IL SOLDATO DI VENTURA E IL MEDICO AFGHANO



IL SOLDATO DI VENTURA E IL MEDICO AFGHANO

 

Di Tiziano Terzani

Corriere della sera  31 ottobre 2001

 

 

PESHAWAR - Sono venuto in questa città di frontiera per essere più vicino
alla guerra, per cercare di vederla coi miei occhi, di farmene una ragione;
ma, come fossi saltato nella minestra per sapere se è salata o meno, ora ho
l'impressione di affogarci dentro. Mi sento andare a fondo nel mare di
follia umana che, con questa guerra, sembra non avere più limiti. Passano i
giorni, ma non mi scrollo di dosso l'angoscia: l'angoscia di prevedere quel
che succederà e di non poterlo evitare, l'angoscia di essere un
rappresentante della più moderna, più ricca, più sofisticata civiltà del
mondo ora impegnata a bombardare il Paese più primitivo e più povero della
Terra; l'angoscia di appartenere alla razza più grassa e più sazia ora
impegnata ad aggiungere nuovo dolore e miseria al già stracarico fardello
di disperazione della gente più magra e più affamata del pianeta. C'è
qualcosa di immorale, di sacrilego, ma anche di stupido - mi pare - in
tutto questo. A tre settimane dall'inizio dei bombardamenti anglo-americani
dell'Afghanistan la situazione mondiale è molto più tesa ed esplosiva di
quanto lo fosse prima. I rapporti fra israeliani e palestinesi sono in
fiamme, quelli fra Pakistan e India sono sul punto di rottura; l'intero
mondo islamico è in agitazione e ogni regime moderato di quel mondo,
dall'Egitto all'Uzbekistan, al Pakistan stesso, subisce la montante
pressione dei gruppi fondamentalisti.
Nonostante tutti i missili, le bombe e le operazioni segretissime dei
commandos , mostrateci in piccoli spezzoni del Pentagono, come per farci
credere che la guerra è solo un videogame, i talebani sono ancora
saldamente al potere, la simpatia nei loro confronti cresce all'interno
dell'Afghanistan, mentre diminuisce invece in ogni angolo del mondo il
senso della nostra sicurezza.
«Sei musulmano?», mi chiede un giovane quando mi fermo al bazar a mangiare
una focaccia di pane azzimo.
«No».
«Allora che ci fai qui? Presto vi ammazzeremo tutti».
Attorno tutti ridono. Sorrido anch'io.
Lo chiamano Kissa Qani, il «bazar dei raccontastorie». Ancora una ventina
d'anni fa, era uno degli ultimi, romantici crocevia dell'Asia pieno delle
più varie mercanzie e varie genti. Ora è una sorta di camera a gas con
l'aria irrespirabile per le esalazioni e le folle sempre più in mal arnese
a causa dei tantissimi rifugiati e mendicanti. Fra le vecchie storie che ci
si raccontavano c'era quella di Avitabile, un napoletano soldato di ventura
arrivato qui a metà dell'Ottocento con un amico di Modena e diventato
governatore di questa città. Per tenerla in pugno, ogni mattina all'ora di
colazione faceva impiccare un paio di ladri dal minareto più alto della
moschea e per decenni ai bambini di Peshawar è stato detto: «Se non sei
buono, ti do ad Avitabile». Oggi le storie che si raccontano al bazar sono
tutte sulla guerra americana.
Il soldato di ventura e il medico afghano.

Alcune, come quella secondo cui l'attacco a New York e Washington è stato
opera dei servizi segreti di Tel Aviv - per questo nessun israeliano
sarebbe andato a lavorare nelle Torri Gemelle l'11 settembre -, e quella
secondo cui l'antrace per posta è una operazione della Cia per preparare
psicologicamente gli americani a bombardare Saddam Hussein, sono già
vecchie, ma continuano a circolare e soprattutto a essere credute. L'ultima
è che gli americani si sarebbero resi conto che con le bombe non riescono a
piegare l'Afghanistan e hanno ora deciso di lanciare sacchi pieni di
dollari sulla gente. «Ogni missile costa due milioni di dollari. Ne hanno
già tirati più di cento. Pensa: se avessero dato a noi tutti quei soldi, i
talebani non sarebbero più al potere», dice un vecchio rifugiato afghano,
ex comandante di un gruppo di mujaheddin anti-sovietici, venuto a sedersi
accanto a me.
L'idea che gli americani son pieni di soldi e disposti a essere generosi
con chi sia disposto a schierarsi dalla loro parte è diffusissima. Giorni
fa alcune centinaia di capi religiosi e tribali della comunità afghana in
esilio si sono riuniti in un grande anfiteatro nel centro di Peshawar per
discutere del futuro dell'Afghanistan «dopo i talebani». Per ore e ore dei
bei, barbutissimi signori - ottimi per i primi piani delle televisioni
occidentali - si sono avvicendati al microfono a parlare di «pace e unità»,
ma nei loro discorsi non c'era alcuna passione, non c'era alcuna
convinzione. «Son qui solo per registrare il loro nome e cercare di
raccogliere fondi americani», diceva un vecchio amico, un intellettuale
pakistano, di origine pashtun come quella gente. «Ognuno guarda l'altro
chiedendosi "e tu quanto hai già avuto?". Quel che gli americani
dimenticano è un nostro vecchio proverbio: un afghano si affitta, ma non si
compra».
Per gli americani la riunione di Peshawar era il primo importante passo per
quella che, sulla carta, pareva loro la ideale soluzione politica del
problema afghano: far tornare il re Zahir Shah, installare a Kabul un
governo in cui tutti fossero rappresentati - compresi alcuni capi talebani
moderati - e mandare l'esercito del nuovo regime a caccia degli uomini di
Al Qaeda, risparmiando così il lavoro e i rischi ai soldati della
coalizione.
Ma le soluzioni sulla carta non sempre funzionano sul terreno, specie
quando questo terreno è l'Afghanistan.
Già l'idea che il vecchio re del passato, in esilio a Roma da trent'anni,
possa ora giocare un ruolo nel futuro del paese è una illusione di chi
crede di poter rifare il mondo a tavolino, è una pretesa di quei
diplomatici che non escono dalle loro stanze ad aria condizionata. Basta
andare fra la gente per rendersi conto che il vecchio sovrano non gode di
quel prestigio che le cancellerie occidentali - specie quella italiana -
gli attribuiscono e che il suo non essersi mai fatto vedere, il suo non
aver mai visitato un campo di rifugiati viene preso come una indicazione di
indifferenza per la sofferenza del suo popolo. «Bastava che al tempo
dell'invasione sovietica si fosse fatto fotografare con un fucile in mano
ed avesse sparato un colpo in aria. Oggi lo rispetterebbero - dice l'amico
- ... e poi, poteva almeno l'anno scorso essere andato in pellegrinaggio
alla Mecca, il che, coi tempi che corrono, gli avrebbe dato un po' di
rilievo anche dal punto di vista religioso».
A parte il re, l'altro uomo su cui gli americani contavano per il loro
gioco era Abdul Haq, uno dei più prestigiosi comandanti della resistenza
anti-sovietica, tenutosi poi fuori dalla guerra civile che seguì. «Non è
qui. E' andato in Afghanistan» si diceva durante la conferenza di Peshawar,
alludendo ad una «missione» che sarebbe stata decisiva per il futuro.
L'idea ovvia era che Abdul Haq, col suo prestigio e il suo grande
ascendente sui tanti vecchi mujaheddin alleatisi coi talebani, avrebbe
staccato dal regime del Mullah Omar alcuni comandanti regionali e avrebbe
potuto marciare su Kabul alla testa di gruppi pashtun quando la capitale
fosse stata presa dalla Alleanza del Nord, che i pashtun ed i pakistani non
vogliono assolutamente vedere al potere.
La «missione» di Abdul Haq non è durata a lungo. I talebani lo hanno
seguito appena quello è entrato in Afghanistan, dopo alcuni giorni lo hanno
catturato e nel giro di poche ore lo hanno giustiziato come un «traditore»
assieme a due suoi seguaci. Gli americani con tutta la loro attrezzatura
elettronica ed i loro super-elicotteri non sono riusciti a salvarlo.
Il presupposto di tutta questa manovra americana per una soluzione politica
era comunque che il regime dei talebani si sfaldasse, che sotto la
pressione delle bombe cominciassero le defezioni e che nel paese si creasse
un vuoto di potere. Ma tutto questo non è successo. Anzi. Ogni indicazione
è che i talebani sono ancora fermamente in carica. Catturano giornalisti
occidentali che si avventurano oltre la frontiera e fanno sapere, per
scoraggiare altri tentativi, di non avere più spazio, né cibo per detenerne
altri. «Le varie inchieste sono in corso. Verranno tutti giudicati secondo
la sharia, la legge coranica», dicono, come farebbe un qualsiasi stato
sovrano. I talebani passano decreti, fanno comunicati per smentire notizie
false e continuano a sfidare la strapotenza americana non cedendo terreno e
promettendo morte agli afghani che si schierano con il nemico.
Non solo. Il fatto che i talebani siano ora attaccati da degli stranieri,
fa sì che anche chi aveva poca o nessuna simpatia per il loro regime, ora
si schiera dalla loro parte. «Quando un melone vede un altro melone, ne
prende il colore», dicono i pashtun. Dinanzi agli stranieri, visti di nuovo
come invasori, gli afghani diventano sempre più dello stesso colore.
Per gli americani, già sotto enorme pressione internazionale per la
stupidità delle loro bombe intelligenti che continuano a cadere su gente
inerme e di nuovo sui magazzini della Croce Rossa, la guerra aerea s'è
rivelata un completo fallimento, quella politica uno smacco.
Avevano cominciato la campagna afghana dicendo di volere Osama Bin Laden,
«vivo o morto», e hanno presto ripiegato sul voler catturare o uccidere il
Mullah Omar, capo dei talebani, sperando che questo avrebbe fatto vacillare
il regime, ma finora quel che son riusciti a fare, oltre a qualche
centinaio di vittime civili, è terrorizzare la popolazione delle città già
ridotte a macerie. Le Nazioni Unite calcolano che le bombe hanno fatto
fuggire da Kandahar, Kabul e Jalalabad il 75% degli abitanti.
Questo vuol dire che almeno un milione e mezzo di persone sono ora senza
tetto, si aggirano nelle montagne del paese e si aggiungono ai sei milioni
che, sempre secondo le Nazioni Unite, erano già «a rischio» per mancanza di
cibo e protezione prima dell'11 settembre.
Il soldato di ventura e il medico afghano

 «Quelli sono gli innocenti di cui dobbiamo occuparci - dice un funzionario
internazionale -. Quelli che non hanno nulla a che fare col terrorismo,
quelli che non leggono i giornali, che non guardano la Cnn. Molti di loro
non sanno neppure che cosa è successo alle Torri Gemelle».
Quel che tutti sanno invece è che bombe, le bombe che giorno e notte
distruggono, uccidono e scuotono la terra come in un costante terremoto, le
bombe sganciate dagli aerei d'argento che piroettano nel cielo di
lapislazzulo dell'Afghanistan, sono bombe inglesi e americane e questo
coagula l'odio dei pashtun, degli afghani e più in generale dei musulmani
contro gli stranieri. Ogni giorno di più l'ostilità è ovvia sulla faccia
della gente.
Ero andato al bazar perché volevo vedere quanti avrebbero partecipato alla
manifestazione pro-talebani che si tiene di routine nella vecchia Peshawar
dopo la preghiera di mezzo giorno, ma l'amico pashtun mi aveva avvertito
che il numero dei dimostranti non vuol dire ormai nulla. «I duri non
marciano più, si arruolano. Vai nei villaggi», m'aveva detto.
L'ho fatto e per un giorno e una notte, in compagnia di due studenti
universitari che in quella regione sembrava conoscessero tutti e tutto, ho
gettato uno sguardo su un mondo la cui distanza dal nostro non è misurabile
in chilometri, ma in secoli: un mondo che dobbiamo capire a fondo se
vogliamo evitare la catastrofe che ci sta davanti.
La regione in cui sono stato è a due ore di macchina da Peshawar, a mezza
strada dal confine afghano-pakistano. Per le popolazioni di qui la
frontiera - anche quella stabilita a tavolino oltre cento anni fa da un
funzionario inglese - non esiste.
Dall'una e dall'altra parte di quella innaturale divisione politica fra
identiche montagne vive un'identica gente: i pashtun (detti anche pathan)
che in Afghanistan sono la maggioranza, in Pakistan una minoranza. I
pashtun, prima che afghani o pakistani, si sentono pashtun e il sogno di un
Pashtunstan, uno stato che aggreghi tutti i pashtun non è mai completamente
tramontato. I pashtun sono i temuti guerrieri dell'Afghanistan; sono loro
che gli inglesi non riuscirono mai a sconfiggere. «Un pashtun ama il suo
fucile più di suo figlio - dicevano dei loro nemici gli ufficiali di Sua
Maestà -. Coraggiosi come leoni, selvaggi come gatti, ingenui come
bambini». I talebani sono pashtun e quasi esclusivamente pashtun sono le
zone in cui ora cadono le bombe americane. «Mio padre è sempre stato un
liberale e un moderato, ma dopo i bombardamenti anche lui parla come un
talebano e sostiene che non c'è alternativa alla jihad», diceva uno dei
miei studenti, mentre lasciavamo Peshawar.
La strada correva fra piantagioni di canna da zucchero. In lontananza le
prime montagne. Sui muri bianchi che dividono i campi, spiccavano grandi
slogan dipinti di fresco. «La jihad è il dovere della nazione», «Un amico
degli americani è un traditore», «La jihad durerà fino al giorno del
giudizio». Il più strano era: «Il profeta ha ordinato la jihad contro
l'India e l'America».
Il soldato di ventura e il medico afghano.

Nessuno qui si chiede se al tempo del Profeta, mille e quattrocento anni
fa, l'India e l'America esistessero già. Ma è appunto questa accecante
mistura di ignoranza e di fede a essere esplosiva ed a creare, attraverso
la più semplicistica e fondamentalista versione dell'Islam, quella
devozione alla guerra e alla morte con cui abbiamo deciso, forse un po'
troppo avventatamente, di venirci a confrontare.
«Quando uno dei nostri salta su una mina o viene dilaniato da una bomba,
prendiamo i pezzi che restano, i brandelli di carne, le ossa rotte,
mettiamo tutto nella stoffa di un turbante e seppelliamo quel fagotto lì,
nella terra. Noi sappiamo morire, ma gli americani? Gli inglesi? Sanno
morire così?». Dal fondo della stanza un altro uomo barbuto, ricordandosi
da dove, presentandomi, ho detto di venire, apre un giornale in Urdu e ad
alta voce legge una breve notizia in cui si dice che anche l'Italia si è
offerta di mandare navi e soldati e il mio interlocutore personalizza la
sua sfida: «...e voi italiani allora? Siete pronti a morire così? Perché
anche voi venite qui a uccidere la nostra gente, a distruggere le nostre
moschee? Che direste se noi venissimo a distruggere le vostre chiese, se
venissimo a radere al suolo il vostro Vaticano?». Siamo in una sorta di
rudimentalissimo ambulatorio in un villaggio a qualche decina di chilometri
dal confine afghano. Negli scaffali polverosi ci sono delle polverose
medicine; al muro una bandiera verde e nera con al centro un sole in cui è
scritto «Jihad». Attorno al «dottore» che mi parla si sono riuniti una
decina di giovani: alcuni sono veterani della guerra, altri ci stanno per
andare. Uno è appena tornato dal fronte e racconta dei bombardamenti.
Dice che gli americani sono codardi perché sparano dal cielo, scappano e
non osano combattere faccia a faccia. Dice che il Pakistan impedisce ai
profughi di entrare nel paese e che tanti civili, feriti nei bombardamenti
di Jalalabad, muoiono ora dall'altra parte del confine per mancanza delle
più semplici cure.
L'atmosfera è tesa. Qui, ancora più che al bazar, tutti sono assolutamente
convinti che quella in corso è una grande congiura-crociata dell'Occidente
per distruggere l'Islam, che l'Afghanistan è solo il primo obbiettivo e che
l'unico modo di resistere è per tutto il mondo islamico di rispondere
all'appello per la guerra santa. «Vengano pure gli americani, così ci
potremo procurare delle buone scarpe, togliendole ai cadaveri - dice uno
dei giovani - a voi la guerra costa tantissimo. A noi nulla. Non
sconfiggerete mai l'Islam».
Come non rendersi conto che per combattere il terrorismo siamo venuti a
uccidere innanzitutto degli innocenti e con ciò ad aizzare ancor più un
cane che giaceva? Come non vedere che abbiamo fatto un passo nella
direzione sbagliata, che siamo entrati in una palude di sabbie mobili e che
con ogni altro passo finiremo solo per allontanarci sempre di più dalla via
di uscita? Dopo la conversazione con i fanatici della jihad, quella fra me
e me è continuata per il resto della notte, passata insonne a tenermi
lontano le zanzare. Certo che non è invidiabile una società come quella che
produce dei ragazzi così ottusi e disposti a morire. Ma lo è forse la
nostra? Lo è quella americana? Che accanto agli eroici pompieri di
Manhattan, produce anche gente come il bombarolo di Oklahoma City, gli
attentatori alle cliniche abortiste e forse anche quelli che - il sospetto
cresce - mettono l'antrace nelle buste spedite a mezzo mondo? Quella su cui
avevo appena gettato uno sguardo era una società carica d'odio. Ma è da
meno la nostra che ora, per vendetta o magari davvero per mettere le mani
sulle riserve naturali dell'Asia Centrale, bombarda un paese che vent'anni
di guerra han già ridotto ad una immensa rovina? Possibile che per
proteggere il nostro modo di vivere, si debbano fare milioni di rifugiati,
si debbano far morire donne e bambini? Per favore, vuole spiegarmi qualcuno
esperto in definizioni, che differenza c'è fra l'innocenza di un bambino
morto nel World Trade Center e quella di uno morto sotto le bombe a Kabul?
La verità è che quelli di New York, sono i «nostri» bambini, quelli di
Kabul invece, come gli altri centomila bambini afgani che, secondo
l'Unicef, moriranno quest'inverno se non arrivano subito dei rifornimenti,
sono i bambini «loro». E quei bambini loro non ci interessano più. Non si
può ogni sera, all'ora di cena, vedere sullo schermo della tv di casa un
piccolo moccioso afghano che aspetta di avere una pagnotta. Lo si è già
visto tante volte; non fa più spettacolo. Anche a questa guerra ci siamo
già abituati. Non fa più notizia e i giornali richiamano i loro
corrispondenti, le televisioni riducono i loro staff, tagliano sui
collegamenti via satellite dai tetti degli alberghi a cinque stelle di
Islamabad. Il circo va altrove, cerca altre storie, l'attenzione è già
stata anche troppa.
Eppure l'Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della
nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità
di capire che la violenza genera solo violenza e che solo una forza di pace
e non la forza della armi può risolvere il problema che ci sta dinanzi.
«Le guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella mente degli
uomini che bisogna costruire la difesa della pace», dice il preambolo della
costituzione dell'Unesco. Perché non provare a cercare nelle nostre menti
una soluzione che non sia quella brutale e banale di altre bombe e di altri
morti? Abbiamo sviluppato una grande conoscenza, ma non appunto quella
della nostra mente, e ancor meno quella della nostra coscienza, mi dicevo
insonne tentando sempre di scacciare le zanzare.
La notte è fortunatamente breve. Alle quattro la voce metallica di un
altoparlante comincia a salmodiare dall'alto di un minareto vicino; altre
rispondono in lontananza. Partiamo.
Nella hall dell'albergo dove arrivo a fare colazione è già accesa la
televisione. La prima notizia, all'alba, non è più la guerra in
Afghanistan, ma l'annuncio fatto a Washington del «più grande contratto di
forniture belliche nella storia del mondo».
Il Pentagono ha deciso di affidare alla Lockheed Martin la costruzione
della nuova generazione di sofisticatissimi aerei da caccia: 3.000 pezzi
per un valore iniziale di 200 miliardi di dollari. Gli aerei entreranno in
funzione nel 2012.
Per bombardare chi? Mi chiedo. Penso ai ragazzini della madrassa che nel
2012 avranno giusto vent'anni e mi torna in mente una frase dell'invasato
«dottore»: «Se gli americani vogliono combatterci per quattro anni, noi
siamo pronti, se vogliono farlo per 40 anni siamo pronti. Per 400, siamo
pronti».
E noi ? Questo è davvero il momento di capire che la storia si ripete e che
ogni volta il prezzo sale.