pc: crisi americana delle esportazioni risolvibile con le spese militari



STATI UNITI
La "duratura" superpotenza dei debiti
MANLIO DINUCCI

Quale parte del mondo fa venire in mente la parola "debito"? Il "terzo
mondo", risponderanno i più. Sbagliato: quando si parla di debito, bisogna
pensare anzitutto agli Stati Uniti. La loro economia - la maggiore del
mondo - è anche la più indebitata: il debito complessivo, in crescita, ha
superato i 18.800 miliardi di dollari, oltre il doppio del Prodotto lordo.
Il debito del settore privato non-finanziario ha superato i 10.000 miliardi;
quello pubblico, i 5.800, più del doppio dell'intero debito estero dei paesi
in via di sviluppo e di quelli dell'Europa orientale ed ex Urss.
Alimenta il debito il crescente saldo negativo della bilancia commerciale:
nel 2000, gli Stati uniti hanno esportato merci e servizi commerciali per
1.056 miliardi di dollari, ma ne hanno importati per 1.457, con un passivo
di 401 miliardi.
Gli Usa consumano più di quanto producano e a ciò si aggiunge al peso
negativo che la produzione estera dei loro gruppi transnazionali esercita
sulla bilancia commerciale, quando viene importata negli Usa. In tal modo,
però, i 37 gruppi transnazionali Usa, facenti parte dei cento maggiori del
mondo, si sono accaparrati nel 2000 oltre il 50% dei profitti complessivi
dei cento. E' in rosso anche la bilancia dei pagamenti (che, oltre alle
transazioni commerciali, comprende i movimenti di capitali): nel 2000 ha
registrato un saldo negativo di circa 450 miliardi di dollari.
Ma come fa "la locomotiva dell'economia mondiale" a reggere questo enorme
deficit? Attraverso il flusso di investimenti provenienti dal resto del
mondo, sotto forma di acquisto negli Usa di titoli di stato, di obbligazioni
emesse da enti pubblici e società private, di azioni e altri tipi di
investimento.
Secondo la U.S. Trade Deficit Commission il valore delle attività straniere
negli Usa supera di 2.000 miliardi di dollari quello delle attività Usa
all'estero. E' questo flusso di capitali stranieri investiti nel paese che,
facendo crescere la domanda di dollari sul mercato valutario, mantiene alta
la quotazione del dollaro, controbilanciandone la tendenza al ribasso dovuta
al fatto che gli Usa, per pagare le importazioni, immettono sul mercato
internazionale più dollari di quelli necessari agli altri paesi per pagare
le importazioni di merci e servizi statunitensi.
Che cosa attira i capitali stranieri negli Usa? Non solo i profitti.
Soprattutto chi effettua grossi investimenti a lungo termine lo fa nella
convinzione che gli Stati uniti sono la "potenza globale", decisa a
sostenere i propri interessi anche con la forza militare. La superpotenza
statunitense - il cui cuore pulsante è il complesso militare-industriale -
ha quindi necessità organica della guerra, non solo per ridimensionare
potenze regionali in ascesa e controllare aree strategiche come quella
petrolifera Caspio-Golfo. Ne ha necessità per riaffermare supremazia e
quindi affidabilità agli occhi dei grossi investitori che, portando i loro
capitali negli Usa, ne finanziano il deficit.
Ciò è ancora più necessario nei periodi di crisi, come quella che ha
investito - non dopo, ma prima dell'11 settembre - l'economia Usa. Tra i
fattori che l'hanno determinata vi è l'eccesso di capacità produttiva, in
rapporto a un mercato interno e internazionale ridottosi per effetto della
crisi finanziaria globale che ha colpito anche le classi medie. La
"locomotiva dell'economia mondiale" ha rallentato fino quasi a fermarsi: nel
primo semestre 2001, il suo tasso di crescita è sceso allo 0,3%; la
produzione industriale è calata di quasi il 5% rispetto al 2000; i
licenziamenti per crisi, soprattutto in settori tecnologicamente avanzati,
hanno superato i 770mila. "Già prima dell'11 settembre - scrive The
Washington Post (9 ottobre 2001) - era chiaro che gli Stati Uniti stavano
subendo un forte rallentamento economico e che l'espansione avrebbe potuto
giungere alla fine".
La crisi ha inciso sui flussi di investimenti esteri diretti: quelli in
uscita dagli Usa sono calati, rispetto al totale dei paesi sviluppati, dal
15% nel 1999 al 13% nel 2000, mentre quelli dell'Unione europea, pur
scendendo dal 76% al 74%, sono rimasti cinque volte superiori. Sono calati
anche i flussi in entrata negli Usa: dal 35,5% al 28%, mentre quelli nella
Ue sono saliti dal 56% al 61,5% (Unctad, World Investment Report 2001). Ciò
rivelava un calo di fiducia degli investitori internazionali nell'economia
statunitense, e quindi una diminuita capacità degli Usa di finanziare il
proprio deficit con i capitali esteri. Sintomo molto pericoloso, indice di
una diminuita competitività economica degli Usa soprattutto nei confronti
della Ue, il cui Pnl ha ormai raggiunto quello statunitense.
La guerra ha permesso all'amministrazione Bush di varare un piano a lungo
termine per ridare fiato all'economia: il 24 ottobre, il congresso ha
approvato un primo pacchetto di aiuti per l'ammontare di 110 miliardi di
dollari, 70 dei quali vanno ai maggiori gruppi economici sotto forma di
riduzione di tasse. A fare la parte del leone sono la Ibm, la General
Motors, la General Electric e poche altre società. Il resto va a settori
sociali benestanti, per aumentarne i consumi, e solo in piccola parte a
programmi che i singoli stati dovrebbero varare per i disoccupati in forte
crescita, anche perché molte aziende hanno approfittato dell'11 settembre
per effettuare riduzioni di personale già programmate.
Questa massiccia iniezione di denaro pubblico, effettuata dallo Stato nelle
casse dei maggiori gruppi economici privati, infrange il sacro dogma del
liberismo, che Washington pretende sia osservato da tutti gli altri paesi,
cioè che lo stato non deve intervenire nella vita economica del paese per
avvantaggiare i gruppi economici nazionali. Contemporaneamente, con la
guerra, lo stato Usa sostiene gli interessi di questi gruppi in una
regione - l'Asia - di enorme importanza economica e strategica. E, per
accrescere la propria forza militare, inietta dosi ancora più massicce di
denaro pubblico nelle industrie belliche private. La Lockheed Martin
riceverà dal Pentagono oltre 200 miliardi di dollari (434.600 miliardi di
lire) per costruire 3.000 caccia Joint Strike, cui si dovrebbero aggiungere
altri 200 miliardi come prevendite a paesi alleati e contratti di
manutenzione. Ci sono quindi buone speranze che la "locomotiva dell'economia
mondiale" possa ricominciare a correre con le sue ruote cingolate.


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Infondato l'ottimismo su una rapida ripresa
di Alfonso Tuor

La più lunga espansione della storia americana è finita. La conferma
ufficiale è venuta mercoledí scorso con l'annuncio di una contrazione dello
0,4% del Pil statunitense nel terzo trimestre. Ma la recessione è molto
probabilmente già cominciata in primavera. Infatti le prossime revisioni al
ribasso di questo dato faranno emergere che l'economia statunitense è già
caduta in recessione nel secondo trimestre di quest'anno (per il momento, in
base all'ultima revisione l'economia americana è ancora cresciuta dello 0,3%
nel secondo trimestre). Tutto ciò conferma che l'attacco terroristico agli
Stati Uniti ha semplicemente accelerato una frenata dell'economia americana
in realtà determinata dal crollo del Nasdaq iniziato nella primavera dell'
anno scorso. Ma paradossalmente, queste notizie sono state ben accolte dai
mercati finanziari che temevano una contrazione maggiore del Pil
statunitense e hanno quindi rafforzato la convinzione degli analisti che
questa recessione sarà lieve e di breve durata. Wall Street scommette
infatti che i primi segnali di ripresa si manifesteranno nel primo semestre
dell'anno prossimo e che nella seconda metà dell'anno l'economia americana
riprenderà a correre grazie alla cura da cavallo della Federal Reserve e
dell'amministrazione Bush. Purtroppo, queste previsioni ottimistiche
rischiano di rivelarsi errate e l'economia mondiale rischia di venire
risucchiata nel vortice della peggiore recessione di questo dopoguerra.
Questa facile previsione si fonda sulla lettura della situazione attuale non
distorta dai paraocchi di coloro che devono vendere prodotti, come gli
analisti finanziari, o si sentono deputati a diffondere ottimismo, come gli
economisti degli istituti di ricerca e delle organizzazioni internazionali.

Il primo motivo di pessimismo è frutto dell'analisi del boom americano degli
anni Novanta. Questo periodo di grande euforia si è fondato su tre grandi
ingredienti. Un rally della Borsa, che ha favorito un'esplosione degli
investimenti, un aumento esponenziale dell'indebitamento di famiglie e
società e una forte crescita del debito estero statunitense. Questi
squilibri non si risolvono in pochi mesi, nonostante i forti tagli dei tassi
di interesse e la riduzione delle tasse. Notoriamente, la voce degli
investimenti delle imprese è quella più sensibile all'evoluzione del ciclo
economico. Ma le decisioni di investimento si basano essenzialmente su due
fattori: i vantaggi in termini di redditività (dovuti a una riduzione dei
costi di produzione ottenuta grazie a nuovi investimenti) e sulle
prospettive del mercato. Oggi, dato che l'uso delle capacità produttive è
sceso al 75,5%, ossia a livelli mai più registrati dal 1983, è difficile
immaginare una ripresa degli investimenti se non per tenere il passo della
concorrenza e della tendenza al ribasso dei prezzi di vendita.
Questa previsione viene confermata dal fatto che, nonostante i tagli dei
tassi operati dalla Federal Reserve, le condizioni delle società americane
si sono notevolmente deteriorate. In primo luogo, il fortissimo calo degli
utili ha ridotto la capacità delle società di autofinanziare gli
investimenti, rendendo ancor più le società americane dipendenti dai
finanziamenti esterni. E il costo di questi finanziamenti non è
assolutamente diminuito. Infatti, i tassi dei corporate bonds e dei crediti
bancari per le società che possono vantare dei buoni ratings di solvibilità
sono diminuiti di poco, mentre i mercati dei capitali e il sistema bancario
americano si sono pressoché chiusi alle società che presentano rischi di
solvibilità. Dunque, la politica monetaria ha scarsi effetti in queste
condizioni. E non si capisce quali motivi dovrebbero spingere le società
americane ad aumentare il volume dei loro investimenti, dato che alla
contrazione del mercato interno si aggiunge una diminuzione delle
esportazioni a causa del forte rallentamento dell'economia europea e a causa
della sempre più grave crisi del Giappone e di molti paesi emergenti. Se non
sono gli investimenti, se non è la domanda estera, ossia le esportazioni
americane verso il resto del mondo, a poter innescare la ripresa restano i
consumi. Le famiglie americane potrebbero essere indotte a riprendere a
spendere «a più non posso» dalla riduzione del costo del denaro, che riduce
l'onere degli interessi sui loro debiti ipotecari e/o di altra natura, e
dagli alleggerimenti fiscali che decurtano meno i loro redditi. Ma anche
questa è solo una speranza. Le famiglie americane fortemente indebitate e la
cui fiducia è scossa dal moltiplicarsi degli annunci di migliaia di
licenziamenti e dal clima di incertezza e di paura creato dall'attacco
terroristico dell'11 settembre stanno reagendo come indicano i manuali:
usano i maggiori mezzi finanziari messi a loro disposizione da Bush e
Greenspan per risparmiare e non per spendere. La conferma è venuta proprio
ieri dal dato sul tasso di risparmio delle famiglie americane, che fino a
poco tempo fa era addirittura negativo (ossia le famiglie consumavano più di
quanto guadagnavano) e che è salito al 4,1% in agosto e al 4,7% in
settembre. Quindi, è molto poco probabile che le famiglie americane si
mettano a spendere a tal punto da far uscire l'economia americana dalle
secche della recessione. Questo compito potrebbe però essere assolto dalla
politica fiscale. L'amministrazione Bush sta infatti cercando di far
approvare dal Congresso un pacchetto di misure di rilancio, il cui valore
complessivo si aggira attorno all'1,5% del Pil. Ora, come ha scritto il
settimanale «The Economist», queste misure sono cosí mal concepite che
produrranno scarsi risultati. Infatti, «si concentrano troppo su sgravi
fiscali permanenti alle società, quando si sa che per provocare un rialzo
degli investimenti gli sgravi devono essere solo temporanei. Gli sgravi per
le famiglie, continua il giornale britannico, vanno soprattutto a beneficio
dei ricchi, che useranno questi fondi per risparmiare; mentre gli sgravi
fiscali per i ceti medi e bassi sono solo temporanei (e si sa che solo un
taglio fiscale duraturo cambia il comportamento economico delle famiglie)».
Dunque, anche il pacchetto fiscale di Bush, che deve essere ancora approvato
dal Senato, contiene più fumo che arrosto.

In conclusione, non si capisce l'ottimismo di economisti e analisti
finanziari che prevedono una forte crescita dell'economia americana nella
seconda metà dell'anno prossimo. Questo ottimismo appare fondato sul nulla,
anche perché incombono, sempre più minacciosi, nuovi e gravi rischi. Essi
vanno dall'esplosione di una nuova crisi dei mercati emergenti, provocata da
una dichiarazione di insolvenza dell'agonizzante economia argentina, a un
aggravarsi della crisi giapponese, a un ulteriore deterioramento della
situazione politica internazionale fino a un nuovo attacco terroristico. In
realtà, la recessione è destinata ad essere lunga e dolorosa, poiché si
dovranno risanare tutti gli squilibri e spurgare tutte le follie prodotti
dal boom della seconda metà degli anni Novanta.
© 1999-2001 Corriere del Ticino.


<<Per la maggior parte degli analisti sono solo due le possibili buone
notizie a breve: il decimo taglio ai tassi di interesse in un anno da parte
di Alan Grenspan, atteso per i prossimi giorni, e il varo del pacchetto di
interventi economici statali per oltre 200.000 miliardi di lire. Iniezioni
di liquidità nelle banche e, quindi, per le imprese. E poi un mega-piano di
spesa per un aereo da combattimento (gara vinta dalla Lockheed). Basterà
questo per far riprendere il malato?
Per il momento la spina dorsale dell'economia americana è ancora costituita
dai consumi, che rappresentano i due terzi del totale. Gli stessi che in
settembre, secondo dati diffusi ieri, hanno fatto registrare un calo
dell'1,8%: il più grave dal "grande crollo" del 1987. Cosa sta succedendo?
Prova a rispondere Daniel Berry, analista di Merrill Lynch: "Tra i
consumatori si è diffusa una mentalità da bunker: selezionano gli acquisti e
spendono meno liberamente". L'immagine viene confermata da un altro dato: a
settembre i redditi personali (salari, rendite e sussidi governativi)
risultano stabili, mentre i consumi sono calati. Una ritrovata propensione
al risparmio potrebbe far bene agli Usa (il paese più indebitato del mondo),
ma farebbe cadere buona parte del commercio mondiale, States compresi.
Coperta corta, comunque la si tiri.
La "mentalità da bunker" è il peggio che possa accadere a un'economia votata
all'espansione perenne dei consumi e della crescita. E la scelta della
"guerra infinita" operata da Bush non fa che esaltarla. In questo quadro di
massima incertezza le formule note, ripetute un po' da tutti - economisti e
governanti - non è detto che funzionino. Ma Wall Street è costretta a
sperarci. >>
(FRANCESCO PICCIONI)


WTO - <<L'ostacolo maggiore alla liberalizzazione del mercato potrebbe non
essere più la contrarietà o la riluttanza dei paesi in via di sviluppo,
bensì la stessa economia globale, che sta avendo una contrazione molto
rapida dovuta precisamente all'accelerazione della reciproca dipendenza
delle economie, dipendenza determinata dalla globalizzazione e dalla
liberalizzazione.
Sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, probabilmente
qualunque passo significativo verso una ulteriore liberalizzazione sarà
ostacolato dalle pressioni miranti a salvaguardare le industrie interne, a
puntare sulla crescita legata alla domanda interna, e a contrastare la
vulnerabilità delle economie basate sulle esportazioni in un momento di
profonda recessione globale. Il quarto vertice potrebbe rivelarsi l'"ultimo
hurrah" del Wto e del progetto di globalizzazione economica radicale di cui
esso è stato la punta di diamante.>>
(Walden Bello)