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La nonviolenza e' in cammino. 300
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 300
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 26 Nov 2001 04:59:10 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 300 del 26 novembre 2001 Sommario di questo numero: 1. Peppe Sini, dopo un certo tempo 2. Associazione nazionale amici di Aldo Capitini: il 14 dicembre aderiamo al digiuno 3. Amelia Alberti, i principali motivi della guerra 4. Per Paolo Borsellino (con alcuni testi di Paolo Borsellino, Liliana Ferraro, Nando dalla Chiesa, Riccardo Orioles) 5. Benito D'Ippoito, una meditazione del giorno dopo 6. Due scritti di Rossana Rossanda 7. Aung San Suu Kyi, fra il dialogo e la devastazione estrema 8. Hildegard Goss Mayr, un proverbio 9. Giuliana Martirani, le vere cattedrali 10. Franca Ongaro Basaglia, le regole della convivenza civile 11. Letture: Luigi Bonanate, La guerra 12. Letture: Francesco Capriglione, Etica della finanza e finanza etica 13. Letture: Andrea Cecconi (a cura di), Ernesto Balducci. Cinquant'anni di attivita' 14. Riletture: Giorgio Colli, La ragione errabonda 15. Riletture: Sergio Piro, Le tecniche della liberazione 16. Riletture: Franco Venturi, La lotta per la liberta' 17. Iniziative di pace di oggi 18. La "Carta" del Movimento Nonviolento 19. Per saperne di piu' 1. IL PUNTO. PEPPE SINI: DOPO UN CERTO TEMPO Dopo un certo tempo ci si abitua a tutto, anche alle stragi, anche alle guerre che di stragi consistono sempre, soprattutto quando esse, almeno apparentemente, non ci minacciano direttamente e massime se accadono lontano dai nostri intorpiditi e narcotizzati sensi. Quando i crimini si moltiplicano, deve averlo scritto Brecht se ben ricordo, diventano invisibili. Ma tu non abituarti all'ordine dei mangiatori di carne umana, ma tu continua ad opporti alla guerra, al terrorismo, alla violenza. Anche perche' tu sai che unica e' l'umanita'; ed ogni volta che un essere umano e' privato della vita e' una perdita immane ed irreparabile, e' un bene prezioso ed insostituibile estinto per sempre, e' l'umanita' intera che viene sbranata. E dunque amici coraggio. Approfondiamo ed intensifichiamo il nostro impegno nonviolento affinche' l'orrore cessi, e possa venire la pace e la giustizia. Noi dobbiamo fermare la guerra. 2. INIZIATIVE. ASSOCIAZIONE NAZIONALE AMICI DI ALDO CAPITINI: IL 14 DICEMBRE ADERIAMO AL DIGIUNO [Dall'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini (capitini at tiscalinet.it) riceviamo e diffondiamo] L'Associazione Nazionale Amici di Aldo Capitini, libero religioso, promotore della nonviolenza, difensore della pace, vegetariano, invita gli amici della nonviolenza ad aderire all'invito del Pontefice Giovanni Paolo II di osservare nel prossimo 14 dicembre 2001 una giornata di digiuno dedicata alla difesa e alla promozione della pace tra le donne e gli uomini del mondo. Il digiuno e' una delle tecniche della nonviolenza che Capitini suggeriva all'umanita' di adoperare per chiudere l'era violenta della storia dei popoli e aprire l'era della compresenza nonviolenta tra le persone di ogni idea e ogni religione. 3. RIFLESSIONE. AMELIA ALBERTI: I PRINCIPALI MOTIVI DELLA GUERRA [Amelia Alberti e' presidente del circolo verbano di Legambiente. Per contatti: lambient at tiscalinet.it] Un articolo di Marco D'Eramo apparso sul quotidiano "Il manifesto" del 24 novembre ci aiuta assai bene a cogliere alcuni dei reali motivi della guerra contro l'Afghanistan. Questione fondamentale, a mio avviso, perche' anche le guerre e la violenza possono essere oggetto di analisi e di giudizi diversificati. Una guerra di difesa, un attacco anticipato rispetto alle mosse certe e sterminatrici del nemico, sono certamente piu' comprensibili rispetto ad un'aggressione dettata da voglia di predominio e di rapina. Riporto, quindi, dal "Manifesto": "Il risultato strategico piu' inatteso dell'attacco terroristico dell'11 settembre sara' quello di aver impiantato le forze armate americane in una delle poche regioni al mondo da cui erano finora precluse: l'Asia centrale, a ridosso del confine meridionale russo e di quello occidentale cinese. (...) Gli Stati Uniti stanno mettendo su' almeno una grande base militare in Afghanistan, magari non delle dimensioni di quella a Okinawa in Giappone, ma certo paragonabile a quelle di stanza in Italia. Al di la' della vittoria militare contro i taleban, gli Usa si preparano a un'occupazione di lunga durata dell'Afghanistan (...) Una stabile presenza militare in Afghanistan ha numerosi vantaggi per gli Stati Uniti: un controllo ravvicinato sulle due altre grandi potenze mondiali (Russia e Cina), la vigilanza sul flusso di petrolio che prendera' a scorrere dall'Asia centrale, infine una sorveglianza stretta dell'arsenale nucleare pakistano (e anche di quello indiano) che gli Stati Uniti temono possa finire in mani infide. (...) Uno dei piu' paradossali effetti della sconfitta dei taleban e' che i contadini afghani hanno ripreso a piantare papaveri come pazzi: da 16 mesi i taleban avevano vietato la produzione di oppio. E lo fanno sotto gli occhi benevoli delle truppe d'assalto Usa e dei reporter del "Los Angeles Times", che ieri ha pubblicato la storia in prima pagina. Proprio questo divieto aveva fatto crollare il consenso verso i taleban, visto che la coltivazione dei papaveri da oppio costituisce l'85% delle entrate della regione di Jalalabad. Ora, anzi, i contadini si affrettano a seminare e a fertilizzare, l'inverno e' alle porte". Tutti i tasselli combaciano: la cattura di Bin Laden non e' mai stato il primo (e forse neanche l'ultimo) scopo di questa guerra. Il petrolio, il mercato dell'eroina, il controllo militarizzato del mondo: questi, i principali motivi che hanno spinto in Afghanistan gli occidentali? E noi italiani, siamo stati i servi sciocchi, oppure sapevamo, fingevamo, e intanto porgevamo il piatto in attesa della nostra porzione di rancio? 4. ESEMPI. PER PAOLO BORSELLINO (CON ALCUNI TESTI DI PAOLO BORSELLINO, LILIANA FERRARO, NANDO DALLA CHIESA, RICCARDO ORIOLES) [Riproponiamo questo testo gia' diffusa nell'estate dello scorso anno] C'è una frase indimenticabile di Paolo Borsellino, la sua replica grande e nitida alla polemica sui "professionisti dell'antimafia": "Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno". La gente mi moriva attorno: un problema morale. E' detto con una semplicità ed una precisione assolute. Ripubblichiamo qui di seguito alcuni brevi brani di un discorso e di una lettera di Paolo Borsellino, e tre ricordi di lui scritti da Liliana Ferraro, da Nando dalla Chiesa e da Riccardo Orioles (molte altre cose sono state scritte, e più estese e forse più eloquenti, ma queste sono di quelle che ci hanno particolarmente commosso). Ricordo il giorno della morte di Paolo Borsellino e come seppi la notizia: stavo ancora una volta traslocando, e vivendo senza televisione in serata chiamai ad un numero di telefono, che non ricordo più quale sia e non so se vi sia ancora, dal quale la Sip diffondeva un secco notiziario: ed in solitudine, in una stanza ormai vuota di una casa che stavo abbandonando per sempre, sentii dalla smorta e meccanica vocina registrata che anche Borsellino, ed i ragazzi che erano con lui, erano stati assassinati. Muggii di dolore. Credo questo sentire sia stato allora il sentire di tanti in tutta Italia: dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992 in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinari, Rocco Di Ciillo e Vito Schifani, in tutta Italia vi era stato un sentimento di sbigottimento e di lutto profondi, e un bisogno dirompente di reagire (ripenso con tenerezza alle tante iniziative anche piccole e minime che ovunque furono realizzate in quei giorni). Quando il 19 luglio avvenne la strage in via D'Amelio e morirono Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Agostino Catalano, credo che tutti sentimmo una ferita nelle carni. La spina, il pungolo, lo sperone nelle carni (è l'enigmatica espressione di Kierkegaard): se tutti ci riconoscemmo allora nella figura di Antonino Caponetto non fu solo per il suo volto e contegno ieratico e straziato, e la sua personale vicenda e figura magnanima e dolente, di antico padre di eroi greci, di antico padre biblico di eroi; ma perché seppe due volte dire quello che tutti sentivamo: lo smarrimento profondo e indicibile quasi, e poi la volontà di riscatto, di proseguire la lotta, di non permettere che Falcone e Borsellino fossero assassinati una seconda volta dalla resa, dal tradimento, dall'oblio. Paolo Borsellino ed Emanuele Basile; Paolo Borsellino e Rocco Chinnici; Paolo Borsellino con Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta: il pool; Paolo Borsellino con Giovanni Falcone all'Asinara; Paolo Borsellino bollato come "professionista dell'antimafia"; Paolo Borsellino che denuncia lo smantellamento del pool e la resa dello Stato; Paolo Borsellino e Rita Atria; Paolo Borsellino che nella biblioteca comunale di Palermo scandisce il suo testamento spirituale e tutti sentono che è il commiato di un morituro; Paolo Borsellino schernito da un traditore per la "procura col mare"; Paolo Borsellino che sa che l'esplosivo per ucciderlo è arrivato... Paolo Borsellino che sa che non c'è più tempo. Poi lo schianto. Poi l' insurrezione di Palermo ai funerali delle vittime. Poi le parole delicate come petali e penetranti come raggi di luce di Caponnetto. Poi ancora anni ed anni di lotte e sofferenze, di orrori e di resistenza. Poi tu, che leggi queste righe, e che ti chiedi come serbare la fedeltà e portare avanti la lotta di Paolo Borsellino. * Una notizia biobibliografica Magistrato, membro del pool antimafia di Palermo che istruì il maxiprocesso a Cosa Nostra, fu assassinato dalla mafia nel 1992. Era un uomo giusto e coraggioso. Si può ripetere per lui quanto scrisse di sé Paolo nella seconda lettera a Timoteo, 4, 7: "Ho combattuto la buona battaglia, sono arrivato fino al termine della mia corsa, ho serbato la fede". E' stato tra gli autori dell'atto d'accusa alla base del grande processo noto come "maxiprocesso" alla mafia, una sintesi di quella decisiva ordinanza-sentenza del pool antimafia di Palermo è stata pubblicata a cura di Corrado Stajano con il titolo Mafia: l'atto d'accusa dei giudici di Palermo, Editori Riuniti, Roma 1986. Alcuni suoi testi in: AA. VV., Sulla pelle dello stato, La Zisa, Palermo 1991; sua la bella prefazione a Rocco Chinnici, L'illegalità protetta, La Zisa, Palermo 1990. Cfr. anche la raccolta di alcuni interventi pubblici di Falcone e Borsellino, Magistrati in Sicilia, Ila Palma, Palermo 1992. Tra le opere su Paolo Borsellino fondamentale è Umberto Lucentini, Paolo Borsellino. Il valore di una vita, Mondadori, Milano 1994; cfr. anche Giommaria Monti, Falcone e Borsellino, Editori Riuniti, Roma 1996. Materiali utili in alcuni libri di giornalisti che riportano anche interviste e colloqui avuti con Borsellino: innanzitutto Saverio Lodato, Venti anni di mafia, Rizzoli, Milano 2000; Luca Rossi, I disarmati, Mondadori, Milano 1992; cfr. anche Giorgio Bocca, L'inferno, Mondadori, Milano 1992; ed anche Alexander Stille, Nella terra degli infedeli, Mondadori, Milano 1995. Naturalmente si vedano anche le opere di e su Giovanni Falcone, di Antonino Caponnetto, di Giuseppe Di Lello. Segnaliamo anche un tratto commovente alla pagina 292 di Umberto Santino, Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000. Ricordiamo che le parole di Caponnetto ai funerali di Borsellino sono state riedite per nostra cura da ultimo nel testo diffuso nella rete telematica dal titolo "Documenti per una cultura antimafia: Antonino Caponnetto, Una preghiera laica ma fervente". * Paolo Borsellino: da un ricordo di Giovanni Falcone Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l'estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d'amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l'amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare sulla stessa lunghezza d' onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: "La gente fa il tifo per noi". E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l'appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche sommovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la sua vera forza. (...) [Questo brano è estratto dal discorso tenuto da Paolo Borsellino il 23 giugno 1992, ad un mese dalla strage di Capaci, alla cerimonia promossa dai boy-scout della parrocchia di Sant'Ernesto a Palermo; il testo integrale è nel libro di Umberto Lucentini, Paolo Borsellino. Il valore di una vita, Mondadori, Milano 1994, alle pp. 256-258]. * Paolo Borsellino: da una lettera ad una insegnante (...) 1. Sono diventato giudice perché nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l'idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria, per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso. Fui fortunato e diventai magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E' vero che nel 1975, per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all'ufficio istruzione processi penali, ma alternai l'applicazione, anche se saltuaria, a una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle distanze legali, delle divisioni ereditarie. Il 4 maggio 1980 uccisero il capitano Emanuele Basile e il consigliere Chinnici volle che mi occupassi io dell'istruttoria del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anch'egli dal civile, il mio amico d'infanzia Giovanni Falcone, e sin da allora capii che il mio lavoro doveva essere un altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia e a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso a occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi. Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché esclusivamente della criminalità mafiosa. E sono ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e non, hanno oggi attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant'anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanta io e la mia generazione ne abbiamo avuta. (...) 3. La mafia (Cosa Nostra) è un'organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si distingue da ogni altra per la sua caratteristica di «territorialità». Essa è divisa in famiglie, collegate tra loro per la dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono a esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, o deve esercitare, legittimamente, lo Stato. Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi di tutte le ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio, principalmente con l'imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l'accaparramento degli appalti pubblici, fornendo al contempo una serie di servizi apparenti rassemblabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro, che dovrebbero essere gestiti esclusivamente dallo Stato. E' naturalmente una fornitura apparente perché a somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l'imposizione di altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni (pochi) togliendolo ad altri (molti). La produzione e il commercio della droga, che pure hanno fornito Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione. Il conflitto irreversibile con lo Stato, cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall'interno, cioè con infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale. Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, 'ndrangheta, sacra corona unita) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra, ma non ne hanno l'organizzazione verticistica e unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del «consenso» di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo viene a confondersi. (...) [Il testo precedente consiste di due estratti da una lettera che la mattina del 19 luglio 1992 Borsellino aveva iniziato a scrivere in risposta ad una professoressa di Padova che tre mesi prima lo aveva invitato ad un incontro con gli studenti di un liceo. Abbiamo ripreso il testo dalle pp. 289-291 del bel libro di Umberto Lucentini citato]. * Liliana Ferraro: un ricordo di Falcone e Borsellino (...) Ho conosciuto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1983 e ho subito cominciato a lavorare per loro e con loro. Nel 1984 (pentimento di Tommaso Buscetta) abbiamo sognato la vittoria. Nel 1985 abbiamo pianto gli amici Cassarà e Montana ma non ci siamo fermati: Falcone, Borsellino e gli altri facevano indagini e scrivevano l'ordinanza, io procuravo i mezzi materiali e facevo costruire l'aula-bunker. Ma arrivò quel terribile 1989. Io dicevo: "Molliamo tutto". Giovanni e Paolo ripetevano: "Mai". Nonostante che, al Consiglio superiore della magistratura, gli avessero fatto fare 14 ore di anticamera, digiuni, senza telefono, erano stati «sistemati» in una stanzetta senz'aria, umiliati come giudici e come persone. "Mai", rispose Paolo anche alla dolce Agnese che, in una sera della fine di giugno del 1992, in una saletta dell'aeroporto di Roma, lo pregava di «lasciare», preoccupata per la vita del suo uomo, del padre dei suoi figli. "Mai", aveva già risposto, in un caldo pomeriggio di agosto del 1985, anche Nino Caponnetto quando gli chiesi di lasciare Palermo, insieme a Giovanni e Paolo, perché non vi era certezza di difendere la loro vita. "Mai - disse Caponnetto -. Porta all'Asinara Giovanni, Paolo e le loro famiglie. Così potranno continuare a scrivere l'ordinanza tranquilli e sicuri. Io resto qui, perché non si dovrà mai dire che lo Stato fugge davanti al nemico. Nessuno di noi può interrompere il proprio lavoro". (...) [Abbiamo estratto questo brano dalla Postfazione di Liliana Ferraro al libro di Giommaria Monti citato in bibliografia. Sul contributo di Liliana Ferraro all'attività del pool antimafia di Palermo cfr. Francesco La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Rizzoli, Milano 1993; e Alexander Stille, citato nella nota bibliografica]. * Nando dalla Chiesa: un ricordo di Paolo Borsellino (...) La profezia: certo, a quella di Sciascia egli ora ne contrapponeva nella sua interiorità un'altra, quella della propria morte imminente. Lasciò, volle lasciare una sorta di testamento pubblico. Fece capire di avere qualche idea sull'assassinio del suo amico. Poi si alzò scusandosi; disse che doveva tornare a lavorare e se ne andò. Ma a quel punto successe una cosa straordinaria, uno spettacolo al quale si può assistere, probabilmente, una sola volta nella vita. Mentre il magistrato, non alto di statura, si alzava e scendeva dal piccolo palco, la folla -circa ottocento, mille persone- si alzò in piedi. E si mise ad applaudire. Forte, sempre più forte, con una commozione che attraversava come una corrente elettrica tutti i corpi e forse anche le cose presenti. Dieci, quindici interminabili minuti di applausi. Quasi che a lui vivo volesse riservare gli applausi riservati al suo amico, per incoraggiarlo ad andare avanti. Ma più crescevano gli applausi, più tra i brividi che graffiavano l'intestino dirompeva la realtà vera. La gente aveva capito quello che il giudice superstite sentiva come sua intima certezza. E sapendolo misurato e coraggioso, non aveva pensato che si fosse fatto cogliere dal panico o dallo scoramento. Se lui, con il suo testamento morale, aveva fatto capire che cosa si attendeva, non c'era dubbio che ciò sarebbe accaduto. Il pubblico di Palermo aveva voluto salutare per l'ultima volta il suo giudice. Aveva voluto ringraziarlo da vivo. Non aveva potuto ringraziare il suo amico, che tanti in città avevano scoperto di amare troppo tardi. Bruciava il rimpianto di quei silenzi, e degli applausi indirizzati a chi ormai non poteva più sentire. Ma ora lui, mentre tornava al lavoro alle undici di sera, doveva sentire gli applausi della città. Che per questo non finivano mai. (...) [Questo testo di Nando dalla Chiesa è estratto dal ritratto di Paolo Borsellino alle pagine 164-168 del suo recente libro Storie eretiche di cittadini perbene, Einaudi, Torino 1999. L'incontro cui si fa riferimento è quello del 25 giugno 1992 alla biblioteca comunale di Palermo, cui Borsellino intervenne parlando a braccio; la trascrizione dell'intervento di Borsellino può essere ora letta sia nel volume di Lucentini che in quello di Monti citati nella nota bibliografica]. * Riccardo Orioles: un ricordo di Paolo Borsellino L'ultima volta che ho visto Borsellino dev'essere stato a Roma, a una conferenza in un liceo. Borsellino è quello che appena ti vede ti saluta, senza accorgersene, con un accento palermitano strettissimo; perché siamo fuori dalla Sicilia, e siamo siciliani. C'è una scritta in fondo all'aula, coi nomi di due ragazzi che "per sempre insieme": uno dei due nomi -guarda un po'- è Riccardo e l'altro, per una meravigliosa coincidenza, è quello della mia compagna di allora. Tu gl'indichi con un cenno ironico i due nomi e lui, senza capire bene, istintivamente sorride. Gli uomini -i militanti- della scorta, un paio di giornalisti autorevoli, e i liceali; e lui che comincia a parlare, serenamente. E il fresco attento dell'aula e, fuori nella piazza romana, una gilornata di sole. [Questo testo di Riccardo Orioles è estratto dalla sua e-zine Tanto per abbaiare, 24 luglio 2000, n. 32; la e-zine di Orioles si può leggere nel sito telematico pacifista Peacelink: www.peacelink.it; l'autore - il miglior giornalista italiano vivente - può essere contattato all'indirizzo di posta elettronica: ricc at libero.it]. 5. RIFLESSIONE. BENITO D'IPPOLITO: UNA MEDITAZIONE DEL GIORNO DOPO [Scritta il giorno dopo la marcia Perugia-Assisi per la nonviolenza che si tenne il 24 settembre 2000] Udii una voce che mi comandava: che nessun uomo resti solo. Lunga e fredda è la notte, nessuno sia abbandonato al freddo e all'orco. Lungo è il cammino e poche le provviste: nessuno osi rubare la borraccia. Chi abbandonerà il ferito verrà abbandonato, chi irriderà lo zoppo sarà umiliato, chi oserà colpire uno dei piccoli sciagura a lui, mai sarà perdonato. L'ombra, la fonte, i frutti del mondo sono di tutti. Sappia l'ingordo che ciò che lui di troppo ha preso, a qualcun altro mancherà. Udii una voce che mi domandava: tu cosa hai fatto dinanzi al dolore? 6. MAESTRE. DUE SCRITTI DI ROSSANA ROSSANDA [Ridiffondiamo ancora una volta, con le poche parole di presentazione che vi premettemmo lo scorso anno, i seguenti due testi di Rossana Rossanda. Il primo testo, su Hiroshima, e' estratto da Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996, alle pp. 187-191, articolo originariamente apparso sul quotidiano "Il Manifesto" dell'11 agosto 1995; il secondo testo è l' editoriale della prima pagina del quotidiano "Il Manifesto" del 3 agosto 2000. "Da quando con le luci di settembre del 1939 venne la guerra, il tempo si mise a rotolare e non si è più fermato. (...) E quando il fascismo esplose nella guerra dentro la guerra (...) non bastò capire, occorreva intervenire. Per chi si fece adulto in quegli anni l'identità non sarà mai un percorso privato e nel privato, come non è un fatto privato portar salva la vita da un veliero nella tempesta". Così scrive Rossana Rossanda ad un punto delle stupende pagine autobiografiche, autoanalitiche, che introducono il libro di conversazioni a più voci Le altre, Bompiani, Milano 1979 (il passo citato alle pp. 10-11). Se Rossana Rossanda per molti di noi è "la Rossanda", e sui più gravi argomenti ci è abituale chiederci "che ne dice la Rossanda?", e delle sue parole teniamo gran conto anche quando ci capita di non esser d' accordo con lei (e su qualche materia ed in alcune circostanze ci è capitato, e con un rammarico vivo e profondo, come di un nostro interiore conflitto), è perché la Rossanda non solo è la grande intellettuale che tutti sanno, non solo è la militante di un rigore intrepido e di esperienze vaste e ineguagliabili, ma è anche una delle voci più nitide e ferme, una delle coscienze più vigili e chiare in tempi tanto turbinosi e bui. Nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista e resistente, dirigente del Partito Comunista Italiano (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra e di solidarietà con l'opposizione di sinistra repressa e perseguitata nei paesi del "socialismo reale"), in rapporto con le figure più vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di più drammatica attualità e sui temi politici, culturali, morali più urgenti. E' tra i grandi protagonisti della cultura internazionale. Opere di Rossana Rossanda: L'anno degli studenti, De Donato, Bari 1968; Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalità, Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda è tuttora dispersa in articoli e saggi pubblicati in giornali e riviste. Indirizzi utili: redazione de "Il manifesto", via Tomacelli 146, 00186 Roma] * Hiroshima Nei molti bilanci sulle idee del secolo non trovo come crinale lo sganciamento delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Non in George Steiner, non in François Furet, non nei molti necrologi del comunismo. Neppure in Il secolo breve di Hobsbawm, che pure le ricorda. Non è una rimozione? Ricordo l'8 agosto 1945, quella per me è la data. La notizia arrivò forse il 7, ma dilagò quel giorno. Era un segno di vittoria; eppure ci fu una sospensione, un movimento di riduzione, un ritrarsi. Era una bomba speciale, ma quanto speciale? Non lo sapemmo subito. Che significava esattamente: due città rase al suolo, ma diversamente da Coventry o Dresda o Berlino? Neppure gli americani sapevano la devastazione che avrebbero causato. Eppure dopo quella guerra, in Italia raddoppiata dalla guerra civile, credevamo di aver veduto tutto; avevamo una tale nausea di morte che ci sentivamo più convalescenti, più suonati che felici. Contavamo i nostri morti, sapevamo vagamente di quelli altrui. Di morte eravamo come avvelenati. E poi perché quella bomba adesso? Per noi la guerra era finita il 25 aprile, in Germania il 2 maggio con la bandiera rossa che sventolava sul Reichstag; le date ufficiali non sono le stesse della memoria collettiva. L'Asse non esisteva più, il Giappone era parte dell'Asse, dunque era finito, questione di settimane. Ignoravamo di avergli testè dichiarato la guerra (io lo apprendo ora, dalla Rai, che contemporaneamente mi informa che Tokyo è stata l'ultima a "difendere l'onore dell'Asse") e se lo avessimo saputo ci avrebbe fatto ridere. L'Italia era mezza morta, raccoglievamo i cocci, c'era tutto da rimettere in piedi, le nostre esistenze incluse. Così la bomba su Hiroshima ci lasciò senza fiato. Ne capimmo lentamente la magnitudine, la catastrofe, non ne capimmo il senso, quel che capimmo a poco a poco ci ammutolì. La guerra finiva, la distruzione no. Nei mesi successivi quel fungo mostruoso continuò a implodere nei corpi, nei luoghi; la radioattività entrò nel nostro lessico. E di più, quella non immaginata distruzione era stata compiuta dalla nostra parte. Avevamo trovata oscena la parola fascista "coventrizzare", non sapevamo ancora di Dresda. L'atomica era impensata. Ma l'impensabile che si verifica diventa pensato per sempre, possibile e riproducibile. La pace cominciava con una distruzione immane. Era una pace ambigua. Poco dopo ci saremmo sentiti in guerra fredda, non ricordo chi per primo la chiamò così. Ma in meno di due anni l'avevamo in casa. In quella stessa strana estate arrivarono le immagini dei campi di sterminio. Credo che le prime venissero dalla quinta armata di Eisenhower: anch'esse ci ammutolirono. Avevamo veduto tanti morti, conoscevamo i fronti di guerra, avevamo alle spalle l'incalcolabile rotta dell'Armir nel gelo delle pianure russe, avevamo veduto i corpi dei fucilati o impiccati dai tedeschi, tenuti per strada per qualche giorno, le sentinelle di guardia avanti e indietro, perché ne fossimo avvisati. Erano corpi come abbandonati, dislocati in un sonno a occhi aperti, il volto fisso sul cielo o sul selciato. Non avevamo conosciuto quella morte a pacchi, quella gigantesca discarica di cadaveri scarniti, già senza più lineamenti. La prima guerra mondiale era stata una macelleria e noi pensavamo ancora in quei termini, erano anche quelli che ci avevano consegnato libri, gli espressionisti, Otto Dix, poi Picasso con Guernica. Solo Guernica tiene testa a quel che apprendemmo l'estate del 1945. Hiroshima e Nagasaki stavano a Coventry come quelle vagonate di cadaveri dei campi alle membra stanche e al volto fisso e riconoscibile dei compagni rimasti agli angoli delle strade. Atomica e campi non si contrapposero, si sommarono. A due mesi dalla pace, eravamo iniziati a una dimensione della guerra che non stava nella nostra mente. Fatico a mettere a punto che cosa fosse per me, prima, il limite della distruzione. Sapevo che la guerra non risparmia le popolazioni civili, ma per lungo tempo era parsa una sbavatura, un eccesso. poi l'ultima guerra aveva colpito "anche" i civili. La bomba su Hiroshima colpiva "soltanto" loro. Quella su Nagasaki "soltanto" loro. Il Giappone aveva colpe orrende e non le ha mai riconosciute; tuttavia vedendo le immagini di quei giorni, mi par di capire l'impossibilità, per quelli che sfuggirono e vagarono in cerca di una città irriconoscibile, di piegare le ginocchia davanti al mondo, come fece Brandt. Non so se ad ammutolirci fosse la quantità delle vittime. Furono forse 130.000, ma già ne contavamo in guerra decine di milioni. Né il dolore, il dolore altrui è una razionalizzazione. Fu credo l'impossibilità di raffigurarci quell'evento. Il volare in polvere in una vampata, il bagliore accecante, poi l'oscurità e il silenzio che seguirono. Abbiamo nuovamente sentito in questi giorni il racconto dei sopravvissuti, per decenni a parte dagli altri, come infetti. Ascoltiamo ma non sentiamo. Non si può, forse è giusto e vitale non potere. Ci sono zone dove non si va. Anche alcuni di loro dicono: perché parlarne? Non avverrà più, come dire: è quasi non avvenuto. E ci colpì che la nostra parte avesse usato la bomba. L'atomica americana doveva venire prima di quella di Hitler. Fu accelerata, ci si misero i migliori. Si doveva? Non si doveva? Fin dove si può arrivare nello sterminio per salvarsi dallo sterminio? Se lo chiesero gli scienziati, ma non ci hanno lasciato molte risposte. Più tardi vedemmo con un sorriso Stranamore, perché era un pericoloso deficiente. Ma la bomba non la costruirono dei deficienti; non furono dei pazzi a farla sganciare su Hiroshima e Nagasaki. Se fosse stata pronta nell'inverno del 1944, sarebbe stata gettata su Berlino? Nel chiedermelo mi par di avvicinare la dimensione di quell'orrore. Un orrore da perpetrare lontano, non fra noi, su "altri". Forse sbaglio. Dovemmo prendere atto che la guerra poteva essere distruzione assoluta. Messa a rischio della vita sulla terra. E che questo diventava uno strumento della politica. Non era stato nel conto prima. Chi è nato dopo l'ha nel conto. L'ha trovato nel suo orizzonte. Per questo non ci capiamo: la gente come me è quella del prima e del dopo. Credo che mio padre e mia madre siano morti giovani perché il carico della prima e della seconda guerra mondiale non era umanamente portabile. Credo che per questo oggi la distruzione ci abita con tanta leggerezza e i ragazzini si dilettano al computer in wargames che non somigliano al gioco degli indiani. Non credo che sia un frutto obbligato della tecnica. Questa è la tesi del grande pensiero di destra e nichilista, ripresa da Heidegger, e vedo che torna a rifletterci su «Repubblica» Umberto Galimberti. Credo che la tecnica abbia sempre seguito la decisione o il bisogno di distruggere. Da quando gli uomini hanno scoperto la techne, prima della storia, le armi sono state il prodotto più avanzato e si sono tirate dietro manufatti, merci, tecnologia, scienza. La guerra non è la continuazione della politica, viene prima e ne è un sostituto. In quel concetto ormai informe che chiamiamo «modernità» stava l'idea che potessimo costituirci in patti vivibili, scommettere sulla libertà come fondatrice di un ethos, di una economia di sé e delle cose. La seconda guerra mondiale nacque da molti interessi, ma anzitutto da una violazione a monte del patto dei moderni - l'arcaico fantasma di dominio del Terzo Reich come risposta alla crisi e paura di un comunismo possibile. La natura estrema della posta ha spinto a tecniche estreme di distruzione. Gli ebrei non furono mandati ad Auschwitz perché esisteva lo Zyklon B, furono gasati perché erano troppi ad Auschwitz. Il comandante del campo, Höss, ha raccontato come andò. In altre forme la soluzione finale prendeva troppo tempo. In Uomini semplici un giovane storico americano che lavora sugli archivi tedeschi racconta come le prime esecuzioni degli ebrei deportati dai villaggi polacchi fossero compiute non da SS ma da anziani riservisti ognuno dei quali doveva prelevare un ebreo per volta dal camion, spingerlo fino alla fossa e sparargli alla nuca. Ci metteva qualche minuto, lo vedeva in viso e sangue e cervello spappolato gli schizzavano addosso. Bisognò cambiar sistema. Bisogna ammazzare in fretta, senza vedere, gente anonima o resa tale. Tale è sempre il nemico nelle guerre moderne. Ma certo le camere a gas e la bomba sganciata dall'Enola Gay, era il nome della madre del pilota, furono un gran passo avanti. Dopo, la bomba H avrebbe superato in virtualità tutti e due. Le generazioni dopo la mia hanno visto questo paesaggio quando levavano il capo dalle private faccende. La pace è stata per loro sinonimo di equilibrio del terrore. Quando è finito non è stato per un disarmo bilaterale che della pace poteva essere una prima modesta imitazione, ma per il crollo dell'Urss, come se la fine del pericolo di guerra fosse legata alla fine del simbolo, suo malgrado, d'una società altra. Fine per noi si intende: per gli altri le guerre restano, anzi le alimentiamo. Anche l'immaginario è segnato dal trascolorare dei conflitti in distruzione totale di nemici senza volto, o anche zero nemici ma distruzione come senso ultimo dell'esperienza. Non vediamo con interesse se non fiction di morte. Le ramificazioni del vivere non esercitano la stessa attrazione, e il "bene" ci imbarazza, ci annoia, sa di perbenismo, è melassa. Uscendo da Usual suspects, come l'anno scorso da Natural born killer, ma anche dalla più innocente Arma letale mi dico che forse prima del '45 non ci sarebbero state. E non per insufficienza tecnica. * Migranti coraggiosi Cominciamo dalla radice: va detto alto e forte che le migrazioni sono un fenomeno di civiltà. Che avvengono sotto la spinta di condizioni terribili di povertà e oppressione. Sono una soggettività coraggiosa, da rispettare. Se aumentano, vuol dire che gli effetti materiali e la coscienza della globalizzazione crescono. Se va da sé che i capitali e chi li possiede possono incontrollatamente circolare da uno stato e un continente all'altro, perché uomini e donne non proprietari non lo potrebbero fare? Per non disturbare quel quinto del pianeta che si pasce delle ricchezze, prodotte anche negli altri quattro quinti? Una volta di più l'occidente è in contraddizione con le idee che proclama. Fa ridere che si agiti una carta dei diritti umani, mentre si armano le frontiere per impedire l'ingresso dei dannati della terra. Non nascondiamoci dietro lo scandalo degli scafisti: questo si recide d'un colpo se riprendono i traghetti normali. Ma non riprendono perché non si vogliono i migranti. Ora i casi sono due: se lo stato nazionale consente spostamenti di acquisti e vendite delle proprietà e dei mezzi di produzione delle nazioni, in nome di quale principio esso vieta l'arrivo della forza di lavoro diretta e indiretta e delle masse di sia pur poveri consumatori che ne costituiscono sia la manodopera, sia una fetta del mercato? Se invece gli stati nazionali ancora esistono come comunità di diritti, in nome di quale principio negano l'asilo a chi viene da paesi dove gli stessi diritti non sono garantiti? Così è dei kurdi che arrivano in Italia da Turchia e Iraq. Ad essi sono negate le condizioni di una autonomia anche parziale, eppure sono una grande nazione, più estesa di molte nazioni europee. Non dovrebbe un kurdo aver automaticamente diritto d'asilo? Vorremmo che Giuliano Amato ci spiegasse perché no. Il ministro Bianco, che vuol concertare con il governo turco come meglio impedire l'uscita dei kurdi, e il presidente dell'antimafia Lumia che vuole sparare sugli scafisti in modo da alzarne le tariffe, somigliano agli alleati che impedirono l'accesso agli ebrei ben oltre l'inizio della guerra. E non si dica, ma la Turchia non propone per i kurdi la soluzione finale, la straordinarietà dell'Olocausto non rende accettabile tutto quello che non ne raggiunge l'efferatezza. E di più: come si può sostenere, come si va facendo e come il ministro degli esteri Dini ha assicurato, l'ammissione nell'Unione europea della Turchia, se non riconosce i diritti politici che nell'Unione generalmente valgono? E' vero che finora la Ue non è molto di più di un perimetro monetario, economico e di polizia, ma non si va giusto parlando d 'una sua Costituzione? Quali discriminanti vi farebbero ammettere la Turchia? Se per essere democratico basta tenere delle elezioni, perché si sanziona Haider? Non è stato eletto? E quando la Turchia entrasse in Europa, dove potranno rifugiarsi i kurdi? Da nessuna parte, si presume: quando mai riconosceremmo perseguitati politici tedeschi? D'altra parte che cosa di diverso fa il governo turco con i kurdi, che non abbia fatto Milosevic con il Kosovo? Ma alla Turchia non si dichiara guerra, dio e gli Stati Uniti volendo, e ne siamo ben lieti. Ma il diritto d'asilo ai kurdi va dato senza dilazioni e va aperto non solo in sede governativa il problema della Turchia. Noi italiani abbiamo già sulla coscienza la consegna di Ocalan. Non è ammissibile che questioni di tale portata siano trattate da un ministro degli esteri senza alcuna consultazione né popolare né parlamentare. Sono diritti che toccano la coscienza civile e individuale e spossessarne i cittadini non è l'ultima ragione del loro estraniarsi dalla politica. Ma questo è ancora una seconda questione. intanto, finché chiuderemo le frontiere alle duplici vittime di una repressione politica e dei meccanismi selvaggi della globalizzazione, saremo responsabili del traffico e financo dell'assassinio sulle strade dei migranti. E' ipocrita gettarne l'obbrobrio su chi ne approfitta quando costruiamo le condizioni per profittarne. 7. MAESTRE. AUNG SAN SUU KYI: FRA IL DIALOGO E LA DEVASTAZIONE ESTREMA [Da Aung San Suu Kyi, Libera dalla paura, Sperling & Kupfer, Milano, 1996, 1999, p. 281] In Sudafrica, nemici un tempo accaniti lavorano ora assieme per migliorare le condizioni del popolo. Perche' non dovremmo augurarci un processo analogo? Dobbiamo scegliere fra il dialogo e la devastazione estrema. Voglio credere che l'istinto umano di sopravvivenza da solo, se non altro, ci condurra' tutti a preferire il dialogo. 8. MAESTRE. HILDEGARD GOSS MAYR: UN PROVERBIO [Da Gerard Houver, Jean e Hildegard Goss: la nonviolenza e' la vita, Cittadella, Assisi 1984, p. 119] Gli yogi hanno un proverbio che dice: "Quando l'allievo e' pronto, il maestro arriva". Mi rendo conto che, detto cosi', puo' sembrare una scappatoia. Ma ne' Jean, ne' io abbiamo mai visto un amico "toccato" dalla nonviolenza che non abbia trovato la sua strada; ma a una condizione, che e' evidente: quella di impegnarsi, cioe' che, in un modo o nell'altro, il suo essere abbia preso "corpo": cio' che e' avvenuto in lui e' diventato visibile a tutti. Le forme dell'impegno sono diverse quanto sono diversi gli uomini che le assumono e nessuno puo', dall'esterno, imporre un impegno a un altro. 9. MAESTRE. GIULIANA MARTIRANI: LE VERE CATTEDRALI [Da Giuliana Martirani, La geografia come educazione allo sviluppo e alla pace, Edizioni Dehoniane, Napoli 1984, 1985, p. 29] ... le loro vere cattedrali sono costruite all'interno del cuore umano. 10. MAESTRE. FRANCA ONGARO BASAGLIA: LE REGOLE DELLA CONVIVENZA CIVILE [Da Franca Ongaro Basaglia, Salute/malattia, Einaudi, Torino 1982, p. 134] Le regole della convivenza civile hanno senso per chi di questa convivenza fa parte, per chi trova in esse almeno una parziale risposta ai propri bisogni. Ma per coloro che in queste regole trovano solo la conferma alla propria esclusione, esse rappresentano il linguaggio dell'oppressione e della violenza. 11. LETTURE. LUIGI BONANATE: LA GUERRA Luigi Bonanate, La guerra, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 158, lire 14.000. Una nitida sintesi scritta dall'illustre docente di Relazioni internazionali. Una lettura introduttiva assai opportuna per chiunque voglia impegnarsi per la pace. 12. LETTURE. FRANCESCO CAPRIGLIONE: ETICA DELLA FINANZA E FINANZA ETICA Francesco Capriglione, Etica della finanza e finanza etica, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 224, lire 35.000. L'autore, gia' avvocato della Banca d'Italia, e' docente di Diritto bancario all'Universita' di Pisa. Un utile contributo alla discussione, da porre a confronto con altri approcci. 13. LETTURE. ANDREA CECCONI (A CURA DI): ERNESTO BALDUCCI. CINQUANT'ANNI DI ATTIVITA' Andrea Cecconi (a cura di), Ernesto Balducci. Cinquant'anni di attivita', Libreria Chiari, Firenze 1996, pp. 346, lire 38.000. Un libro assai bello, con un ampio ed intenso profilo della vita e della riflessione di padre Balducci, un'imponente documentazione fotografica, una piccola ma preziosa antologia, e quindi una vasta, fondamentale bibliografia. 14. RILETTURE. GIORGIO COLLI: LA RAGIONE ERRABONDA Giorgio Colli, La ragione errabonda, Adelphi, Milano 1982, pp. 672. I quaderni di appunti del grande pensatore scomparso nel 1979, di straordinaria ricchezza e profondita'. 15. RILETTURE. SERGIO PIRO: LE TECNICHE DELLA LIBERAZIONE Sergio Piro, Le tecniche della liberazione, Feltrinelli, Milano 1971, 1976, pp. 192. Un testo appassionante di concreta riflessione di uno dei protagonisti dell'esperienza teorica e pratica di psichiatria democratica. 16. RILETTURE. FRANCO VENTURI: LA LOTTA PER LA LIBERTA' Franco Venturi, La lotta per la liberta', Einaudi, Torino 1996, pp. 504, lire 32.000. Un'ampia raccolta di scritti politici del grande militante antifascista ed illustre storico scomparso nel 1994. Con due saggi introduttivi di Vittorio Foa ed Alessandro Galante Garrone. 17. INIZIATIVE DI PACE DI OGGI [Ovviamente le iniziative di pace di seguito segnalate sono quelle di cui siamo venuti a conoscenza e che ci sembrano caratterizzate da due scelte precise: I. la nonviolenza; e II. la difesa dei diritti umani, del diritto internazionale, della legalita' costituzionale] Lunedi 26 novembre - a Buti: Claude Anshin Thomas (monaco zen, gia' militare statunitense reduce della guerra del Vietnam, approdato all'impegno di solidarieta', per la pace e la nonviolenza) condurra' da lunedi 26 a giovedi 29 un ritiro zen di consapevolezza. Per informazioni: tel. 0587724677. - a Genova: alle ore 14,30 in salita della fava greca 8, apertura del centro su scuola e nuove culture. - a Genova: ore 21, ARCI Mascherona, Salita Mascherona 16, incontro con Pedro Ortega (segretario generale Federazione Tessile, Pellame e Calzature del Nicaragua). Info: itanica at iol.it - a Massa Lombarda: alle ore 20,45 alla Sala Facchini, dibattito con "Carta", Gavci e Rete di Lilliput. - a Modena: la Rete di Lilliput organizza un incontro per la pace. - a Prato: piazza S. Maria delle Carceri a Prato ospita la tenda di Abramo, presso la quale sosteranno i diciassette digiunatori che aderiscono alla proposta lanciata da Pax Christi e Beati i Costruttori di Pace. - a Roma: alle ore 20,30 all'Universita' La Sapienza film sull'Afghanistan. - a Trieste: alle ore 18 in via Trento 8, incontro con Cristina Serra sulle biotecnologie. - A Verona: in via Duomo 18 incontro per la pace con Pax Christi e le Donne in nero. - a Viterbo: alle ore 21,30 presso il circolo Arci "Il mulino" incontro della Rete no global. 18. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 19. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ; per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben at libero.it ; angelaebeppe at libero.it ; mir at peacelink.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 300 del 26 novembre 2001
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