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pc: Scambi più difficili
- Subject: pc: Scambi più difficili
- From: "Arianna Editrice" <arianed at tin.it>
- Date: Fri, 16 Nov 2001 10:23:30 +0100
America sotto scacco Superpotenza addio Secondo il celebre sociologo Immanuel Wallerstein, gli Stati Uniti sono in declino e Bin Laden è un nemico lucido di Wlodek Goldkorn - da New York Tra pochi mesi la guerra in corso diventerà un incubo. Il nostro governo e i nostri alleati saranno scontenti, e così anche il popolo americano. Qualcuno arriverà a proporre di buttare un'atomica da qualche parte... Parole di Immanuel Wallerstein, 71 anni, sociologo di formazione, di fatto un maître-à-penser considerato l'erede del celebre storico Fernand Braudel. Wallerstein insegna alla Binghamton University di New Haven, nel Connecticut. Autore di libri fondamentali, il suo è uno sguardo da studioso che si occupa di cicli storici lunghissimi e del sorgere e tramontare delle civiltà. Seduto su una scomoda sedia nel suo minuscolo e spartano ufficio, esprime le sue preoccupazioni per il conflitto che vede da un lato una superpotenza "in declino" e che non capisce di esserlo, e dall'altro un nemico sfuggente ma lucido come Osama Bin Laden. Sta prospettando uno scenario apocalittico. «Quante volte George W. Bush e i suoi hanno insistito che il nemico non è l'Islam? Infinite. Ciò nonostante nel mondo musulmano nessuno crede che sia così. Ogni bomba americana che cade sull'Afghanistan è vista nei paesi islamici come un atto ostile nei confronti di tutti i musulmani. Mentre gli americani vedono il conflitto come una battaglia tra un gruppo di gente che rappresenta il Male, ma che è debole militarmente, e una superpotenza che sta dalla parte del Bene e che sicuramente vincerà, come ripete il presidente. Il problema è che una volta introdotto questo linguaggio, Bush non ha più vie di scampo. Dovrà mostrare di aver sconfitto il Male. Io non sono sicuro che sarà così». Perché? «La guerra è un fatto geopolitico. E sconfiggere il Male oltrepassa le possibilità geopolitiche degli Stati Uniti. Voglio dire: Bin Laden ha una strategia lucida. Il suo, più che fondamentalismo e quello che in arabo si chiama Islam politico. L'obiettivo immediato è abbattere diversi governi nel mondo musulmano. In particolare quelli della Arabia Saudita e del Pakistan. Se gli riuscisse sarebbe una rivoluzione geostrategica. Temo che la nostra pubblica opinione non capisca quanto la guerra che stiamo conducendo sia pericolosa da questo punto di vista». Sta dicendo che mentre Bin Laden ragiona in termini geopolitici, Bush usa il linguaggio fondamentalista del Bene contro il Male? «Bush usa un linguaggio americano. Il presidente pensa che se gli Stati Uniti non riescono a imporsi nel mondo, ciò è dovuto solo alla mancanza di volontà di potere. E quindi che basta dimostrare una tale volontà per vincere. Ma questo era vero fino a quindici, vent'anni fa. Oggi non lo è più». L'America è pur sempre la sola superpotenza.. «In declino da vent'anni. Vede, durante tutto il periodo della Guerra fredda nessuno ha mai osato sfidare gli Stati Uniti seriamente. E sa perché? Eravamo una potenza egemonica. La forza militare arriva al suo apice quando non c'è bisogno di usarla. Contrariamente a quanto sta avvenendo in questo momento. Già undici anni fa ci sfidò Saddam Hussein, e lo fece proprio perché la Guerra fredda era finita. Oggi un personaggio come Bin Laden è stato capace di dichiararci la guerra. E ci saranno altri conflitti. Ognuno con il suo prezzo: in denaro e in vite umane». Quali sono le ragioni del declino dell'egemonia americana? «Prima di tutto è un fatto economico. Sono anni che la nostra produttività non è superiore al resto del mondo. Abbiamo dei competitori economici serissimi: l'Europa occidentale e il Giappone. E voi europei avete un vantaggio su di noi. O meglio, noi abbiamo un handicap rispetto a voi: abbiamo troppi manager che prendono troppi soldi e che di conseguenza rendono la nostra economia meno redditizia e meno produttiva. Sono i compensi degli amministratori delegati e dei presidenti delle grandi compagnie a minare fino alle sue fondamenta l'economia americana. Questo stato di cose ha conseguenze profonde». Quali? «Questa è gente molto influente. Per difendere i loro guadagni sono disposti a tutto. Anche a erigere barriere commerciali e porre fine alla globalizzazione». La globalizzazione è dunque al suo termine? «Nei primi anni Novanta avevo detto che la parola globalizzazione sarebbe stato in uso per una decina di anni. Mi sembra di essere stato un buon profeta. E poi c'è il fattore recessione. Che insieme alla competitività accresciuta del Giappone e dell'Europa porterà gli Usa a introdurre politiche commerciali protezionistiche». Che futuro vede per gli Stati Uniti? «L'11 settembre il popolo degli Stati Uniti è entrato a far parte del mondo reale. Ha scoperto che la vita non è sicura, cosa che fino ad allora gli americani hanno ignorato. Ciò che invece continuano a non capire è che siccome l'azione compiuta dagli uomini di Bin Laden ha mostrato tutti i limiti della potenza Usa, dobbiamo imparare a vedere il mondo con occhi diversi. Ma sarà difficile. Ci abbiamo messo trent'anni per capire di essere una superpotenza ora impiegheremo altri trenta per capire che non lo siamo più». 08.11.2001 Frontiere Grande freddo tra Usa e Canada C'era chi voleva abolire la frontiera. Ma dopo l'11 settembre la diffidenza degli Stati Uniti è cresciuta. Anche nei confronti dei "cugini" del nord di Maurizio Matteuzzi -Espresso Sembra che il ministro degli esteri canadese, John Manley, non perda una puntata - impegni politici permettendo - di "The West Wing", la serie televisiva della Nbc sulla Casa Bianca, interpretata da Martin Sheen nel ruolo del presidente e premiata il 5 novembre a Los Angeles con otto Emmy, gli Oscar della Tv. Ma pare anche che né Manley né i suoi concittadini canadesi abbiano gradito per niente una delle ultime puntate in cui un sospetto terrorista entra negli Stati Uniti dal Canada. In questo modo gli americani "continuano a diffondere falsi luoghi comuni". «È vero che dei simpatizzanti terroristi hanno operato in Canada», ha detto il ministro degli esteri, «ma esattamente come è accaduto negli Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e in un mucchio di altri paesi». Ma, «al contrario di quello che credevano in molti, nessuno degli attentatori dell'11 settembre veniva dal Canada». Manley ha fatto anche notare che i «criminali in arrivo dagli Stati Uniti» arrestati in Canada sono mediamente il 50 per cento in più dei «criminali in arrivo dal Canada» arrestati negli Usa. Sta di fatto che l'effetto bin Laden ha colpito e si fa sentire non solo al confine meridionale degli Stati Uniti - con la blindatura dei 3200 chilometri comuni con il Messico - e, più a sud, alla triplice frontiera fra Brasile, Argentina e Paraguay. I tentacoli della piovra bin Laden allungano la loro ombra anche sugli 8500 chilometri di frontiera fra Stati Uniti e Canada. Che, legati (insieme al Messico) dal Nafta, "condividono la più estese relazioni bilaterali al mondo", quantificate da Manley nei 200 milioni di persone che attraversano ogni anno il confine e nei 1300 milioni di dollari di commerci al giorno. Ma dopo l'11 settembre non è più così. Dal giorno in cui "il mondo è cambiato" il traffico commerciale sul Peace Bridge fra Buffalo, New York, e Fort Erie, Ontario, è caduto del 15 per cento rispetto ai livelli dell'anno prima, quando 6000 tir passavano sul Ponte della Pace ogni giorno trasportando merci per 700 milioni di dollari la settimana. Dall'11 settembre gli Stati Uniti hanno aumentato il personale e stretto i controlli lungo gli 8500 chilometri di frontiera e i suoi punti di transito. Ciò che forse è utile per la guerra al terrorismo ma che certo è un disastro per il mercato. Un disastro contro cui si levano anche autorevoli voci negli Usa. «La guerra sta andando male. Non la guerra in Afghanistan, ma è chiaro che la guerra sull'altro fronte - a casa - presenta dei problemi», ha scritto per esempio l'editorialista principe del settimanale "Newsweek", Fareed Zakaria. E spiega che «l'attuale strategia dell'America sul fronte interno è incompatibile con un'avanzata economia di libero mercato: una delle due dovrà cambiare». Anche Zakaria fa l'esempio di un ponte, l'Ambassador Bridge fra Detroit, Michigan, e Windsor, Ontario. «Che è la più trafficata frontiera commerciale del mondo. O lo era». Perché l'anno scorso da quel ponte ogni giorno entravano negli Stati Uniti 5000 tir e i controlli medi per ciascuno di loro non superavano i due minuti. Dopo l'11 settembre il tempo medio per ogni tir è di tre ore. «Se l'America non apre gli occhi sulle ispezioni di frontiera, l'economia nazionale potrebbe andare incontro alla paralisi completa», conclude "Newsweek". Le possibilità di abolire del tutto la frontiera fra Stati Uniti e Canada, di cui in molti parlavano prima dell'11 settembre, appare ora del tutto irrealistica. «Il confine deve restare», dice anche Manley, ma i due paesi nordamericani devono concordare misure che garantiscano «una frontiera sicura e tuttavia pienamente funzionante». Misure che includano una politica comune dei visti, una migliore scambio di informazioni e l'uso di tecnologie avanzate che facilitino l'intercettazione di criminali e terroristi ma che rendano più facile per le persone fare business in entrambi i paesi.
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