La nonviolenza e' in cammino. 300



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 300 del 26 novembre 2001

Sommario di questo numero:
1. Peppe Sini, dopo un certo tempo
2. Associazione nazionale amici di Aldo Capitini: il 14 dicembre aderiamo al
digiuno
3. Amelia Alberti, i principali motivi della guerra
4. Per Paolo Borsellino (con alcuni testi di Paolo Borsellino, Liliana
Ferraro, Nando dalla Chiesa, Riccardo Orioles)
5. Benito D'Ippoito, una meditazione del giorno dopo
6. Due scritti di Rossana Rossanda
7. Aung San Suu Kyi, fra il dialogo e la devastazione estrema
8. Hildegard Goss Mayr, un proverbio
9. Giuliana Martirani, le vere cattedrali
10. Franca Ongaro Basaglia, le regole della convivenza civile
11. Letture: Luigi Bonanate, La guerra
12. Letture: Francesco Capriglione, Etica della finanza e finanza etica
13. Letture: Andrea Cecconi (a cura di), Ernesto Balducci. Cinquant'anni di
attivita'
14. Riletture: Giorgio Colli, La ragione errabonda
15. Riletture: Sergio Piro, Le tecniche della liberazione
16. Riletture: Franco Venturi, La lotta per la liberta'
17. Iniziative di pace di oggi
18. La "Carta" del Movimento Nonviolento
19. Per saperne di piu'

1. IL PUNTO. PEPPE SINI: DOPO UN CERTO TEMPO
Dopo un certo tempo ci si abitua a tutto, anche alle stragi, anche alle
guerre che di stragi consistono sempre, soprattutto quando esse, almeno
apparentemente, non ci minacciano direttamente e massime se accadono lontano
dai nostri intorpiditi e narcotizzati sensi.
Quando i crimini si moltiplicano, deve averlo scritto Brecht se ben ricordo,
diventano invisibili.
Ma tu non abituarti all'ordine dei mangiatori di carne umana, ma tu continua
ad opporti alla guerra, al terrorismo, alla violenza.
Anche perche' tu sai che unica e' l'umanita'; ed ogni volta che un essere
umano e' privato della vita e' una perdita immane ed irreparabile, e' un
bene prezioso ed insostituibile estinto per sempre, e' l'umanita' intera che
viene sbranata.
E dunque amici coraggio. Approfondiamo ed intensifichiamo il nostro impegno
nonviolento affinche' l'orrore cessi, e possa venire la pace e la giustizia.
Noi dobbiamo fermare la guerra.

2. INIZIATIVE. ASSOCIAZIONE NAZIONALE AMICI DI ALDO CAPITINI: IL 14 DICEMBRE
ADERIAMO AL DIGIUNO
[Dall'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini (capitini at tiscalinet.it)
riceviamo e diffondiamo]
L'Associazione Nazionale Amici di Aldo Capitini, libero religioso, promotore
della nonviolenza, difensore della pace, vegetariano, invita gli amici della
nonviolenza ad aderire all'invito del Pontefice Giovanni Paolo II di
osservare nel prossimo 14 dicembre 2001 una giornata di digiuno dedicata
alla difesa e alla promozione della pace tra le donne e gli uomini del
mondo.
Il digiuno e' una delle tecniche della nonviolenza che Capitini suggeriva
all'umanita' di adoperare per chiudere l'era violenta della storia dei
popoli e aprire l'era della compresenza nonviolenta tra le persone di ogni
idea e ogni religione.

3. RIFLESSIONE. AMELIA ALBERTI: I PRINCIPALI MOTIVI DELLA GUERRA
[Amelia Alberti e' presidente del circolo verbano di Legambiente. Per
contatti: lambient at tiscalinet.it]
Un articolo di Marco D'Eramo apparso sul quotidiano "Il manifesto" del 24
novembre ci aiuta assai bene a cogliere alcuni dei reali motivi della guerra
contro l'Afghanistan. Questione fondamentale, a mio avviso, perche' anche le
guerre e la violenza possono essere oggetto di analisi e di giudizi
diversificati. Una guerra di difesa, un attacco anticipato rispetto alle
mosse certe e sterminatrici del nemico, sono certamente piu' comprensibili
rispetto ad un'aggressione dettata da voglia di predominio e di rapina.
Riporto, quindi, dal "Manifesto": "Il risultato strategico piu' inatteso
dell'attacco terroristico dell'11 settembre sara' quello di aver impiantato
le forze armate americane in una delle poche regioni al mondo da cui erano
finora precluse: l'Asia centrale, a ridosso del confine meridionale russo e
di quello occidentale cinese. (...) Gli Stati Uniti stanno mettendo su'
almeno una grande base militare in Afghanistan, magari non delle dimensioni
di quella a Okinawa in Giappone, ma certo paragonabile a quelle di stanza in
Italia. Al di la' della vittoria militare contro i taleban, gli Usa si
preparano a un'occupazione di lunga durata dell'Afghanistan (...) Una
stabile presenza militare in Afghanistan ha numerosi vantaggi per gli Stati
Uniti: un controllo ravvicinato sulle due altre grandi potenze mondiali
(Russia e Cina), la vigilanza sul flusso di petrolio che prendera' a
scorrere dall'Asia centrale, infine una sorveglianza stretta dell'arsenale
nucleare pakistano (e anche di quello indiano) che gli Stati Uniti temono
possa finire in mani infide. (...) Uno dei piu' paradossali effetti della
sconfitta dei taleban e' che i contadini afghani hanno ripreso a piantare
papaveri come pazzi: da 16 mesi i taleban avevano vietato la produzione di
oppio. E lo fanno sotto gli occhi benevoli delle truppe d'assalto Usa e dei
reporter del "Los Angeles Times", che ieri ha pubblicato la storia in prima
pagina. Proprio questo divieto aveva fatto crollare il consenso verso i
taleban, visto che la coltivazione dei papaveri da oppio costituisce l'85%
delle entrate della regione di Jalalabad. Ora, anzi, i contadini si
affrettano a seminare e a fertilizzare, l'inverno e' alle porte".
Tutti i tasselli combaciano: la cattura di Bin Laden non e' mai stato il
primo (e forse neanche l'ultimo) scopo di questa guerra. Il petrolio, il
mercato dell'eroina, il controllo militarizzato del mondo: questi, i
principali motivi che hanno spinto in Afghanistan gli occidentali? E noi
italiani, siamo stati i servi sciocchi, oppure sapevamo, fingevamo, e
intanto porgevamo il piatto in attesa della nostra porzione di rancio?

4. ESEMPI. PER PAOLO BORSELLINO (CON ALCUNI TESTI DI PAOLO BORSELLINO,
LILIANA FERRARO, NANDO DALLA CHIESA, RICCARDO ORIOLES)
[Riproponiamo questo testo gia' diffusa nell'estate dello scorso anno]
C'è una frase indimenticabile di Paolo Borsellino, la sua replica grande e
nitida alla polemica sui "professionisti dell'antimafia": "Non ho mai
chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono
rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno".
La gente mi moriva attorno: un problema morale. E' detto con una semplicità
ed una precisione assolute.
Ripubblichiamo qui di seguito alcuni brevi brani di un discorso e di una
lettera di Paolo Borsellino, e tre ricordi di lui scritti da Liliana
Ferraro, da Nando dalla Chiesa e da Riccardo Orioles (molte altre cose sono
state scritte, e più estese e forse più eloquenti, ma queste sono di quelle
che ci hanno particolarmente commosso).
Ricordo il giorno della morte di Paolo Borsellino e come seppi la notizia:
stavo ancora una volta traslocando, e vivendo senza televisione in serata
chiamai ad un numero di telefono, che non ricordo più quale sia e non so se
vi sia ancora, dal quale la Sip diffondeva un secco notiziario: ed in
solitudine, in una stanza ormai vuota di una casa che stavo abbandonando per
sempre, sentii dalla smorta e meccanica vocina registrata che anche
Borsellino, ed i ragazzi che erano con lui, erano stati assassinati. Muggii
di dolore.
Credo questo sentire sia stato allora il sentire di tanti in tutta Italia:
dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992 in cui persero la vita Giovanni
Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinari, Rocco Di Ciillo e Vito
Schifani, in tutta Italia vi era stato un sentimento di sbigottimento e di
lutto profondi, e un bisogno dirompente di reagire (ripenso con tenerezza
alle tante iniziative anche piccole e minime che ovunque furono realizzate
in quei giorni).
Quando il 19 luglio avvenne la strage in via D'Amelio e morirono Paolo
Borsellino, Emanuela Loi, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e
Agostino Catalano, credo che tutti sentimmo una ferita nelle carni.
La spina, il pungolo, lo sperone nelle carni (è l'enigmatica espressione di
Kierkegaard): se tutti ci riconoscemmo allora nella figura di Antonino
Caponetto non fu solo per il suo volto e contegno ieratico e straziato, e la
sua personale vicenda e figura magnanima e dolente, di antico padre di eroi
greci, di antico padre biblico di eroi; ma perché seppe due volte dire
quello che tutti sentivamo: lo smarrimento profondo e indicibile quasi, e
poi la volontà di riscatto, di proseguire la lotta, di non permettere che
Falcone e Borsellino fossero assassinati una seconda volta dalla resa, dal
tradimento, dall'oblio.
Paolo Borsellino ed Emanuele Basile; Paolo Borsellino e Rocco Chinnici;
Paolo Borsellino con Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Giuseppe Di
Lello, Leonardo Guarnotta: il pool; Paolo Borsellino con Giovanni Falcone
all'Asinara; Paolo Borsellino bollato come "professionista dell'antimafia";
Paolo Borsellino che denuncia lo smantellamento del pool e la resa dello
Stato; Paolo Borsellino e Rita Atria; Paolo Borsellino che nella biblioteca
comunale di Palermo scandisce il suo testamento spirituale e tutti sentono
che è il commiato di un morituro; Paolo Borsellino schernito da un traditore
per la "procura col mare"; Paolo Borsellino che sa che l'esplosivo per
ucciderlo è arrivato...
Paolo Borsellino che sa che non c'è più tempo. Poi lo schianto. Poi l'
insurrezione di Palermo ai funerali delle vittime. Poi le parole delicate
come petali e penetranti come raggi di luce di Caponnetto. Poi ancora anni
ed anni di lotte e sofferenze, di orrori e di resistenza. Poi tu, che leggi
queste righe, e che ti chiedi come serbare la fedeltà e portare avanti la
lotta di Paolo Borsellino.
*
Una notizia biobibliografica
Magistrato, membro del pool antimafia di Palermo che istruì il maxiprocesso
a Cosa Nostra, fu assassinato dalla mafia nel 1992. Era un uomo giusto e
coraggioso. Si può ripetere per lui quanto scrisse di sé Paolo nella seconda
lettera a Timoteo, 4, 7: "Ho combattuto la buona battaglia, sono arrivato
fino al termine della mia corsa, ho serbato la fede".
E' stato tra gli autori dell'atto d'accusa alla base del grande processo
noto come "maxiprocesso" alla mafia, una sintesi di quella decisiva
ordinanza-sentenza del pool antimafia di Palermo è stata pubblicata a cura
di Corrado Stajano con il titolo Mafia: l'atto d'accusa dei giudici di
Palermo, Editori Riuniti, Roma 1986.  Alcuni suoi testi in: AA. VV., Sulla
pelle dello stato, La Zisa, Palermo 1991; sua la bella prefazione a Rocco
Chinnici, L'illegalità protetta, La Zisa, Palermo 1990. Cfr. anche la
raccolta di alcuni interventi pubblici di Falcone e Borsellino, Magistrati
in Sicilia, Ila Palma, Palermo 1992.
Tra le opere su Paolo Borsellino fondamentale è Umberto Lucentini, Paolo
Borsellino. Il valore di una vita, Mondadori, Milano 1994; cfr. anche
Giommaria Monti, Falcone e Borsellino, Editori Riuniti, Roma 1996. Materiali
utili in alcuni libri di giornalisti che riportano anche interviste e
colloqui avuti con Borsellino: innanzitutto Saverio Lodato, Venti anni di
mafia, Rizzoli, Milano 2000; Luca Rossi, I disarmati, Mondadori, Milano
1992; cfr. anche Giorgio Bocca, L'inferno, Mondadori, Milano 1992; ed anche
Alexander Stille, Nella terra degli infedeli, Mondadori, Milano 1995.
Naturalmente si vedano anche le opere di e su Giovanni Falcone, di Antonino
Caponnetto, di Giuseppe Di Lello. Segnaliamo anche un tratto commovente alla
pagina 292 di Umberto Santino, Storia del movimento antimafia, Editori
Riuniti, Roma 2000. Ricordiamo che le parole di Caponnetto ai funerali di
Borsellino sono state riedite per nostra cura da ultimo nel testo diffuso
nella rete telematica dal titolo "Documenti per una cultura antimafia:
Antonino Caponnetto, Una preghiera laica ma fervente".
*
Paolo Borsellino: da un ricordo di Giovanni Falcone
Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la
mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo
uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini
della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati
partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni
Falcone, l'estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi compagni
di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che
egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda
situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a
rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita
è stata un atto d'amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha
generato. Perché se l'amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e
per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura,
amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa
terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze
morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la
patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo.
E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro
dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare sulla stessa lunghezza d'
onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema da risolvere
nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una
distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche
religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza
del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale,
dell'indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la
felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo, conseguente
ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi
disse: "La gente fa il tifo per noi". E con ciò non intendeva riferirsi
soltanto al conforto che l'appoggio morale della popolazione dà al lavoro
del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro,
stava anche sommovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione
della convivenza con la mafia, che costituiscono la sua vera forza. (...)
[Questo brano è estratto dal discorso tenuto da Paolo Borsellino il 23
giugno 1992, ad un mese dalla strage di Capaci, alla cerimonia promossa dai
boy-scout della parrocchia di Sant'Ernesto a Palermo; il testo integrale è
nel libro di Umberto Lucentini, Paolo Borsellino. Il valore di una vita,
Mondadori, Milano 1994, alle pp. 256-258].
*
Paolo Borsellino: da una lettera ad una insegnante
(...) 1. Sono diventato giudice perché nutrivo grandissima passione per il
diritto civile ed entrai in magistratura con l'idea di diventare un
civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di
inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera
per me più percorribile per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica,
non appagabile con la carriera universitaria, per la quale occorrevano tempo
e santi in paradiso. Fui fortunato e diventai magistrato nove mesi dopo la
laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui
dedicavo il meglio di me stesso. E' vero che nel 1975, per rientrare a
Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all'ufficio
istruzione processi penali, ma alternai l'applicazione, anche se saltuaria,
a una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche
dei diritti reali, delle distanze legali, delle divisioni ereditarie. Il 4
maggio 1980 uccisero il capitano Emanuele Basile e il consigliere Chinnici
volle che mi occupassi io dell'istruttoria del relativo procedimento. Nel
mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anch'egli dal civile,
il mio amico d'infanzia Giovanni Falcone, e sin da allora capii che il mio
lavoro doveva essere un altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia e a
questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali
avevo preso a occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi
dovevo esclusivamente occuparmi. Non ho più lasciato questo lavoro e da quel
giorno mi occupo pressoché esclusivamente della criminalità mafiosa. E sono
ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e non, hanno
oggi attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni
sino ai quarant'anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza
di reagire di quanta io e la mia generazione ne abbiamo avuta.
(...) 3. La mafia (Cosa Nostra) è un'organizzazione criminale, unitaria e
verticisticamente strutturata, che si distingue da ogni altra per la sua
caratteristica di «territorialità». Essa è divisa in famiglie, collegate tra
loro per la dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono a
esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, o deve
esercitare, legittimamente, lo Stato. Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad
appropriarsi di tutte le ricchezze che si producono o affluiscono sul
territorio, principalmente con l'imposizione di tangenti (paragonabili alle
esazioni fiscali dello Stato) e con l'accaparramento degli appalti pubblici,
fornendo al contempo una serie di servizi apparenti rassemblabili a quelli
di giustizia, ordine pubblico, lavoro, che dovrebbero essere gestiti
esclusivamente dallo Stato. E' naturalmente una fornitura apparente perché a
somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta
dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela
dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è
fornita attraverso l'imposizione di altra e più grave forma di criminalità.
Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni (pochi) togliendolo ad altri
(molti). La produzione e il commercio della droga, che pure hanno fornito
Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo
sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione. Il conflitto
irreversibile con lo Stato, cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza
(hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto
condizionando lo Stato dall'interno, cioè con infiltrazioni negli organi
pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga
indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli
di tutta la comunità sociale. Alle altre organizzazioni criminali di tipo
mafioso (camorra, 'ndrangheta, sacra corona unita) difetta la caratteristica
della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono
con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra, ma
non ne hanno l'organizzazione verticistica e unitaria. Usufruiscono inoltre
in forma minore del «consenso» di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi
come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di
questo viene a confondersi. (...)
[Il testo precedente consiste di due estratti da una lettera che la mattina
del 19 luglio 1992 Borsellino aveva iniziato a scrivere in risposta ad una
professoressa di Padova che tre mesi prima lo aveva invitato ad un incontro
con gli studenti di un liceo. Abbiamo ripreso il testo dalle pp. 289-291 del
bel libro di Umberto Lucentini citato].
*
Liliana Ferraro: un ricordo di Falcone e Borsellino
(...) Ho conosciuto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1983 e ho subito
cominciato a lavorare per loro e con loro. Nel 1984 (pentimento di Tommaso
Buscetta) abbiamo sognato la vittoria. Nel 1985 abbiamo pianto gli amici
Cassarà e Montana ma non ci siamo fermati: Falcone, Borsellino e gli altri
facevano indagini e scrivevano l'ordinanza, io procuravo i mezzi materiali e
facevo costruire l'aula-bunker.
Ma arrivò quel terribile 1989. Io dicevo: "Molliamo tutto". Giovanni e Paolo
ripetevano: "Mai". Nonostante che, al Consiglio superiore della
magistratura, gli avessero fatto fare 14 ore di anticamera, digiuni, senza
telefono, erano stati «sistemati» in una stanzetta senz'aria, umiliati come
giudici e come persone.
"Mai", rispose Paolo anche alla dolce Agnese che, in una sera della fine di
giugno del 1992, in una saletta dell'aeroporto di Roma, lo pregava di
«lasciare», preoccupata per la vita del suo uomo, del padre dei suoi figli.
"Mai", aveva già risposto, in un caldo pomeriggio di agosto del 1985, anche
Nino Caponnetto quando gli chiesi di lasciare Palermo, insieme a Giovanni e
Paolo, perché non vi era certezza di difendere la loro vita. "Mai - disse
Caponnetto -. Porta all'Asinara Giovanni, Paolo e le loro famiglie. Così
potranno continuare a scrivere l'ordinanza tranquilli e sicuri. Io resto
qui, perché non si dovrà mai dire che lo Stato fugge davanti al nemico.
Nessuno di noi può interrompere il proprio lavoro". (...)
[Abbiamo estratto questo brano dalla Postfazione di Liliana Ferraro al libro
di Giommaria Monti citato in bibliografia. Sul contributo di Liliana Ferraro
all'attività del pool antimafia di Palermo cfr. Francesco La Licata, Storia
di Giovanni Falcone, Rizzoli, Milano 1993; e Alexander Stille, citato nella
nota bibliografica].
*
Nando dalla Chiesa: un ricordo di Paolo Borsellino
(...) La profezia: certo, a quella di Sciascia egli ora ne contrapponeva
nella sua interiorità un'altra, quella della propria morte imminente.
Lasciò, volle lasciare una sorta di testamento pubblico. Fece capire di
avere qualche idea sull'assassinio del suo amico. Poi si alzò scusandosi;
disse che doveva tornare a lavorare e se ne andò.
Ma a quel punto successe una cosa straordinaria, uno spettacolo al quale si
può assistere, probabilmente, una sola volta nella vita. Mentre il
magistrato, non alto di statura, si alzava e scendeva dal piccolo palco, la
folla -circa ottocento, mille persone- si alzò in piedi. E si mise ad
applaudire. Forte, sempre più forte, con una commozione che attraversava
come una corrente elettrica tutti i corpi e forse anche le cose presenti.
Dieci,  quindici interminabili minuti di applausi. Quasi che a lui vivo
volesse riservare gli applausi riservati al suo amico, per incoraggiarlo ad
andare avanti. Ma più crescevano gli applausi, più tra i brividi che
graffiavano l'intestino dirompeva la realtà vera. La gente aveva capito
quello che il giudice superstite sentiva come sua intima certezza. E
sapendolo misurato e coraggioso, non  aveva pensato che si fosse fatto
cogliere dal panico o dallo scoramento. Se lui, con il suo testamento
morale, aveva fatto capire che cosa si attendeva, non c'era dubbio che ciò
sarebbe accaduto.
Il pubblico di Palermo aveva voluto salutare per l'ultima volta il suo
giudice. Aveva voluto ringraziarlo da vivo. Non aveva potuto ringraziare il
suo amico, che tanti in città avevano scoperto di amare troppo tardi.
Bruciava il rimpianto di quei silenzi, e degli applausi indirizzati a chi
ormai non poteva più sentire. Ma ora lui, mentre tornava al lavoro alle
undici di sera, doveva sentire gli applausi della città. Che per questo non
finivano mai. (...)
[Questo testo di Nando dalla Chiesa è estratto dal ritratto di Paolo
Borsellino alle pagine 164-168 del suo recente libro Storie eretiche di
cittadini perbene, Einaudi, Torino 1999. L'incontro cui si fa riferimento è
quello del 25 giugno 1992 alla biblioteca comunale di Palermo, cui
Borsellino intervenne parlando a braccio; la trascrizione dell'intervento di
Borsellino può essere ora letta sia nel volume di Lucentini che in quello di
Monti citati nella nota bibliografica].
*
Riccardo Orioles: un ricordo di Paolo Borsellino
L'ultima volta che ho visto Borsellino dev'essere stato a Roma, a una
conferenza in un liceo. Borsellino è quello che appena ti vede ti saluta,
senza accorgersene, con un accento palermitano strettissimo; perché siamo
fuori dalla Sicilia, e siamo siciliani. C'è una scritta in fondo all'aula,
coi nomi di due ragazzi che "per sempre insieme": uno dei due nomi -guarda
un po'- è Riccardo e l'altro, per una meravigliosa coincidenza, è quello
della mia compagna di allora. Tu gl'indichi con un cenno ironico i due nomi
e lui, senza capire bene, istintivamente sorride. Gli uomini -i militanti-
della scorta, un paio di giornalisti autorevoli, e i liceali; e lui che
comincia a parlare, serenamente. E il fresco attento dell'aula e, fuori
nella piazza romana, una gilornata di sole.
[Questo testo di Riccardo Orioles è estratto dalla sua e-zine Tanto per
abbaiare, 24 luglio 2000, n. 32; la e-zine di Orioles si può leggere nel
sito telematico pacifista Peacelink: www.peacelink.it; l'autore - il miglior
giornalista italiano vivente - può essere contattato all'indirizzo di posta
elettronica: ricc at libero.it].

5. RIFLESSIONE. BENITO D'IPPOLITO: UNA MEDITAZIONE DEL GIORNO DOPO
[Scritta il giorno dopo la marcia Perugia-Assisi per la nonviolenza che si
tenne il 24 settembre 2000]

Udii una voce che mi comandava:
che nessun uomo resti solo.

Lunga e fredda è la notte, nessuno
sia abbandonato al freddo e all'orco.

Lungo è il cammino e poche le provviste:
nessuno osi rubare la borraccia.

Chi abbandonerà il ferito verrà abbandonato,
chi irriderà lo zoppo sarà umiliato,
chi oserà colpire uno dei piccoli
sciagura a lui, mai sarà perdonato.

L'ombra, la fonte, i frutti del mondo
sono di tutti. Sappia l'ingordo
che ciò che lui di troppo
ha preso, a qualcun altro mancherà.

Udii una voce che mi domandava:
tu cosa hai fatto dinanzi al dolore?

6. MAESTRE. DUE SCRITTI DI ROSSANA ROSSANDA
[Ridiffondiamo ancora una volta, con le poche parole di presentazione che vi
premettemmo lo scorso anno, i seguenti due testi di Rossana Rossanda. Il
primo testo, su Hiroshima, e' estratto da Note a margine, Bollati
Boringhieri, Torino 1996, alle pp. 187-191, articolo originariamente apparso
sul quotidiano "Il Manifesto" dell'11 agosto 1995; il secondo testo è l'
editoriale della prima pagina del quotidiano "Il Manifesto" del 3 agosto
2000.
"Da quando con le luci di settembre del 1939 venne la guerra, il tempo si
mise a rotolare e non si è più fermato. (...) E quando il fascismo esplose
nella guerra dentro la guerra (...) non bastò capire, occorreva intervenire.
Per chi si fece adulto in quegli anni l'identità non sarà mai un percorso
privato e nel privato, come non è un fatto privato portar salva la vita da
un veliero nella tempesta". Così scrive Rossana Rossanda ad un punto delle
stupende pagine autobiografiche, autoanalitiche, che introducono il libro di
conversazioni a più voci Le altre, Bompiani, Milano 1979 (il passo citato
alle pp. 10-11). Se Rossana Rossanda per molti di noi è "la Rossanda", e sui
più gravi argomenti ci è abituale chiederci "che ne dice la Rossanda?", e
delle sue parole teniamo gran conto anche quando ci capita di non esser d'
accordo con lei (e su qualche materia ed in alcune circostanze ci è
capitato, e con un rammarico vivo e profondo, come di un nostro interiore
conflitto), è perché la Rossanda non solo è la grande intellettuale che
tutti sanno, non solo è la militante di un rigore intrepido e di esperienze
vaste e ineguagliabili, ma è anche una delle voci più nitide e ferme, una
delle coscienze più vigili e chiare in tempi tanto turbinosi e bui.
Nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista e
resistente, dirigente del Partito Comunista Italiano (fino alla radiazione
nel 1969 per aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di
sinistra e di solidarietà con l'opposizione di sinistra repressa e
perseguitata nei paesi del "socialismo reale"), in rapporto con le figure
più vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista
prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei
movimenti, interviene costantemente sugli eventi di più drammatica attualità
e sui temi politici, culturali, morali più urgenti. E' tra i grandi
protagonisti della cultura internazionale. Opere di Rossana Rossanda: L'anno
degli studenti, De Donato, Bari 1968; Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un
viaggio inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani,
Milano 1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986,
Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine
secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve.
Morte, resurrezione, immortalità, Pratiche, Parma 1996; Note a margine,
Bollati Boringhieri, Torino 1996. Ma la maggior parte del lavoro
intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della riflessione e
proposta culturale e politica di Rossana Rossanda è tuttora dispersa in
articoli e saggi pubblicati in giornali e riviste. Indirizzi utili:
redazione de "Il manifesto", via Tomacelli 146, 00186 Roma]

* Hiroshima
Nei molti bilanci sulle idee del secolo non trovo come crinale lo
sganciamento delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Non in George Steiner,
non in François Furet, non nei molti necrologi del comunismo. Neppure in Il
secolo breve di Hobsbawm, che pure le ricorda. Non è una rimozione?
Ricordo l'8 agosto 1945, quella per me è la data. La notizia arrivò forse il
7, ma dilagò quel giorno. Era un segno di vittoria; eppure ci fu una
sospensione, un movimento di riduzione, un ritrarsi. Era una bomba speciale,
ma quanto speciale? Non lo sapemmo subito. Che significava esattamente: due
città rase al suolo, ma diversamente da Coventry o Dresda o Berlino? Neppure
gli americani sapevano la devastazione che avrebbero causato. Eppure dopo
quella guerra, in Italia raddoppiata dalla guerra civile, credevamo di aver
veduto tutto; avevamo una tale nausea di morte che ci sentivamo più
convalescenti, più suonati che felici. Contavamo i nostri morti, sapevamo
vagamente di quelli altrui. Di morte eravamo come avvelenati.
E poi perché quella bomba adesso? Per noi la guerra era finita il 25 aprile,
in Germania il 2 maggio con la bandiera rossa che sventolava sul Reichstag;
le date ufficiali non sono le stesse della memoria collettiva. L'Asse non
esisteva più, il Giappone era parte dell'Asse, dunque era finito, questione
di settimane. Ignoravamo di avergli testè dichiarato la guerra (io lo
apprendo ora, dalla Rai, che contemporaneamente mi informa che Tokyo è stata
l'ultima a "difendere l'onore dell'Asse") e se lo avessimo saputo ci avrebbe
fatto ridere. L'Italia era mezza morta, raccoglievamo i cocci, c'era tutto
da rimettere in piedi, le nostre esistenze incluse.
Così la bomba su Hiroshima ci lasciò senza fiato. Ne capimmo lentamente la
magnitudine, la catastrofe, non ne capimmo il senso, quel che capimmo a poco
a poco ci ammutolì. La guerra finiva, la distruzione no. Nei mesi successivi
quel fungo mostruoso continuò a implodere nei corpi, nei luoghi; la
radioattività entrò nel nostro lessico. E di più, quella non immaginata
distruzione era stata compiuta dalla nostra parte. Avevamo trovata oscena la
parola fascista "coventrizzare", non sapevamo ancora di Dresda. L'atomica
era impensata. Ma l'impensabile che si verifica diventa pensato per sempre,
possibile e riproducibile. La pace cominciava con una distruzione immane.
Era una pace ambigua. Poco dopo ci saremmo sentiti in guerra fredda, non
ricordo chi per primo la chiamò così. Ma in meno di due anni l'avevamo in
casa.
In quella stessa strana estate arrivarono le immagini dei campi di
sterminio. Credo che le prime venissero dalla quinta armata di Eisenhower:
anch'esse ci ammutolirono. Avevamo veduto tanti morti, conoscevamo i fronti
di guerra, avevamo alle spalle l'incalcolabile rotta dell'Armir nel gelo
delle pianure russe, avevamo veduto i corpi dei fucilati o impiccati dai
tedeschi, tenuti per strada per qualche giorno, le sentinelle di guardia
avanti e indietro, perché ne fossimo avvisati. Erano corpi come abbandonati,
dislocati in un sonno a occhi aperti, il volto fisso sul cielo o sul
selciato. Non avevamo conosciuto quella morte a pacchi, quella gigantesca
discarica di cadaveri scarniti, già senza più lineamenti.
La prima guerra mondiale era stata una macelleria e noi pensavamo ancora in
quei termini, erano anche quelli che ci avevano consegnato libri, gli
espressionisti, Otto Dix, poi Picasso con Guernica. Solo Guernica tiene
testa a quel che apprendemmo l'estate del 1945. Hiroshima e Nagasaki stavano
a Coventry come quelle vagonate di cadaveri dei campi alle membra stanche e
al volto fisso e riconoscibile dei compagni rimasti agli angoli delle
strade. Atomica e campi non si contrapposero, si sommarono. A due mesi dalla
pace, eravamo iniziati a una dimensione della guerra che non stava nella
nostra mente.
Fatico a mettere a punto che cosa fosse per me, prima, il limite della
distruzione. Sapevo che la guerra non risparmia le popolazioni civili, ma
per lungo tempo era parsa una sbavatura, un eccesso. poi l'ultima guerra
aveva colpito "anche" i civili. La bomba su Hiroshima colpiva "soltanto"
loro. Quella su Nagasaki "soltanto" loro. Il Giappone aveva colpe orrende e
non le ha mai riconosciute; tuttavia vedendo le immagini di quei giorni, mi
par di capire l'impossibilità, per quelli che sfuggirono e vagarono in cerca
di una città irriconoscibile, di piegare le ginocchia davanti al mondo, come
fece Brandt.
Non so se ad ammutolirci fosse la quantità delle vittime. Furono forse
130.000, ma già ne contavamo in guerra decine di milioni. Né il dolore, il
dolore altrui è una razionalizzazione. Fu credo l'impossibilità di
raffigurarci quell'evento. Il volare in polvere in una vampata, il bagliore
accecante, poi l'oscurità e il silenzio che seguirono. Abbiamo nuovamente
sentito in questi giorni il racconto dei sopravvissuti, per decenni a parte
dagli altri, come infetti. Ascoltiamo ma non sentiamo. Non si può, forse è
giusto e vitale non potere. Ci sono zone dove non si va. Anche alcuni di
loro dicono: perché parlarne? Non avverrà più, come dire: è quasi non
avvenuto.
E ci colpì che la nostra parte avesse usato la bomba. L'atomica americana
doveva venire prima di quella di Hitler. Fu accelerata, ci si misero i
migliori. Si doveva? Non si doveva? Fin dove si può arrivare nello sterminio
per salvarsi dallo sterminio? Se lo chiesero gli scienziati, ma non ci hanno
lasciato molte risposte. Più tardi vedemmo con un sorriso Stranamore, perché
era un pericoloso deficiente. Ma la bomba non la costruirono dei deficienti;
non furono dei pazzi a farla sganciare su Hiroshima e Nagasaki. Se fosse
stata pronta nell'inverno del 1944, sarebbe stata gettata su Berlino? Nel
chiedermelo mi par di avvicinare la dimensione di quell'orrore. Un orrore da
perpetrare lontano, non fra noi, su "altri". Forse sbaglio.
Dovemmo prendere atto che la guerra poteva essere distruzione assoluta.
Messa a rischio della vita sulla terra. E che questo diventava uno strumento
della politica. Non era stato nel conto prima.
Chi è nato dopo l'ha nel conto. L'ha trovato nel suo orizzonte. Per questo
non ci capiamo: la gente come me è quella del prima e del dopo. Credo che
mio padre e mia madre siano morti giovani perché il carico della prima e
della seconda guerra mondiale non era umanamente portabile. Credo che per
questo oggi la distruzione ci abita con tanta leggerezza e i ragazzini si
dilettano al computer in wargames che non somigliano al gioco degli indiani.
Non credo che sia un frutto obbligato della tecnica. Questa è la tesi del
grande pensiero di destra e nichilista, ripresa da Heidegger, e vedo che
torna a rifletterci su «Repubblica» Umberto Galimberti. Credo che la tecnica
abbia sempre seguito la decisione o il bisogno di distruggere. Da quando gli
uomini hanno scoperto la techne, prima della storia, le armi sono state il
prodotto più avanzato e si sono tirate dietro manufatti, merci, tecnologia,
scienza. La guerra non è la continuazione della politica, viene prima e ne è
un sostituto. In quel concetto ormai informe che chiamiamo «modernità» stava
l'idea che potessimo costituirci in patti vivibili, scommettere sulla
libertà come fondatrice di un ethos, di una economia di sé e delle cose. La
seconda guerra mondiale nacque da molti interessi, ma anzitutto da una
violazione a monte del patto dei moderni - l'arcaico fantasma di dominio del
Terzo Reich come risposta alla crisi e paura di un comunismo possibile. La
natura estrema della posta ha spinto a tecniche estreme di distruzione.
Gli ebrei non furono mandati ad Auschwitz perché esisteva lo Zyklon B,
furono gasati perché erano troppi ad Auschwitz. Il comandante del campo,
Höss, ha raccontato come andò. In altre forme la soluzione finale prendeva
troppo tempo. In Uomini semplici un giovane storico americano che lavora
sugli archivi tedeschi racconta come le prime esecuzioni degli ebrei
deportati dai villaggi polacchi fossero compiute non da SS ma da anziani
riservisti ognuno dei quali doveva prelevare un ebreo per volta dal camion,
spingerlo fino alla fossa e sparargli alla nuca. Ci metteva qualche minuto,
lo vedeva in viso e sangue e cervello spappolato gli schizzavano addosso.
Bisognò cambiar sistema. Bisogna ammazzare in fretta, senza vedere, gente
anonima o resa tale. Tale è sempre il nemico nelle guerre moderne. Ma certo
le camere a gas e la bomba sganciata dall'Enola Gay, era il nome della madre
del pilota, furono un gran passo avanti. Dopo, la bomba H avrebbe superato
in virtualità tutti e due.
Le generazioni dopo la mia hanno visto questo paesaggio quando levavano il
capo dalle private faccende. La pace è stata per loro sinonimo di equilibrio
del terrore. Quando è finito non è stato per un disarmo bilaterale che della
pace poteva essere una prima modesta imitazione, ma per il crollo dell'Urss,
come se la fine del pericolo di guerra fosse legata alla fine del simbolo,
suo malgrado, d'una società altra. Fine per noi si intende: per gli altri le
guerre restano, anzi le alimentiamo.
Anche l'immaginario è segnato dal trascolorare dei conflitti in distruzione
totale di nemici senza volto, o anche zero nemici ma distruzione come senso
ultimo dell'esperienza. Non vediamo con interesse se non fiction di morte.
Le ramificazioni del vivere non esercitano la stessa attrazione, e il "bene"
ci imbarazza, ci annoia, sa di perbenismo, è melassa. Uscendo da Usual
suspects, come l'anno scorso da Natural born killer, ma anche dalla più
innocente Arma letale mi dico che forse prima del '45 non ci sarebbero
state. E non per insufficienza tecnica.

* Migranti coraggiosi
Cominciamo dalla radice: va detto alto e forte che le migrazioni sono un
fenomeno di civiltà. Che avvengono sotto la spinta di condizioni terribili
di povertà e oppressione. Sono una soggettività coraggiosa, da rispettare.
Se aumentano, vuol dire che gli effetti materiali e la coscienza della
globalizzazione crescono. Se va da sé che i capitali e chi li possiede
possono incontrollatamente circolare da uno stato e un continente all'altro,
perché uomini e donne non proprietari non lo potrebbero fare? Per non
disturbare quel quinto del pianeta che si pasce delle ricchezze, prodotte
anche negli altri quattro quinti?
Una volta di più l'occidente è in contraddizione con le idee che proclama.
Fa ridere che si agiti una carta dei diritti umani, mentre si armano le
frontiere per impedire l'ingresso dei dannati della terra. Non nascondiamoci
dietro lo scandalo degli scafisti: questo si recide d'un colpo se riprendono
i traghetti normali. Ma non riprendono perché non si vogliono i migranti.
Ora i casi sono due: se lo stato nazionale consente spostamenti di acquisti
e vendite delle proprietà e dei mezzi di produzione delle nazioni, in nome
di quale principio esso vieta l'arrivo della forza di lavoro diretta e
indiretta e delle masse di sia pur poveri consumatori che ne costituiscono
sia la manodopera, sia una fetta del mercato? Se invece gli stati nazionali
ancora esistono come comunità di diritti, in nome di quale principio negano
l'asilo a chi viene da paesi dove gli stessi diritti non sono garantiti?
Così è dei  kurdi che arrivano in Italia da Turchia e Iraq. Ad essi sono
negate le condizioni di una autonomia anche parziale, eppure sono una grande
nazione, più estesa di molte nazioni europee. Non dovrebbe un kurdo aver
automaticamente diritto d'asilo? Vorremmo che Giuliano Amato ci spiegasse
perché no. Il ministro Bianco, che vuol concertare con il governo turco come
meglio impedire l'uscita dei kurdi, e il presidente dell'antimafia Lumia che
vuole sparare sugli scafisti in modo da alzarne le tariffe, somigliano agli
alleati che impedirono l'accesso agli ebrei ben oltre l'inizio della guerra.
E non si dica, ma la Turchia non propone per i kurdi la soluzione finale, la
straordinarietà dell'Olocausto non rende accettabile tutto quello che non ne
raggiunge l'efferatezza. E di più: come si può sostenere, come si va facendo
e come il ministro degli esteri Dini ha assicurato, l'ammissione nell'Unione
europea della Turchia, se non riconosce i diritti politici che nell'Unione
generalmente valgono? E' vero che finora la Ue non è molto di più di un
perimetro monetario, economico e  di polizia, ma non si va giusto parlando d
'una sua Costituzione? Quali discriminanti vi farebbero ammettere la
Turchia? Se per essere democratico basta tenere delle elezioni, perché si
sanziona Haider? Non è stato eletto? E quando la Turchia entrasse in Europa,
dove potranno rifugiarsi i kurdi? Da nessuna parte, si presume: quando mai
riconosceremmo perseguitati politici tedeschi?
D'altra parte che cosa di diverso fa il governo turco con i kurdi, che non
abbia fatto Milosevic con il Kosovo? Ma alla Turchia non si dichiara guerra,
dio e gli Stati Uniti volendo, e ne siamo ben lieti. Ma il diritto d'asilo
ai kurdi va dato senza dilazioni e va aperto non solo in sede governativa il
problema della Turchia. Noi italiani abbiamo già sulla coscienza la consegna
di Ocalan. Non è ammissibile che questioni di tale portata siano trattate da
un ministro degli esteri senza alcuna consultazione né popolare né
parlamentare. Sono diritti che toccano la coscienza civile e individuale e
spossessarne i cittadini non è l'ultima ragione del loro estraniarsi dalla
politica.
Ma questo è ancora una seconda questione. intanto, finché chiuderemo le
frontiere alle duplici vittime di una repressione politica e dei meccanismi
selvaggi della globalizzazione, saremo responsabili del traffico e financo
dell'assassinio sulle strade dei migranti. E' ipocrita gettarne l'obbrobrio
su chi ne approfitta quando costruiamo le condizioni per profittarne.

7. MAESTRE. AUNG SAN SUU KYI: FRA IL DIALOGO E LA DEVASTAZIONE ESTREMA
[Da Aung San Suu Kyi, Libera dalla paura, Sperling & Kupfer, Milano, 1996,
1999, p. 281]
In Sudafrica, nemici un tempo accaniti lavorano ora assieme per migliorare
le condizioni del popolo. Perche' non dovremmo augurarci un processo
analogo? Dobbiamo scegliere fra il dialogo e la devastazione estrema. Voglio
credere che l'istinto umano di sopravvivenza da solo, se non altro, ci
condurra' tutti a preferire il dialogo.

8. MAESTRE. HILDEGARD GOSS MAYR: UN PROVERBIO
[Da Gerard Houver, Jean e Hildegard Goss: la nonviolenza e' la vita,
Cittadella, Assisi 1984, p. 119]
Gli yogi hanno un proverbio che dice: "Quando l'allievo e' pronto, il
maestro arriva". Mi rendo conto che, detto cosi', puo' sembrare una
scappatoia. Ma ne' Jean, ne' io abbiamo mai visto un amico "toccato" dalla
nonviolenza che non abbia trovato la sua strada; ma a una condizione, che e'
evidente: quella di impegnarsi, cioe' che, in un modo o nell'altro, il suo
essere abbia preso "corpo": cio' che e' avvenuto in lui e' diventato
visibile a tutti. Le forme dell'impegno sono diverse quanto sono diversi gli
uomini che le assumono e nessuno puo', dall'esterno, imporre un impegno a un
altro.

9. MAESTRE. GIULIANA MARTIRANI: LE VERE CATTEDRALI
[Da Giuliana Martirani, La geografia come educazione allo sviluppo e alla
pace, Edizioni Dehoniane, Napoli 1984, 1985, p. 29]
... le loro vere cattedrali sono costruite all'interno del cuore umano.

10. MAESTRE. FRANCA ONGARO BASAGLIA: LE REGOLE DELLA CONVIVENZA CIVILE
[Da Franca Ongaro Basaglia, Salute/malattia, Einaudi, Torino 1982, p. 134]
Le regole della convivenza civile hanno senso per chi di questa convivenza
fa parte, per chi trova in esse almeno una parziale risposta ai propri
bisogni. Ma per coloro che in queste regole trovano solo la conferma alla
propria esclusione, esse rappresentano il linguaggio dell'oppressione e
della violenza.

11. LETTURE. LUIGI BONANATE: LA GUERRA
Luigi Bonanate, La guerra, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 158, lire 14.000.
Una nitida sintesi scritta dall'illustre docente di Relazioni
internazionali. Una lettura introduttiva assai opportuna per chiunque voglia
impegnarsi per la pace.

12. LETTURE. FRANCESCO CAPRIGLIONE: ETICA DELLA FINANZA E FINANZA ETICA
Francesco Capriglione, Etica della finanza e finanza etica, Laterza,
Roma-Bari 1997, pp. 224, lire 35.000. L'autore, gia' avvocato della Banca
d'Italia, e' docente di Diritto bancario all'Universita' di Pisa. Un utile
contributo alla discussione, da porre a confronto con altri approcci.

13. LETTURE. ANDREA CECCONI (A CURA DI): ERNESTO BALDUCCI. CINQUANT'ANNI DI
ATTIVITA'
Andrea Cecconi (a cura di), Ernesto Balducci. Cinquant'anni di attivita',
Libreria Chiari, Firenze 1996, pp. 346, lire 38.000. Un libro assai bello,
con un ampio ed intenso profilo della vita e della riflessione di padre
Balducci, un'imponente documentazione fotografica, una piccola ma preziosa
antologia, e quindi una vasta, fondamentale bibliografia.

14. RILETTURE. GIORGIO COLLI: LA RAGIONE ERRABONDA
Giorgio Colli, La ragione errabonda, Adelphi, Milano 1982, pp. 672. I
quaderni di appunti del grande pensatore scomparso nel 1979, di
straordinaria ricchezza e profondita'.

15. RILETTURE. SERGIO PIRO: LE TECNICHE DELLA LIBERAZIONE
Sergio Piro, Le tecniche della liberazione, Feltrinelli, Milano 1971, 1976,
pp. 192. Un testo appassionante di concreta riflessione di uno dei
protagonisti dell'esperienza teorica e pratica di psichiatria democratica.

16. RILETTURE. FRANCO VENTURI: LA LOTTA PER LA LIBERTA'
Franco Venturi, La lotta per la liberta', Einaudi, Torino 1996, pp. 504,
lire 32.000. Un'ampia raccolta di scritti politici del grande militante
antifascista ed illustre storico scomparso nel 1994. Con due saggi
introduttivi di Vittorio Foa ed Alessandro Galante Garrone.

17. INIZIATIVE DI PACE DI OGGI
[Ovviamente le iniziative di pace di seguito segnalate sono quelle di cui
siamo venuti a conoscenza e che ci sembrano caratterizzate da due scelte
precise: I. la nonviolenza; e II. la difesa dei diritti umani, del diritto
internazionale, della legalita' costituzionale]
Lunedi 26 novembre
- a Buti: Claude Anshin Thomas (monaco zen, gia' militare statunitense
reduce della guerra del Vietnam, approdato all'impegno di solidarieta', per
la pace e la nonviolenza) condurra' da lunedi 26 a giovedi 29 un ritiro zen
di consapevolezza. Per informazioni: tel. 0587724677.
- a Genova: alle ore 14,30 in salita della fava greca 8, apertura del centro
su scuola e nuove culture.
- a Genova: ore 21, ARCI Mascherona, Salita Mascherona 16, incontro con
Pedro Ortega (segretario generale Federazione Tessile, Pellame e Calzature
del Nicaragua). Info: itanica at iol.it
- a Massa Lombarda: alle ore 20,45 alla Sala Facchini, dibattito con
"Carta", Gavci e Rete di Lilliput.
- a Modena: la Rete di Lilliput organizza un incontro per la pace.
- a Prato: piazza S. Maria delle Carceri a Prato ospita la tenda di Abramo,
presso la quale sosteranno i diciassette digiunatori che aderiscono alla
proposta lanciata da Pax Christi e Beati i Costruttori di Pace.
- a Roma: alle ore 20,30 all'Universita' La Sapienza film sull'Afghanistan.
- a Trieste: alle ore 18 in via Trento 8, incontro con Cristina Serra sulle
biotecnologie.
- A Verona: in via Duomo 18 incontro per la pace con Pax Christi e le Donne
in nero.
- a Viterbo: alle ore 21,30 presso il circolo Arci "Il mulino" incontro
della Rete no global.

18. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

19. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ;
per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben at libero.it ;
angelaebeppe at libero.it ; mir at peacelink.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 300 del 26 novembre 2001