pc: Scambi più difficili



America sotto scacco
Superpotenza addio
Secondo il celebre sociologo Immanuel Wallerstein, gli Stati Uniti sono in
declino e Bin Laden è un nemico lucido

di Wlodek Goldkorn - da New York


  Tra pochi mesi la guerra in corso diventerà un incubo. Il nostro governo e
i nostri alleati saranno scontenti, e così anche il popolo americano.
Qualcuno arriverà a proporre di buttare un'atomica da qualche parte...
Parole di Immanuel Wallerstein, 71 anni, sociologo di formazione, di fatto
un maître-à-penser considerato l'erede del celebre storico Fernand Braudel.
Wallerstein insegna alla Binghamton University di New Haven, nel
Connecticut. Autore di libri fondamentali, il suo è uno sguardo da studioso
che si occupa di cicli storici lunghissimi e del sorgere e tramontare delle
civiltà. Seduto su una scomoda sedia nel suo minuscolo e spartano ufficio,
esprime le sue preoccupazioni per il conflitto che vede da un lato una
superpotenza "in declino" e che non capisce di esserlo, e dall'altro un
nemico sfuggente ma lucido come Osama Bin Laden.



Sta prospettando uno scenario apocalittico.


«Quante volte George W. Bush e i suoi hanno insistito che il nemico non è
l'Islam? Infinite. Ciò nonostante nel mondo musulmano nessuno crede che sia
così. Ogni bomba americana che cade sull'Afghanistan è vista nei paesi
islamici come un atto ostile nei confronti di tutti i musulmani. Mentre gli
americani vedono il conflitto come una battaglia tra un gruppo di gente che
rappresenta il Male, ma che è debole militarmente, e una superpotenza che
sta dalla parte del Bene e che sicuramente vincerà, come ripete il
presidente. Il problema è che una volta introdotto questo linguaggio, Bush
non ha più vie di scampo. Dovrà mostrare di aver sconfitto il Male. Io non
sono sicuro che sarà così».

Perché?

«La guerra è un fatto geopolitico. E sconfiggere il Male oltrepassa le
possibilità geopolitiche degli Stati Uniti. Voglio dire: Bin Laden ha una
strategia lucida. Il suo, più che fondamentalismo e quello che in arabo si
chiama Islam politico. L'obiettivo immediato è abbattere diversi governi nel
mondo musulmano. In particolare quelli della Arabia Saudita e del Pakistan.
Se gli riuscisse sarebbe una rivoluzione geostrategica. Temo che la nostra
pubblica opinione non capisca quanto la guerra che stiamo conducendo sia
pericolosa da questo punto di vista».

Sta dicendo che mentre Bin Laden ragiona in termini geopolitici, Bush usa il
linguaggio fondamentalista del Bene contro il Male?

«Bush usa un linguaggio americano. Il presidente pensa che se gli Stati
Uniti non riescono a imporsi nel mondo, ciò è dovuto solo alla mancanza di
volontà di potere. E quindi che basta dimostrare una tale volontà per
vincere. Ma questo era vero fino a quindici, vent'anni fa. Oggi non lo è
più».

L'America è pur sempre la sola superpotenza..

«In declino da vent'anni. Vede, durante tutto il periodo della Guerra fredda
nessuno ha mai osato sfidare gli Stati Uniti seriamente. E sa perché?
Eravamo una potenza egemonica. La forza militare arriva al suo apice quando
non c'è bisogno di usarla. Contrariamente a quanto sta avvenendo in questo
momento. Già undici anni fa ci sfidò Saddam Hussein, e lo fece proprio
perché la Guerra fredda era finita. Oggi un personaggio come Bin Laden è
stato capace di dichiararci la guerra. E ci saranno altri conflitti. Ognuno
con il suo prezzo: in denaro e in vite umane».

Quali sono le ragioni del declino dell'egemonia americana?

«Prima di tutto è un fatto economico. Sono anni che la nostra produttività
non è superiore al resto del mondo. Abbiamo dei competitori economici
serissimi: l'Europa occidentale e il Giappone. E voi europei avete un
vantaggio su di noi. O meglio, noi abbiamo un handicap rispetto a voi:
abbiamo troppi manager che prendono troppi soldi e che di conseguenza
rendono la nostra economia meno redditizia e meno produttiva. Sono i
compensi degli amministratori delegati e dei presidenti delle grandi
compagnie a minare fino alle sue fondamenta l'economia americana. Questo
stato di cose ha conseguenze profonde».

Quali?

«Questa è gente molto influente. Per difendere i loro guadagni sono disposti
a tutto. Anche a erigere barriere commerciali e porre fine alla
globalizzazione».

La globalizzazione è dunque al suo termine?

«Nei primi anni Novanta avevo detto che la parola globalizzazione sarebbe
stato in uso per una decina di anni. Mi sembra di essere stato un buon
profeta. E poi c'è il fattore recessione. Che insieme alla competitività
accresciuta del Giappone e dell'Europa porterà gli Usa a introdurre
politiche commerciali protezionistiche».

Che futuro vede per gli Stati Uniti?

«L'11 settembre il popolo degli Stati Uniti è entrato a far parte del mondo
reale. Ha scoperto che la vita non è sicura, cosa che fino ad allora gli
americani hanno ignorato. Ciò che invece continuano a non capire è che
siccome l'azione compiuta dagli uomini di Bin Laden ha mostrato tutti i
limiti della potenza Usa, dobbiamo imparare a vedere il mondo con occhi
diversi. Ma sarà difficile. Ci abbiamo messo trent'anni per capire di essere
una superpotenza ora impiegheremo altri trenta per capire che non lo siamo
più».



08.11.2001


Frontiere
Grande freddo tra Usa e Canada
C'era chi voleva abolire la frontiera. Ma dopo l'11 settembre la diffidenza
degli Stati Uniti è cresciuta. Anche nei confronti dei "cugini" del nord

di Maurizio Matteuzzi -Espresso

 Sembra che il ministro degli esteri canadese, John Manley, non perda una
puntata - impegni politici permettendo - di "The West Wing", la serie
televisiva della Nbc sulla Casa Bianca, interpretata da Martin Sheen nel
ruolo del presidente e premiata il 5 novembre a Los Angeles con otto Emmy,
gli Oscar della Tv. Ma pare anche che né Manley né i suoi concittadini
canadesi abbiano gradito per niente una delle ultime puntate in cui un
sospetto terrorista entra negli Stati Uniti dal Canada. In questo modo gli
americani "continuano a diffondere falsi luoghi comuni".

«È vero che dei simpatizzanti terroristi hanno operato in Canada», ha detto
il ministro degli esteri, «ma esattamente come è accaduto negli Stati Uniti,
Germania, Gran Bretagna e in un mucchio di altri paesi». Ma, «al contrario
di quello che credevano in molti, nessuno degli attentatori dell'11
settembre veniva dal Canada». Manley ha fatto anche notare che i «criminali
in arrivo dagli Stati Uniti» arrestati in Canada sono mediamente il 50 per
cento in più dei «criminali in arrivo dal Canada» arrestati negli Usa.

Sta di fatto che l'effetto bin Laden ha colpito e si fa sentire non solo al
confine meridionale degli Stati Uniti - con la blindatura dei 3200
chilometri comuni con il Messico - e, più a sud, alla triplice frontiera fra
Brasile, Argentina e Paraguay. I tentacoli della piovra bin Laden allungano
la loro ombra anche sugli 8500 chilometri di frontiera fra Stati Uniti e
Canada. Che, legati (insieme al Messico) dal Nafta, "condividono la più
estese relazioni bilaterali al mondo", quantificate da Manley nei 200
milioni di persone che attraversano ogni anno il confine e nei 1300 milioni
di dollari di commerci al giorno.

Ma dopo l'11 settembre non è più così. Dal giorno in cui "il mondo è
cambiato" il traffico commerciale sul Peace Bridge fra Buffalo, New York, e
Fort Erie, Ontario, è caduto del 15 per cento rispetto ai livelli dell'anno
prima, quando 6000 tir passavano sul Ponte della Pace ogni giorno
trasportando merci per 700 milioni di dollari la settimana. Dall'11
settembre gli Stati Uniti hanno aumentato il personale e stretto i controlli
lungo gli 8500 chilometri di frontiera e i suoi punti di transito. Ciò che
forse è utile per la guerra al terrorismo ma che certo è un disastro per il
mercato.

Un disastro contro cui si levano anche autorevoli voci negli Usa. «La guerra
sta andando male. Non la guerra in Afghanistan, ma è chiaro che la guerra
sull'altro fronte - a casa - presenta dei problemi», ha scritto per esempio
l'editorialista principe del settimanale "Newsweek", Fareed Zakaria. E
spiega che «l'attuale strategia dell'America sul fronte interno è
incompatibile con un'avanzata economia di libero mercato: una delle due
dovrà cambiare». Anche Zakaria fa l'esempio di un ponte, l'Ambassador Bridge
fra Detroit, Michigan, e Windsor, Ontario. «Che è la più trafficata
frontiera commerciale del mondo. O lo era». Perché l'anno scorso da quel
ponte ogni giorno entravano negli Stati Uniti 5000 tir e i controlli medi
per ciascuno di loro non superavano i due minuti. Dopo l'11 settembre il
tempo medio per ogni tir è di tre ore. «Se l'America non apre gli occhi
sulle ispezioni di frontiera, l'economia nazionale potrebbe andare incontro
alla paralisi completa», conclude "Newsweek".

Le possibilità di abolire del tutto la frontiera fra Stati Uniti e Canada,
di cui in molti parlavano prima dell'11 settembre, appare ora del tutto
irrealistica. «Il confine deve restare», dice anche Manley, ma i due paesi
nordamericani devono concordare misure che garantiscano «una frontiera
sicura e tuttavia pienamente funzionante». Misure che includano una politica
comune dei visti, una migliore scambio di informazioni e l'uso di tecnologie
avanzate che facilitino l'intercettazione di criminali e terroristi ma che
rendano più facile per le persone fare business in entrambi i paesi.