari di Israele per ragioni politiche. Non portero' mai l'uniforme o qualunque altro simbolo che rappresenti l'esercito o che mi renda parte di esso. Vedo l'esercito di Israele come un meccanismo che contiene tutto cio' a cui io mi oppongo. Ogni soldato contribuisce al suo perpetuarsi, non solo con il completo disinteresse per i diritti umani dei palestinesi, ma con la continua conferma e fortificazione della occupazione israeliana. L'esercito fa il lavaggio del cervello ai suoi soldati, impone loro una mentalita' brutale e disumana e fa si' che ciascuno perda la propria individualita'. Non mi uniro' ad un sistema che calpesta i diritti dell'uomo e che continua a rapinare, controllare ed occupare i territori palestinesi. Per quanto possa sembrare infantile o stereotipato, io conosco un solo modo di vivere la mia vita, ed e' essere sincero con me stesso, coerente con i miei valori, vivendo secondo cio' che i miei principi mi dettano. Si', entro volontariamente in prigione e saro' orgoglioso di essere rinchiuso per quello che reputo giusto. Come dichiaro' Dostoevskij, il grado di civilizzazione di una societa' puo' essere giudicato dalle ragioni per cui si e' incarcerati. Sarei lieto di ricevere qualsiasi sostegno, con lettere, telefonate, o tutto quello che riuscite a trovare. Pace! Yair Halper". * Eran Razgour L'obiettore di coscienza Eran Razgour e' stato imprigionato il 28 ottobre 2001, con la condanna a 42 giorni di reclusione. Questa sentenza, insolitamente lunga, e' composta da una condanna a 14 giorni data ad Eran Razgour al giorno dell'arresto, e da una sentenza sospesa di 28 giorni comminata tre giorni prima. Entrambe le condanne sono state decise per il suo rifiuto al servizio militare. Eran Razgour dovrebbe uscire di prigione il 4 dicembre, ed e' abbastanza probabile che venga nuovamente arrestato subito dopo. Una manifestazione di solidarieta' per richiedere il suo rilascio immediato si e' svolta di fronte al Qirya, il quartier generale dell'esercito israeliano, a Tel-Aviv, il 31 ottobre scorso. * Ro'i Wolman Ro'i Wolman e' stato condannato a 28 giorni di detenzione per essersi rifiutato di servire l'esercito nell'area di Hebron. Al suo processo, Ro'i Wolman ha affermato che "le azioni dell'esercito israeliano nei territori occupati sono immorali e ingiuste, percio' non intendo prendervi parte". Ro'i, 24 anni, e' ufficiale nel corpo di artiglieria. E' un giornalista per il portale internet israeliano Walla e vive a Tel Aviv. E' recluso nella Prigione Militare n. 6. La sua condanna e' la piu' lunga registrata fin qui nei confronti di un obiettore e interrompe quella che sembrava una politica di pacificazione. * Daniel Daniel ha 20 o 21 anni, il suo cognome e' sconosciuto. Nel mese di settembre e' stato incarcerato nella prigione militare n. 6. E' il primo obiettore di coscienza in prigione di origine etiope. La sua sentenza e' sconosciuta. Per scrivere lettere di sostegno ai singoli obiettori di coscienza - Nella prigione militare n. 6 Leonid Kressner - Military ID 7156547 Daniel - Military ID 5617354 Ro'i Wolman Military Prison No 6, Military Postal Number 03734, IDF Israel - Nella prigione militare n. 4 Yair Halper - Military ID 7237405 Eran Razgour Military Prison No 4, Military Postal Number 02507, IDF Israel. Per scrivere alla direzione delle prigioni dove sono rinchiusi: - Commander of Military Prison No. 6, Military Prison No. 6, Military postal number 03734, IDF Israel, fax: ++972-4-869-28-84 - Commander of Military Prison No. 4, Military Prison No. 4, Military postal number 02507, IDF Israel. Indirizzi delle maggiori autorita' di Israele: Military Attorney General, Military postal number 9605, IDF Israel, fax: ++972-3-569-43-70 Lt. Gen. Shaul Mofaz, IDF Chief of Staff Ha-Qirya, Tel-Aviv, Israel, fax: ++972-3-569-55-94 Mr. Binyamin Ben-Eliezer, Minister of Defence, Ministry of Defence, 37 Kaplan st., Tel-Aviv 61909, Israel, e-mail: sar at mod.gov.il, fax: ++972-3-696-27-57 / ++972-3-691-69-40 / ++972-3-691-79-15 Mr. Ariel Sharon, Prime Minister, Prime Ministers' Office, Qiriat David Ben-Gurion, Jerusalem, Israel, e-mail: webmaster at pmo.gov.il, fax: ++972-2-566-48-38 / ++972-2-651-26-31 Indirizzi dei media israeliani: Ma'ariv, 2 Karlibach st., Tel-Aviv 67132, Israel, fax: ++972-3-561-06-14, e-mail: editor at maariv.co.il Yedioth Aharonoth, 2 Moses st., Tel-Aviv, Israel, fax: ++972-3-608-25-46 Ha'aretz (edizione in lingua ebraica), 21 Schocken st., Tel-Aviv, 61001 Israel, fax: ++972-3-681-00-12 Ha'aretz (edizione in inglese), 21 Schocken st., Tel-Aviv, 61001 Israel, fax: ++972-3-512-11-56, e-mail: letters at haaretz.co.il Jerusalem Post, POB 81, Jerusalem 91000, Israel, fax: ++972-2-538-95-27, e-mail: news at jpost.co.il or letters at jpost.co.il Jerusalem Report, fax: ++972-2-537-94-89 Emittenti radiofoniche (numeri di fax): Kol-Israel ++972-2-531-33-15 and ++972-3-694-47-09 Galei Tzahal ++972-3-512-67-20 Reti televisive (numeri di fax): Channel 1 ++972-2-530-15-36 Channel 2 ++972-2-533-98-09. Chi desidera sostenere War Resisters' International nella difesa degli obiettori di coscienza puo' inviare una donazione: - con un assegno, in lire sterline, intestato alla War Resisters' International. Gli assegni devono essere girati ad una banca presente in Gran Bretagna. - attraverso giro conto a War Resisters' International, Girobank, Merseyside, Britain, GIR 0AA, c/c numero 585 20 4004, sort code 72-00-00 - con carta di credito (contattare gli uffici WRI per conoscere i dettagli). * 29 Novembre 2001: L'obiettore di coscienza Leonid Kressner condannato a 4 mesi di reclusione War Resisters' International ha appreso oggi che l'obiettore di coscienza Leonid Kressner e' stato condannato a 4 mesi di reclusione per essersi rifiutato di prestare servizio nell'esercito. Attualmente e' in cella di isolamento. Leonid Kressner ha dichiarato la sua obiezione di coscienza ben prima di essere richiamato. E' stato imprigionato il 15 ottobre scorso e condotto al carcere militare n. 6, dopo 69 giorni di assenza dal servizio militare. E' stato tenuto in prigione da allora, per la maggior parte del tempo in cella di isolamento, e per almento due volte gli e' stata rifiutata la possibilita' di incontrare i familiari. La sentenza comminata, di 4 mesi, e' eccezionalmente lunga. La durata della sentenza fa parte di un complessivo modello di discriminazione contro gli immigranti nel sistema giudiziario militare. Leonid Kressner e' ora in cella di isolamento nel Carcere Militare No 6 per il suo rifiuto di indossare l'uniforme militare all'interno della prigione. War Resisters' International e' stata informata dall'organizzazione israeliana New Profile che le sue condizioni psicologiche stanno peggiorando. La sua famiglia e' molto preoccupata per le sue condizioni, soprattutto con la prospettiva di passare ancora piu' di due mesi in isolamento. In questa situazione, War Resisters' International chiede urgentemente ad ognuno di scrivere cartoline o lettere di sostegno a Leonid Kressner, all'indirizzo: Leonid Kressner, Military ID 7156547, Military Prison No 6, Military postal number 03734, IDF Israel. E' possibile che le autorita' della prigione gli neghino la posta. Per assicurarsi che riceva le lettere, mandate una copia per posta elettronica, o posta aerea, a: New Profile, P.O. Box 48005, Tel Aviv 61480, Israel, email newprofile at speedy.co.il War Resisters' International chiede fortemente ad ognuno di inviare lettere o fax di protesta ai comandanti della Prigione Militare n. 6, al Procuratore Militare Generale, al Ministro israeliano della Difesa e alle ambasciate di Israele. Per favore, sottolineate i seguenti punti: chiedere la fine immediata della carcerazione in isolamento, protestare contro l'eccezionale durezza della sentenza, richiedere l'immediato ed incondizionato rilascio di Leonid Kressner dalla prigione. Gli indirizzi di rilievo sono: Commander of Military Prison No. 6, Military Prison No. 6, Military postal number 03734, IDF Israel, fax: ++972-4-869-28-84 Military Attorney General, Military postal number 9605, IDF, Israel, fax: ++972-3-569-43-70 Mr. Binyamin Ben-Eliezer, Minister of Defence, Ministry of Defence, 37 Kaplan st., Tel-Aviv 61909, Israel, fax: ++972-3-696-27-57 / ++972-3-691-69-40 / ++972-3-691-79-15 Indirizzi dei media di Israele: Ma'ariv, 2 Karlibach st., Tel-Aviv 67132, Israel, fax: ++972-3-561-06-14, e-mail: editor at maariv.co.il Yedioth Aharonoth, 2 Moses st., Tel-Aviv, Israel, fax: ++972-3-608-25-46 Ha'aretz (edizione in ebraico), 21 Schocken st., Tel-Aviv, 61001, Israel, fax: ++972-3-681-00-12 Ha'aretz (edizione in inglese), 21 Schocken st., Tel-Aviv, 61001, Israel, fax: ++972-3-512-11-56, e-mail: letters at haaretz.co.il Jerusalem Post, POB 81, Jerusalem 91000, Israel, fax: ++972-2-538-95-27, e-mail: news at jpost.co.il or letters at jpost.co.il Jerusalem Report, fax: ++972-2-537-94-89 Radio (numeri di fax): ol-Israel ++972-2-531-33-15 and ++972-3-694-47-09 Galei Tzahal ++972-3-512-67-20 Televisioni (numeri di fax): Channel 1 ++972-2-530-15-36 Channel 2 ++972-2-533-98-09. A cura della War Resisters' International, Conscientious Objection and Conscription Documentation Centre, 5 Caledonian Road, London N1 9DY, Britain, tel.: +44 20 7278 4040, fax: +44 20 7278 0444, e-mail: concodoc at wri-irg.org * http://wri-irg.org 4. MATERIALI. UMBERTO SANTINO: FINANZA E CRIMINE [Il seguente testo di Umberto Santino abbiamo estratto da un suo piu' ampio scritto dal titolo "I crimini della globalizzazione. Voci per un glossario", disponibile integralmente nel sito del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato". Umberto Santino, fondatore e presidente del Centro, e' il piu' grande studioso del fenomeno mafioso e fondamentale figura di riferimento del movimento antimafia. Per contatti: Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato", via Villa Sperlinga 15, 90144 Palermo, e-mail: csdgi at tin.it, sito: www.centroimpastato.it] Secondo un'opinione diffusa il sistema bancario e finanziario e' particolarmente esposto alle attivita' illecite. Lo era gia' prima e lo e' ancora di piu' adesso. Andando indietro nel tempo, gia' nel 1893 l'uccisione di Emanuele Notarbartolo, direttore generale del Banco di Sicilia dal 1876 al 1890, mirava a coprire attivita' speculative svolte da gruppi politico-affaristico-mafiosi che avevano il controllo della piu' importante struttura finanziaria siciliana e i processi conclusi con l'assoluzione degli imputati del delitto, tra cui il deputato liberale Raffaele Palizzolo, evidenziarono i rapporti tra mafia e politica e il ruolo di uomini delle istituzioni nel depistare le indagini e nel coprire i responsabili. Tra gli esempi piu' recenti, possiamo ricordare l'attivita' di personaggi come Calvi e Sindona. Roberto Calvi, direttore del Banco Ambrosiano, per anni ha utilizzato per le sue speculazioni una serie di rifugi fiscali (tax heavens) dislocati in varie parti del mondo, dal Lussemburgo a Panama, da Managua a Nassau. In molte attivita' era coinvolta la Banca Vaticana, allora diretta da monsignor Marcinkus. Il crack del Banco Ambrosiano e la morte del banchiere, trovato impiccato sotto un ponte londinese, dopo una fuga orchestrata da mafiosi e da faccendieri senza scrupolo, non hanno certo posto fine alle relazioni tra mondo finanziario e crimine. Un epilogo drammatico ha avuto anche la vicenda di Michele Sindona, morto per ingestione di sostanze tossiche nel carcere di Voghera (verosimilmente piu' un delitto che un suicidio), dov'era rinchiuso in seguito alla condanna all'ergastolo per l'assassinio di Giorgio Ambrosoli, l'avvocato milanese nominato liquidatore della Banca privata italiana, una delle tante impalcature del sistema finanziario sindoniano. Una macchina complessa, formata da un gruppo di imprese operanti in vari settori, da una costellazione di societa' finanziarie ubicate in vari paradisi fiscali (Svizzera, Lussemburgo, Liechtenstein, Liberia, Panama, Bahamas, isole Cayman ecc.), da alcune banche, di cui due a Milano e un'altra, la Franklin National Bank, negli Stati Uniti. Molte delle attivita' di Sindona erano dirette al riciclaggio del capitale illegale attraverso operazioni che utilizzavano i canali delle innovazioni finanziarie, escogitate per sfuggire ai controlli e alle regole. Sindona per anni ha goduto di un indiscusso credito internazionale, ha intrattenuto ottimi rapporti con uomini politici a livello nazionale e internazionale, ha fatto buoni affari con la banca del Vaticano, e' stato considerato "il salvatore della lira", finche' le sue speculazioni hanno pestato i piedi ai colossi della finanza mondiale e sono venuti a galla i suoi rapporti con la mafia e con la massoneria, in particolare con la loggia segreta P2, diretta da Licio Gelli, uno dei centri di potere piu' inquinanti nella storia della Repubblica italiana. Andando ai nostri giorni, tra le attivita' illecite connesse con il mondo finanziario si richiama in particolare il riciclaggio del capitale illegale proveniente da varie fonti: i traffici di droghe, di armi, di materiali nucleari, l'evasione fiscale, la corruzione, le frodi, l'appropriazione di fondi pubblici. * Le innovazioni finanziarie Le innovazioni finanziarie, gia' sperimentate da Sindona, nel frattempo si sono potenziate. Agli strumenti utilizzati in passato (fondi comuni d'investimento, titoli atipici, societa' fiduciarie ecc.) si sono aggiunti nuovi strumenti: swaps (accordi con cui le parti si impegnano a scambiarsi flussi di pagamento in un determinato periodo di tempo), futures (contratti a termine con cui le parti si impegnano a vendere o ad acquistare beni, titoli o valute a una data prefissata), derivati (contratto o titoli il cui valore e' legato al valore di altri titoli o merci), opzioni (diritti di comprare o vendere qualcosa a un prezzo determinato, o di dare inizio o porre fine ad un accordo finanziario a data determinata), hedge funds (un tipo di fondo comune d'investimento che opera in maniera spregiudicata con capitali di investitori privati). Il mercato dei derivati ha avuto un incremento spettacolare: si calcola che il valore complessivo dei contratti relativi a derivati in circolazione in ventisei paesi nel 1995 equivaleva al doppio della produzione economica mondiale, cioe' a circa 47,5 trilioni di dollari. Il sistema bancario-finanziario e' diventato un vero e proprio casino', per cui si e' parlato di "finanza barbara" o di "denaro impazzito" ed e' sempre piu' complesso, per la presenza di nuovi operatori specializzati: gli intermediari finanziari (brokers), gli operatori valutari, professionisti delle speculazioni piu' ardite e piu' rovinose per le economie piu' deboli (va sotto il nome di ramping la speculazione che consiste nel concentrare somme rilevanti in mercati di valute poco trattate, manovrandone l'ascesa o il crollo a seconda delle convenienze). Per quanto riguarda i paradisi fiscali, i paesi e i territori che offrono particolari facilitazioni per attirare i capitali, sarebbero tra 60 e 90. Una lista nera pubblicata dall'Ocse (Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico) nel giugno 2001 comprende 35 paesi. Da un recente studio del "Financial Times" limitato a 37 Stati risulta che la loro attivita' negli ultimi anni e' cresciuta. Nel 1997 nelle Isole Vergini britanniche sono state costituite 50 mila nuove societa' (nelle isole operano piu' di 260 mila societa'), nelle isole Cayman ne sono state costituite piu' di 42 mila, a Cipro piu' di 34 mila. I depositi in denaro hanno raggiunto 241 miliardi di dollari nelle Bahamas e oltre 500 miliardi di dollari nelle isole Cayman, con un incremento del 27,4% nelle Isole Vergini britanniche. Anche se ubicati in isole offshore i paradisi fiscali si raggruppano nelle vicinanze dell'Europa e degli Stati Uniti, cioe' delle grandi centrali finanziarie e obbediscono alle esigenze di frazioni crescenti del capitale di sfuggire ai controlli e cercare sbocchi speculativi piu' remunerativi degli investimenti produttivi. Cio' si spiega all'interno dei processi di finanziarizzazione dell'economia mondiale. Nel 1998 c'e' stato un movimento giornaliero di capitali di 2.000 miliardi di dollari, di cui una frazione minima (tra un cinquantesimo e un centesimo della cifra totale) riguarda l'economia reale, produttrice di beni e servizi, tutto il resto e' capitale finanziario in circuitazione permanente alla ricerca di sbocchi speculativi. Negli ultimi trent'anni gli scambi finanziari hanno fatto registrare aumenti vertiginosi: nel 1970 erano tra 10 e 20 miliardi di dollari, nel 1980 sono passati a 80 miliardi, nel 1990 hanno raggiunto 500 miliardi. Non tutto il capitale finanziario e' di provenienza illegale ma, data l'opacita' del sistema finanziario, e' difficile se non impossibile distinguere i vari flussi di capitale. Nonostante le norme antiriciclaggio, introdotte dalla legislazione di alcuni Paesi, dalle direttive europee e richiamate dalla Convenzione sul crimine transnazionale, il sistema finanziario ha come regole fondamentali l'efficienza, la sicurezza e la riservatezza, e la competizione si gioca nell'intreccio di questi tre termini, il che significa che il segreto bancario continua ad essere in vigore e lo sviluppo della new economy via rete telematica invece di rendere il mercato piu' trasparente incoraggia l'anonimato delle transazioni, con le convenienze prevedibili per gli operatori illegali. La proposta del premio Nobel per l'economia Tobin di introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie, avanzata nel 1972, finora non e' stata introdotta per la refrattarieta' del capitale finanziario a qualsiasi forma di controllo. In Italia la legislazione antiriciclaggio e' stata introdotta con la legge 197 del 1991 ma le segnalazioni di transazioni anomale sono molto poche. Nel periodo 1991-1996 a fronte di 2 miliardi e 100 milioni di transazioni bancarie, le banche hanno segnalato 7134 operazioni anomale, di cui solo 13 hanno portato ad identificare operazioni di riciclaggio. Insieme alla innovazione tecnologica dell'informazione (Internet) e alla globalizzazione dei mercati finanziari senza un'armonizzazione degli ordinamenti, per cui proliferano i paradisi fiscali, e' stato indicato come terzo cavallo di Troia, nel senso che offre maggiori opportunita' per il riciclaggio del denaro sporco, l'integrazione monetaria europea (con l'introduzione dell'euro). L'unione economica e monetaria europea puo' innescare un meccanismo di riduzione dei costi di transazione, e questo vale sia per l'economia legale che per quella illegale. * Lista dei paradisi fiscali dell'Ocse Europa e Africa: Liberia, Seychelles. Asia e Oceania: Barhain, Isole Cook, Isole Marshall, Maldive, Nauru, Nive, Samoa, Tonga, Vanuato. America: Anguilla, Antigua e Barbuda, Antille Olandesi, Aruba, Bahamas, Barbados, Belize, Grenada, Isole Vergini (Gb), Isole Vergini (Usa), Montserrat, Panama, Repubblica Dominicana, St. Christopher and Nevis, St. Luca, St. Vincent and the Grenadines, Turks and Caicos. * Bibliografia Santino Umberto, La mafia finanziaria, in Idem, La borghesia mafiosa, Centro Impastato, Palermo 1994, pp. 179-241. Masciandaro Donato - Pansa Alessando, La farina del diavolo. Criminalita', imprese e banche in Italia, Baldini & Castoldi, Milano 2000. Strange Susan, Denaro impazzito. I mercati finanziari: presente e futuro, Edizioni di Comunita', Torino 1999. 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ; per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben at libero.it ; angelaebeppe at libero.it ; mir at peacelink.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 323 del 26 dicembre 2001
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