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Gli aquiloni di Peshawar
- Subject: Gli aquiloni di Peshawar
- From: "Forum delle Donne" <forumdonne.prc at rifondazione.it> (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Thu, 15 Nov 2001 01:32:34 +0100
Gli aquiloni di Peshawar Elettra Deiana Il burqua è una copertura totale, una sorta di tenda circolare e sigillata montata sul corpo di una donna. Una fatwa dei Taleban ne rende obbligatorio l'uso fuori di casa e le donne che non si attengono rigidamente all'imposizione rischiano pene terribili e infamanti. Il re Zahir Shah, sul trono dal 1933 al 1973, anno in cui venne deposto da un colpo di Stato di militari filosovietici, abolì l'obbligo del burqua. E' anche per questa ragione non secondaria che le attiviste della RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) e molte intellettuali afghane impegnate in esilio nella resistenza contro il regime di Kabul, considerano positivamente, sia pure tra molti distinguo, il fatto che all'ex re ormai in età assai avanzata sia dato l'incarico di condurre la fase della transizione post bellica. Al di là dell'ingombro e del fastidio che l'obbligo del burqua arreca all'esistenza quotidiana delle donne, il significato simbolico di questo abbigliamento è inequivocabile, così denso di suggestioni e riferimenti a una rappresentazione del mondo dominata da una concezione patriarcale misogina fino all'annientamento del genere femminile. Cosa che nell'Afganistan dei Taleban non è soltanto una metafora ma la condizione materiale in cui è vissuta, e continua a vivere anche sotto le bombe occidentali, la parte femminile della società afghana. Il burqua visualizza in modo estremo quella segregazione femminile che, in forme più o meno accentuate, più o meno misogine e sessuofobiche, ha segnato la storia dei sistemi sociali di tipo patriarcale. Il confinamento delle donne in spazi separati, in luoghi domestici e privati, sottratti alla vista esterna, la rigida divisione degli spazi interni da quelli esterni, del "dentro" e del "fuori" della vita sociale e dunque la divisione sessuale dei ruoli, il controllo maschile sui corpi femminili, la riduzione di quei corpi a macchine fattrici di progenie maschili: a tutto questo allude il burqua. In Afghanistan le donne sono sempre prigioniere, murate e rese invisibili nelle loro case, che devono avere le finestre oscurate. Gli uomini che non provvedono adeguatamente a questo sono puniti. Il burqua porta all'esterno la prigionia del "dentro", è esso stesso un "dentro" estremo e totale, una forma di cancellazione simbolica che traumatizza e ferisce l'umanità femminile. Ma, malgrado tutto, in Afghanistan non l'ha affatto annientata. Molte donne in tutti questi anni, in condizione di clandestinità nel proprio Paese e a rischio continuo della propria vita nei campi profughi, sulla frontiera col Pakistan, hanno costruito reti di resistenza, rapporti di solidarietà con altre donne, canali di trasmissione di un pensiero critico e libero, rivolto in particolare alle bambine - il futuro di quel Paese martoriato. Queste donne rappresentano oggi, sia pure nella indubbia piccolezza numerica della loro esperienza, una delle parti più vive e dinamiche della società afghana. In particolare le donne appartenenti al gruppo politico RAWA, infaticabili attiviste della dignità e della libertà femminile, impegnate da anni in una durissima resistenza contro il fondamentalismo islamista e oggi in prima fila nel denunciare i danni disastrosi che la guerra occidentale produce sul piano materiale e su quello politico e culturale. In Afghanistan e nell'intera regione. Basti pensare all'impatto negativo che la guerra degli USA potrà avere su un'intera generazione di giovani maschi musulmani, in quella e in altre aree del mondo, sui processi di formazione della loro identità individuale e collettiva, in società ancora così segnate dalla preminenza del valore simbolico dell'essere maschi, del virilismo guerriero, della suggestione identitaria che l'appello islamista alla Jihad può suscitare di fronte a una guerra così violenta e disastrosa, così egualmente segnata da una speculare supponenza identitaria. Ci sono luoghi in cui la globalizzazione produce contraddizioni acute ed estreme, un intreccio, all'apparenza insensato, tra la potenza tecnologica insita nell'iper modernità in cui viviamo e l'oscuro, ancestrale potere patriarcale che si esercita sui corpi delle donne, sulle menti dei fanciulli, su tutte le più diverse consuetudini sociali. L'Afghanistan è un luogo veramente estremo, ai confini del mondo. Là le contraddizioni diventano esse stesse estreme, acuminate come punte di pugnale e investono brutalmente l'esistenza quotidiana di donne e di uomini. Anche di uomini, nelle pieghe più segrete, nei desideri più intimi. L'Afghanistan è abitato non soltanto da donne costrette a diventare invisibili nel burqua ma anche da uomini che non possono radersi o tagliarsi la barba e da bambini che non possono giocare con gli aquiloni. Una fatwa imposta dal regime di Kabul lo vieta e impone la chiusura di tutti i negozi che vendono aquiloni. Perché volano in alto nel cielo, assecondano e rappresentano aneliti di libertà, sogni infantili di felicità. E in Afghanistan non c'è posto per la felicità. Neanche per un'illusione di racchiusa nel piccolo volo di un aquilone. I Taleban dominano impugnando da veri guerrieri i kalashnicov d'ordinanza e ostentano barba e copricapi confezionati secondo la legge islamista. L'Islam, il Corano, la fede musulmana non hanno molto a che vedere con le fatwa islamiste di Kabul. Non più di quanto crociate e conversioni forzate ebbero a che vedere col Vangelo e la fede cristiana. Anche se va ricordata, ancora una volta, la fulminante critica femminista a tutte le grandi religioni monoteiste, fondate sulla "parola di Dio", sulla "rivelazione di Dio agli uomini" e perciò stesso a rischio di suggestioni fondamentaliste. Esse hanno infatti immanente il rischio della torsione integralista, del diventare strumento di potere nelle mani di gruppi di uomini che riescono ad arrogarsi il diritto esclusivo di parlare in nome del loro Dio per fini che con la fede non hanno niente o hanno poco a che vedere. Il fondamentalismo islamista è il frutto appunto di un processo di questo tipo, anch'esso però soprattutto un prodotto della modernizzazione e della globalizzazione. E' un'ideologia che si impossessa su molti piani della tradizione culturale e religiosa dell'Islam e la fa diventare un'arma micidiale al servizio di progetti politici, strategie di egemonia, tattiche di controllo del territorio di gruppi e élites che mirano a impossessarsi del potere e competono per il potere. Basti pensare alla vicenda che ha insanguinato l'Algeria nel decennio che abbiamo alle spalle, ai proclami di guerra santa che si moltiplicano in Medio Oriente e non solo, alle convulsioni dinastiche che incombono in molti Paesi arabi. Foraggiato, alimentato, vezzeggiato dagli USA e dai servizi segreti occidentali al tempo della guerra fredda con l'URSS e dell'invasione sovietica dell'Afghanistan, il fondamentalismo islamista ha assunto oggi una propria autonomia politica e nei padrini di ieri ha individuato i nemici di oggi, nelle sofferenze planetarie prodotte dal mercato globale la fonte di legittimazione di tutte le proprie strategie e il camuffamento delle vere intenzioni che presiedono alle loro azioni terroristiche. La guerra spietata condotta dagli Stati Uniti e dal codazzo dei loro alleati contro l'Afganistan, i bombardamenti che uccidono la popolazione inerme e colpiscono obiettivi civili di fondamentale importanza per la sopravvivenza di donne e bambini potranno avere ragione del regime dei Taleban, far piazza pulita degli studenti guerrieri di Kabul, snidare il nemico numero uno (oggi) degli Stati Uniti, quell' Osama Bin Laden, che i Taleban proteggono e che ai Taleban ha offerto non pochi sostegni e aiuti di ogni tipo. Ma tutto ciò non significherà affatto il declino e men che meno la fine del fondamentalismo islamista, che rischia di diventare o - è già diventato - l'altra faccia del Nuovo Ordine Mondiale voluto dagli USA e dall'intero Occidente. Faccia non meno ripugnante e altrettanto pericolosa, un gigantesco ingombro frapposto ai processi di emancipazione e liberazione umana, un alibi per misure liberticide che potranno far regredire, in tutto il mondo, a cominciare da quell'Occidente che se ne fa vanto, ma dimentica di quante lotte e sofferenze sociali esse siano il frutto, la coscienza e le conquiste civili. In quella piccola parte di società afghana che abbiamo incontrato nella nostra missione in Pakistan, nei campi profughi nella zona di Peshawar, dove è radicata l'iniziativa di RAWA e di HAWCA (Humanitarian Assistance for the women and children of Afghanistan), una ong composta in maggioranza da profughe afghane, la parola e l'agire di molte donne fa ordine. Un ordine "altro", antitetico a quello imposto dal regime di Kabul, che scaturisce proprio dall'esistenza di indicibili contraddizioni di genere - tra la parte femminile e quella maschile dell'ordine sociale - e dalla scelta delle donne di porsi consapevolmente al centro di esse per cercare di risolverle a partire da sé e dalla solidarietà col proprio genere. Così nel Paese dove le donne sono costrette al silenzio più totale - una fatwa proibisce loro di indossare scarpe con i tacchi perché i Taleban non vogliono udirne il rumore - la parola di molte donne contro il regime risuona tagliente come una lama e produce nuovi luoghi mentali, nuovi spazi pratici di libertà e autonomia. Anche per gli uomini ovviamente, non pochi dei quali solidarizzano con le donne di RAWA e HAWCA e le aiutano a fondo nella loro impresa. O le appoggiano, come un mullah aperto al mondo, che è a capo del campo profughi di Nowshera e che ha permesso alla RAWA la costituzione di un'intera scuola femminile, contrassegnata, nella sobria povertà dei luoghi e dei mezzi a disposizione, da una passione femminile per l'apprendimento che lascia veramente di stucco. Nel loro rischioso aprire piccole scuole clandestine in case private in Afghanistan, nel battersi nei campi perché le famiglie permettano alla bambine di studiare, le donne hanno continuato a trasmettere la lingua, la cultura, la storia del proprio Paese, l'amore per il proprio Paese. Hanno compiuto opera di civilizzazione delle relazioni umane e sociali contro gli effetti devastanti della furia fondamentalista. E' poco ma è già moltissimo, il segno concreto di un altro mondo possibile, come il movimento no global va dicendo, dove le donne possono lasciare nell'armadio il burqua e le bambine hanno diritto a essere curate e a imparare, dove tra i sessi c'è solidarietà, scambio, rispetto. E dove i bambini e le bambine possono giocare con gli aquiloni. A Peshawar, una sera, il cielo ne era pieno e dalle terrazze piccole mani ne guidavano il volo. Allora ho capito il perché di quella fatwa che a leggerla mi era sembrata grottesca. Anche in Afghanistan i bambini giocano con gli aquiloni e inseguono i loro sogni. Che possano farlo in futuro dipende oggi molto dalle donne di quel Paese ma certo anche da quanto la volontà politica della parte pacifista dell'Occidente inciderà nelle dinamiche politiche di questa fase storica. Forum delle donne di Rifondazione comunista Viale del Policlinico 131 - CAP 00161 - Roma Tel. 06/44182204 Fax 06/44239490
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