La nonviolenza e' in cammino. 258



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 258 del 14 ottobre 2001

Sommario di questo numero:
1. Riccardo Orioles, la parola guerra
2. Mao Valpiana, da Perugia ad Assisi
3. Benito D'Ippolito, la storia e il varco
4. Intervista a Mathilde Mwamini
5. Acli, Agesci ed altri: Perugia-Assisi: non marciateci sopra
6. Opera Nomadi: no alla guerra
7. Gruppo Abele: pace e' il contrario di guerra
8. Simone Weil, per quanto strano possa sembrare...
9. Guenther Anders: tesi sull'eta' atomica
10. Peppe Sini, una piccola coda
11. La Carta del Movimento Nonviolento
12. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. RICCARDO ORIOLES: LA PAROLA GUERRA
[Riccardo Orioles, che e' stato il principale collaboratore
dell'indimenticabile Pippo Fava, e' il piu' grande giornalista italiano
vivente. Ha un solo difetto: e' anche il piu' onesto. Per contatti:
ricc at libero.it]
La parola guerra.
Non riesco ad aggiungere una parola.

2. RIFLESSIONE. MAO VALPIANA: DA PERUGIA AD ASSISI
[Mao Valpiana e' il direttore di "Azione nonviolenta", il mensile del
Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini. Per contatti: e-mail:
azionenonviolenta at sis.it; sito: www.nonviolenti.org]
Siamo tutti americani. Siamo tutti afghani.
Il 24 settembre del 1961, Aldo Capitini - filosofo antifascista, pioniere
della nonviolenza in Italia, fondatore del Movimento Nonviolento - promosse
la prima grande marcia per la pace da Perugia ad Assisi.
Capitini era laico, libero religioso come lui stesso si definiva, ma volle
concludere la marcia ad Assisi proprio come omaggio a Francesco "che e'
santo per tutti", il santo della nonviolenza, il santo che ando' disarmato
alle crociate, che studio' il Corano, che volle incontrare il sultano, che
diede una dimensione politica al comandamento "ama i tuoi nemici".
Capitini ideo' quella marcia in un momento internazionale difficile, di
forte contrapposizione Est-Ovest, con lo spettro dell'olocausto atomico, per
unire le masse popolari italiane, cattolici e comunisti, laici e religiosi,
nel comune desiderio di pace per il mondo. Al generico pacifismo, Capitini
volle aggiungere l'ideale superiore della nonviolenza.
Quella marcia, guardata con sospetto dai partiti, fu un successo.
Capitini stesso scrisse:
"La Marcia e' stata una manifestazione "dal basso", che ne ha cominciate
tante altre. Con l'unione stabilita tra i pacifisti e le moltitudini
popolari, si e' presentato un metodo di lavoro non piu' minaccioso di
violenza, e nello stesso tempo si e' avviata un'unita' che e' la massima che
si puo' stabilire in Italia: quella nel nome della pace.
Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e
passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un
proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarieta' che
suscita e nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, e'
un grande risultato della Marcia.
Non dico che tutto sia chiaro e acquisito, ma e' certo che ora ci sono
larghi gruppi di italiani che sentono che la nonviolenza ha una sua parola
da dire.
Con l'aggiunta della nonviolenza all'opposizione abbiamo dato vita a un
fermento intemo, ad uno scrupolo, ad un'autocritica; il risultato sara' che
metteremo sempre meglio in luce ed isoleremo i gruppi reazionari, i loro
sforzi crudeli e vani nel mondo, la loro irreligiosa difesa di una societa'
sbagliata.
Tanto piu' dopo gravissime denunce del pericolo di una distruzione atomica,
l'impostazione di un altro metodo di lotta, quello nonviolento che mantiene
il dialogo, la liberta' di informazione e di critica e non distrugge gli
avversari, diventa urgente; ed io credo che anche nelle scuole bisognera'
insegnare il valore e le tecniche del metodo nonviolento.
La resistenza alla guerra diventa oggi tema dominante, perfino con
riferimenti teorici, filosofici, religiosi".
Sono passati quarant'anni, e quella marcia si ripete il 14 ottobre 2001 in
un momento buio e cupo per l'umanita'. Le contraddizioni sono tra Nord e Sud
del pianeta; il dialogo e la comprensione tra i popoli sembra aver lasciato
spazio solo al terrorismo e alla guerra. C'e' quindi bisogno, oggi come
ieri, di una forte presa di coscienza: solo la pace garantira' un futuro per
tutti.
Ma come si arriva alla pace? Attraverso la guerra o attraverso la
nonviolenza?
Gia' troppe volte l'umanita' ha conosciuto guerre che dovevano porre fine ad
altre guerre, una volta per tutte. Si era detto "mai piu' Auschwitz", "mai
piu' Hiroshima", e poi abbiamo conosciuto nuove Auschwitz e nuove Hiroshima.
Nessuna guerra e' mai riuscita in verita' ad evitare nuove guerre. Cosi' e'
stato per la prima e la seconda guerra mondiale. Ci vorra' la terza guerra
mondiale perche' l'umanita' accetti la lezione della nonviolenza?
Molti profeti ci hanno gia' avvisato: "O nonviolenza, o non esistenza".
Si pensi agli unici veri progressi dell'umanita' nel secolo scorso, che sono
venuti da atti di pace, non di guerra: la fine del colonialismo in India,
grazie alla nonviolenza di Gandhi; la fine dell'apartheid in Sudafrica,
grazie al dialogo di Mandela; l'abbattimento del Muro di Berlino, grazie ai
popoli disarmati dell'est. Per contro, dove violenza ha chiamato violenza le
situazioni si sono incancrenite: in Medio Oriente, nei Balcani, in Irlanda,
nell'Africa centrale.
La violenza e' una spirale che va spezzata, e ciascuno di noi e' chiamato a
compiere il proprio atto di nonviolenza. "A ognuno di fare qualcosa" era il
motto della marcia del 1981. Vent'anni fa, e forse abbiamo fatto troppo
poco. Ora e' il momento di indicare, specialmente ai giovani, la via della
nonviolenza: la "perfetta letizia", come diceva Francesco d'Assisi.
La marcia di quest'anno sara' difficile. Non certo per i 27 chilometri che
si snodano fra le dolci colline umbre, ma per il clima politico nel quale si
svolge. I partiti, senza piu' capacita' di dialogo con i giovani, tenteranno
di cavalcarla; i capetti del movimento antiglobalizzazione, dopo essere
caduti nella trappola di Genova, tenteranno di appropriarsene per rifarsi
una verginita' perduta; il governo tentera' di demonizzarla o
ridicolizzarla; gruppi esagitati estranei al pacifismo tenteranno di
rovinarla, magari tirando qualche sasso (non avendo idee da lanciare) o
bruciando la bandiera americana (non avendo amore per cui ardere).
La marcia dell'anno scorso volle inaugurare il nuovo secolo con il motto
"Mai piu' eserciti e guerre": e' una sfida che oggi diventa urgente. Tanta
gente, in tutto il mondo, si e' lasciata alle spalle le vecchie ideologie
per abbracciare la proposta nonviolenta. Sono coloro che l'11 settembre si
sono sentiti tutti americani, e che oggi si sentono tutti afghani. Stare
dalla parte delle vittime, di chi subisce violenza, per trovare con loro la
forza, il coraggio, l'amore per rispondere con la nonviolenza, l'unica
strada capace di spezzare la spirale di morte che il mondo sembra voler
percorrere.
La Perugia-Assisi e' una marcia di popolo, e' la marcia di tutti. Sara'
difficile per i guastafeste rovinare un'idea che cammina da quarant'anni.

3. RIFLESSIONE. BENITO D'IPPOLITO: LA STORIA E IL VARCO

- Ecco, guarda, questo e' il tuo mondo, questa e' la tua storia

Ruggiscono i lupi volanti
spargono gemme di fiamma e di sangue.
E questa e' la storia di ieri e di oggi.

- Ecco, lo vedi, questo e' il tuo mondo, e questa e' la tua storia

Nelle loro impeccabili marsine
invitano al ballo, alla macabra danza
i signori dei libri, dei libretti
degli assegni, delle bombe, delle forti
dentature al riso ratte ed al morso.
E questa e' la storia di oggi, la storia di stanotte.

- Eccolo, eccolo il tuo mondo, la tua storia, li riconosci?

Schiere infinite di donne e di uomini
che sembrano stracci, che sembrano larve diafane
tanto la fame, le frustate, gli scorpioni
li hanno corrosi, le schiere infinite
in questo lucente, algente, rovente, tenebroso deserto.

- Li riconosci, ti riconosci dunque?

E nella cittadella degli oppressori
i complici degli oppressori, la servitu'
degli oppressori, degli oppressori
gli armigeri e i parassiti.

- Capisci cosa dico, tu che sbraiti, lo vedi
che questo ancipite mostro e' uno specchio?

Ma ho sentito di uno che al fascismo
infinito seppe opporre il suo diniego
non di rabbia ma di amore infinito.
In cammino so che lo ritrovero'
oggi qui come volto e parola.
E questo e' il varco, il varco della storia.

- Ecco, lo vedi, il varco, il varco e' qui

4. MATERIALI. INTERVISTA A MATHILDE MWAMINI
[Mathilde Mwamini e' presidente del Coordinamento Donne del Sud-Kivu
(Repubblica Democratica del Congo). Questa intervista, come molte altre ai
protagonisti della quarta assemblea dell'Onu dei popoli svoltasi a Perugia
in preparazione della marcia Perugia-Assisi, si trova su "Peacelink news",
nel sito pacifista www.peacelink.it]
Mathilde Mwamini, della Repubblica Democratica del Congo, e' la direttrice
del Centro Olame e Presidente del Coordinamento delle Donne del Sud-Kivu.
Questa regione orientale del Congo, in guerra dal '96, e' occupata
dall'esercito rwandese, che appoggia un gruppo ribelle fantoccio. Il
coordinamento e' una piattaforma che riunisce svariate associazioni della
societa' civile di Bukavu. Il coordinamento lotta per la pace, la democrazia
e lo sviluppo del popolo congolese. Perche', dice Mathilde, lo sviluppo non
si puo' realizzare senza la pace.
Domanda: Cos'e' la Piattaforma delle Donne?
Risposta: Un insieme di organizzazioni, che comprende la componente
femminile della societa' civile. Per esempio le rappresentanti delle varie
religioni (protestanti, cattolici, kimbamgisti e musulmani), ma anche altri
settori, come le associazioni laiche, le ong, le funzionarie dello stato, le
giuriste e le studentesse. Esiste un ufficio di coordinamento, di cui fanno
parte membri di ogni associazione che permette la comunicazione con la base.
Domanda: Quali mezzi utilizzate per la vostra lotta?
Risposta: La nonviolenza pratica.
siamo in un paese che ha soffeto 35 anni di dittatura (Mobutu), che ha fatto
maturare una reazione, un'idea di governo piu' democratico. La societa'
civile del Sud-Kivu si e' organizzata a partire dalla Conferenza nazionale
sovrana ('90-'92), nella quale c'e' stata un'analisi della nostra storia.
Anche le donne hanno iniziato a organizzarsi in quell'epoca.
La societa' civile e' subito diventata attiva per denunciare. Abbiamo fatto
dei documenti, che abbiamo presentato alle autorita' locali, per denunciare
il loro modo di dirigere. Denuciare le violazioni che si commettevano da
parte dei militari e dei servizi segreti.
Noi, le donne, abbiamo fatto la nostra organizzazione per chiedere alle
autorita' di cessare le violazioni ai nostri danni. Noi portiamo il peso
della famiglia, e siamo noi che dobbiamo pagare tasse, pedaggi, subiamo
violenze.
Abbiamo organizzato anche delle giornate, degli incontri di riflessione,
delle marce per chiedere la pace, delle conferenze in cui invitiamo le
autorita' per dare il nostro punto di vista su come ci governano. Oggi (con
l'occupazione straniera - ndr) e' ancora piu' difficile.
La societa' civile si e' guadagnata la fiducia del popolo, ma il governo di
Kinshasa non controlla piu' l'est del paese. Qui i governatori che ci sono
dipendono dai loro alleati, rwandesi  o ugandesi. E sono gli stranieri che
hanno l'ultima parola, sono piu' lontani dalla popolazione congolese. La
societa' civile e' rimasta l'unica voce della gente.
Siamo sempre in lotta ma anche in dialogo con le autorita'. Hanno arrestato
molti nostri membri, ma con l'appoggio della societa' civile europea, che fa
pressioni, informa l'opinione internazionale, le autorita' locali sono
spinte a dialogare e spesso a liberare gli attivisti.
Domanda: Pensa che con i metodi nonviolenti si possa liberare il Congo
dall'occupazione straniera?
Penso che fondamentale e' l'educazione civica e ai diritti. E' quello che
stiamo facendo.
Educare la popolazione ai diritti umani e a quelli internazionali. Se
conosciamo i nostri diritti, e i trattati ratificati dal paese, riusciremo a
realizzare le istituzioni democratiche. Siamo noi congolesi che dobbiamo
vivere i valori democratici. Questa forza dall'interno del paese, aiutata
dagli amici dell'estero, puo' far cambiare le cose. In ogni modo le armi non
aiuteranno nessuno.
Siamo in guerra da sei anni e non facciamo che andare indietro. Non c'e' un
vero governo, c'e' banditismo. Ma paradossalmente piu' il popolo soffre,
piu' e' facile fargli prendere coscienza delle proprie responsabilita'. Cosa
fare? Capire che l'avvenire e' nelle nostre mani.
Domanda: Con l'appoggio internazionale?
Risposta: Si'. Sono contenta che qui all'assemblea di Perugia si metta in
discussione il sistema delle Nazioni Unite. Sento in questi giorni di
discussione che il nostro paese non e' il solo che soffre perche' le
risoluzioni firmate non sono mai applicate. A cosa serve ingannare la gente?
Fare le risoluzioni senza misure di applicazione e' come dare una caramella
a un bambino che ha fame: non risolviamo il suo problema. Sono certe potenze
che hanno l'Onu in mano, che quindi non e' libera, non ha i mezzi che
occorrono per seguire le risoluzioni. Allora a cosa serve? Poniamoci la
domanda tutti insieme. Non funziona, ci sono due pesi e due misure. Da un
giorno all'altro il Consiglio di sicurezza si riunisce e prende la decisione
e due giorni dopo c'e' l'applicazione. Ma altri paesi possono aspettare.
E aspettando noi educhiamo la gente alla nonviolenza. Ma non e' facile,
perche' e' nel cuore dell'uomo che si trova la pace, ma e' anche nel cuore
che comincia l'odio. Non dobbiamo essere sempre pronti a riparare dei vasi
rotti. Evitiamo che si rompano.
Domanda: E' la prima volta che venite all'Assemblea dell'Onu dei Popoli?
Risposta: Si'. Trovo molto interessante che siano le persone che parlano. I
governati e non i governanti.
Sono stata alla cinquantasettesima sessione dei Diritti umani a Ginevra in
aprile. Erano i dirigenti che parlavano. Le associazione e le ong, possono
dare un'informazione oggettiva, ma i dirigenti, quando parlano dei loro
paesi, non possono accusarsi. Ho visto come le risoluzioni sono prese in
quell'assemblea: sono sempre influenzate dalle grandi alleanze
internazionali. Non importa il tipo o il peso della risoluzione. Questo
rende le risoluzioni ipotetiche, non reali.
Qui siamo liberi, non ci sono degli interessi economici o politici, ma e' la
vita della gente che interessa.
Domanda: Dove si puo' arrivare con queste Assemblee?
Risposta: Noi popoli abbiamo il potere, e' questione di prendere coscienza
di questa forza. E che siamo cittadini dei paesi e abbiamo qualcosa da dire
sulle istituzioni internazionali. Possiamo quindi far pressione sui nostri
governi ma anche su queste istituzioni, perche' il nostro punto di vista sia
preso in considerazione. Quello che viviamo nel Sud-Kivu come societa'
civile, possiamo realizzarlo a livello di popoli, nel mondo.
Un'altra cosa importante e' quando la gente puo' incontrarsi e scambiare le
idee. Quelli che hanno i media possono giocare sulla visione del mondo,
mentre per tutti quelli la cui voce non e' ascoltata, la verita' non e'
conosciuta. Se possiamo incontrarci, possiamo capire le realta' degli altri
e anche prevalere sui media, per un'informazione oggettiva. Perche' quelli
che gestiscono il mondo e vogliono mantenere il loro posto, non hanno
interesse che tutta la verita' venga fuori.

5. RIFLESSIONE. ACLI, AGESCI ED ALTRI: PERUGIA-ASSISI: NON MARCIATECI SOPRA
[Questo appello e' stato sottoscritto e promosso da Acli, Agesci, Azione
Cattolica Italiana, missionari comboniani, missionarie comboniane,
"Nigrizia", Pax Christi, Volontari nel mondo - Focsiv]
Domenica 14 ottobre saremo alla Perugia-Assisi.
Le ragioni che ci avevano spinto a partecipare il 7 luglio a Genova ad
un'iniziativa in vista del G8, sono in gran parte le stesse con le quali le
nostre associazioni hanno promosso la marcia Perugia-Assisi e che ci
porteranno a marciare, insieme con tanti e uomini e donne di buona volonta'
convocati dalla Tavola della Pace.
Come hanno scritto i francescani della Basilica patriarcale di S. Francesco,
la marcia, questa marcia, non sopporta strumentalizzazioni e nessuno puo'
appropriarsene. Ha delle radici, uno stile, dei valori che si ritrovano
nell'intenzione originaria di Aldo Capitini. E' a quelle radici che bisogna
attingere per non lasciarsi ingannare da un pacifismo strumentale e
politicizzato.
Come credenti siamo a Perugia e saremo ad Assisi perche' intendiamo
continuare ad assumerci il rischio di un impegno che respinga l'invito di
tanti a starcene a casa. La parola oggi non spetta - come qualcuno vorrebbe
far credere - solo agli specialisti, ai militari, ai capi di stato. Spetta
anche ai movimenti della societa' civile. La sentiamo come una nostra
responsabilita' come abbiamo sentito di dover prendere parola il 7 luglio.
Ugualmente diciamo che la Perugia-Assisi non puo' essere il luogo dove
ritrovare una verginita' perduta, per coloro che a Genova hanno seguito una
linea inconcludente e pericolosa. Ai partiti, agli uomini politici ed ai
rappresentanti delle istituzioni che vorranno marciare con noi ripetiamo le
parole di Capitini: "siete i benvenuti, ma venite senza simboli e bandiere".
La marcia vede insieme persone e gruppi con identita' e culture diverse, ma
non e' un bazar disordinato e confuso dove ognuno prende cio' che vuole e
magari si costruisce una marcia a suo uso e consumo.
La Perugia-Assisi sara' infine una straordinaria occasione per tanti di noi
che sono ancora una volta etichettati sbrigativamente come "no global" per
mostrare il nostro vero volto: quello di "new global", quello di un'altra
globalizzazione che sia dei diritti, della solidarieta' e del lavoro per
tutti.
"Cibo, acqua e lavoro per tutti" e' lo slogan della marcia, che e' un modo
efficace per dire che vanno sradicate le cause della poverta' e dello
sfruttamento che oggi ostacolano la costruzione della pace nel mondo. Non ci
ritroveremo ad Assisi per essere contro qualcuno, ma per due obiettivi
concreti: sradicare il terrorismo e costruire la pace.
Il cancro del terrorismo va estirpato non escludendo a priori l'uso della
forza purche' esercitata nei limiti e nelle forme previste dalla Carta delle
Nazioni Unite e dal diritto Internazionale. I terrorismi vanno colpiti
subito e con tutti i mezzi a cominciare dal prosciugamento delle loro fonti
finanziarie mettendo principalmente mano a tutti i paradisi fiscali, veri e
propri santuari della criminalita' e del terrorismo. Vanno assicurati alla
giustizia i criminali che hanno ideato, organizzato, finanziato e protetto
gli attentatori dell'11 settembre.
Ci inquieta l'azione militare anglo-americana perche' rischia di far
allargare il conflitto e di mietere vittime innocenti tra la popolazione
civile.
Al governo italiano, pochi giorni prima del G8, avevamo formulato richieste
precise che sono ancora dirimenti perche' lo slogan "cibo, acqua e lavoro
per tutti" non resti uno slogan vuoto.
Incrementare la quota del Pil destinata agli aiuti per lo sviluppo dei paesi
poveri rafforzando la cooperazione e la solidarieta' internazionale,
applicare subito la legge sulla cancellazione del debito estero, bandire la
guerra e combattere autenticamente il mercato delle armi, rafforzare il
ruolo delle Nazioni Unite nella prevenzione e soluzione dei conflitti. Sono
cose che si possono fare rapidamente, nelle prossime settimane, anche nella
stessa legge Finanziaria.
I tanti passi che faremo insieme alla Perugia-Assisi sono il simbolo che la
via della pace chiede pazienza e determinazione, fermezza e mitezza,
chiarezza e disponibilita' al dialogo. Sono questi i sentimenti che vogliamo
portare e testimoniare nella citta' di San Francesco, luogo simbolo della
pace e del dialogo tra culture e religioni, e come lui, con mitezza,
incontrare "il sultano" e i poveri della terra.

6. RIFLESSIONE. OPERA NOMADI: NO ALLA GUERRA
[L'Opera Nomadi e' un ente morale di solidarieta' e per i diritti tra e con
i popoli nomadi e viaggianti. Per contatti: operanomadi at tiscalinet.it]
Per la Pace, la solidarieta' e la fratellanza tra tutti i popoli l'Opera
Nomadi dice no alla guerra.
La terra di origine del popolo dei Rom e Sinti e' in questi giorni scossa da
venti di guerra.
Il popolo dei Rom e Sinti da sempre e' estraneo ai signori della guerra. Mai
si e' fatto promotore di una guerra nemmeno per difendere il diritto
inalienabile di ogni popolo ad avere una terra.
Purtroppo, paradossalmente, questo innato pacifismo si scontra con una cruda
realta' che vede il popolo dei Rom e dei Sinti essere sempre una delle
vittime principali delle guerre scatenate dal signore della guerra di turno
ed essere sempre perseguitato: dalla Spagna nel 1492 dove essi vengono
completamente emarginati se non espulsi insieme a Mori ed Ebrei, al
Portogallo dove venivano frustati con corde chiodate, al Ducato di Milano e
nello Stato Pontificio dove gli uomini venivano puniti con tratti di corda e
le donne e i bambini con una serie di staffilate. Dalla Moravia all'Austria
dove alle donne e ai bambini condannati veniva tagliato un orecchio, alla
Francia dove venivano marchiati a fuoco sulla guancia o rasati, ai Paesi
Bassi dove venivano fustigati a sangue e venivano loro perforate le narici.
Dall'Imperatore Massimiliano d'Austria che sanci' il principio che uccidere
uno zingaro non e' reato, ad Elisabetta I di Inghilterra che decreto' per
loro la pena di morte, al re di Svezia che ordino' che i Rom arrestati
venissero impiccati senza processo, a Federico Guglielmo di Prussia che
condannava alla forca tutti i maggiori di 18 anni... come possiamo vedere,
la "soluzione finale" nei confronti del popolo dei Rom e dei Sinti
perseguita dal nazifascismo che produsse la morte di piu' di 500.000 Rom e
Sinti durante la seconda guerra mondiale ha molti padri fondatori.
Ancora oggi i Rom e Sinti sono stati le prime vittime delle guerre esplose
nei Balcani (solo in Kosovo negli ultimi 2 anni 900 Rom sono stati uccisi o
fatti sparire).
Il popolo dei Rom e Sinti, per tutto questo, si dichiara estraneo e contro
ogni guerra e per un mondo giusto ed in cui ci sia pari dignita' e diritti
umani per tutti i popoli.
Contro la disumanita' della guerra, per la solidarieta' e la fratellanza fra
tutti i popoli.

7. RIFLESSIONE. GRUPPO ABELE: PACE E' IL CONTRARIO DI GUERRA
[Dal Gruppo Abele riceviamo e diffondiamo. Per contatti:
abele.stampa at tiscalinet.it]
Anche il Gruppo Abele e don Luigi Ciotti domenica 14 ottobre partecipano
alla marcia della pace.
Per ridare verita' alle parole: pace e' il contrario di guerra. Volere e
costruire pace comporta necessariamente il dire no alla guerra. A ogni
guerra: quella disumana del terrore e quella "umanitaria" dei missili,
quella indiscriminata e quella "chirurgica".
Per ridare valore alla Costituzione italiana. "Articolo 11: L'Italia ripudia
la guerra come strumento di offesa alla liberta' degli altri popoli e come
mezzo di risoluzione delle controversie internazionali".
Per ridare forza alla politica. Quando la parola passa alle armi non si
realizza la continuazione della politica con altri mezzi, bensi' si
zittisce, si svilisce e si annulla la politica. La forza della ragione e'
sempre alternativa alle ragioni della forza.
Per testimoniare solidarieta' a tutte le vittime. Perche' la morte di ogni
uomo, donna e bambino ci impoverisce tutti e ci sgomenta sempre. Perche' la
vita di ciascuno ha valore in se' e non puo' mai essere sacrificata all'odio
e al fanatismo, alle logiche di potenza, agli egoismi economici.
Per chiedere cibo, acqua e lavoro per tutti. Perche' la giustizia sociale,
l'equita' nella distribuzione dei beni e delle ricchezze, sono fondamento e
garanzia della pace. Perche' alla fame e sete di giustizia di larga parte
dell'umanita' occorre rispondere. Con politiche nuove e parole coerenti.

8. MAESTRE. SIMONE WEIL: PER QUANTO STRANO POSSA SEMBRARE...
[Da Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933-1943, Pratiche, Milano 1999, p.
57. E' un brano da "Non ricominciamo la guerra di Troia", un saggio weiliano
la cui integrale lettura raccomandiamo vivamente]
Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire
l'uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto
strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane.

9. MATERIALI. GUENTHER ANDERS: TESI SULL'ETA' ATOMICA
[Ripubblichiamo ancora una volta questo testo a nostro avviso capitale di
Günther Anders. Il testo e' ripreso dall'appendice all'edizione italiana del
libro di Günther Anders Der Mann auf der Brüke. Tagebuch aus Hiroshima und
Nagasaki, apparso col titolo Essere o non essere, presso Einaudi, a Torino,
nel 1961, nella traduzione di Renato Solmi. Come li' si specifica, queste
Tesi sull'eta' atomica sono "un testo improvvisato dall'autore dopo un
dibattito sui problemi morali dell'eta' atomica organizzato da un gruppo di
studenti dell'Universita' di Berlino-Ovest, e uscito nell'ottobre 1960 nella
rivistina "Das Argument - Berliner Hefte für Politik und Kultur" [nota del
traduttore]". Günther Anders (pseudonimo di Günther Stern, "anders"
significa "altro" e fu lo pseudonimo assunto quando le riviste su cui
scriveva gli chiesero di non comparire col suo vero cognome) e' nato a
Breslavia nel 1902, fu allievo di Husserl e si laureo' in filosofia nel
1925. Costretto all'esilio dall'avvento del nazismo, trasferitosi negli
Stati Uniti d'America, visse di disparati mestieri. Tornato in Europa nel
1950, si stabili' a Vienna. E' scomparso nel 1992. Strenuamente impegnato
contro la violenza del potere e particolarmente contro il riarmo atomico, e'
uno dei maggiori filosofi contemporanei. Opere di Günther Anders: Essere o
non essere, Einaudi, poi Linea d'ombra; La coscienza al bando - Il pilota di
Hiroshima, Einaudi, poi Linea d'ombra; L'uomo e' antiquato, vol. I edito dal
Saggiatore, vol. II edito da Bollati Boringhieri; Discorso sulle tre guerre
mondiali, Linea d'ombra; Opinioni di un eretico, Theoria; Noi figli di
Eichmann, Giuntina; Stato di necessita' e legittima difesa, Edizioni Cultura
della Pace. Si vedano inoltre: Kafka. Pro e contro, Corbo; Uomo senza mondo,
Spazio Libri; Patologia della liberta', Palomar. In rivista testi di Anders
sono stati pubblicati negli ultimi anni su "Comunita'", "Linea d'ombra",
"Micromega"]
Tesi sull'età atomica
*
Hiroshima come stato del mondo. Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, è
cominciata un nuova era: l'era in cui possiamo trasformare in qualunque
momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un'altra Hiroshima. Da quel
giorno siamo onnipotenti modo negativo; ma potendo essere distrutti ad ogni
momento, ciò significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti.
Indipendentemente dalla sua lunghezza e dalla sua durata, quest'epoca è l'
ultima: poiché la sua differenza specifica, la possibilità dell'
autodistruzione del genere umano, non può aver fine - che con la fine
stessa.
 *
Età finale e fine dei tempi. La nostra vita si definisce quindi come
«dilazione»; siamo quelli-che-esistono-ancora. Questo fatto ha trasformato
il problema morale fondamentale: alla domanda «Come dobbiamo vivere?» si è
sostituita quella: «Vivremo ancora?» Alla domanda del «come» c'è - per noi
che viviamo in questa proroga - una sola risposta: «Dobbiamo fare in modo
che l'età finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine dei
tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo».
Poiché crediamo alla possibilità di una «fine dei tempi», possiamo dirci
apocalittici; ma poiché lottiamo contro l'apocalissi da noi stessi creata,
siamo (è un tipo che non c'è mai stato finora) «nemici dell'apocalissi».
*
Non armi atomiche nella situazione politica, ma azioni politiche nella
situazione atomica. La tesi apparentemente plausibile che nell'attuale
situazione politica ci sarebbero (fra l'altro) anche «armi atomiche», è un
inganno. Poiché la situazione attuale è determinata esclusivamente dall'
esistenza di «armi atomiche», è vero il contrario: che le cosiddette azioni
politiche hanno luogo entro la situazione atomica.
*
Non arma ma nemico. Ciò contro cui lottiamo, non è questo o quell'avversario
che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la
situazione atomica in sé. Poiché questo nemico è nemico di tutti gli uomini,
quelli che si sono considerati finora come nemici dovrebbero allearsi contro
la minaccia comune. Organizzazioni e manifestazioni pacifiche da cui sono
esclusi proprio quelli con cui si tratta di creare la pace, si risolvono in
ipocrisia, presunzione compiaciuta e spreco di tempo.
*
Carattere totalitario della minaccia atomica. La tesi prediletta da Jaspers
fino a Strauss suona: «La minaccia totalitaria può essere neutralizzata solo
con la minaccia della distruzione totale». E' un argomento che non regge. 1)
la bomba atomica è stata impiegata, e in una situazione in cui non c'era
affatto il pericolo, per chi la impiegò, di soccombere a un potere
totalitario. 2) L'argomento è un relitto dell'epoca del monopolio atomico;
oggi è un argomento suicida. 3) Lo slogan «totalitario» è desunto da una
situazione politica, che non solo è già essenzialmente mutata, ma continuerà
a cambiare; mentre la guerra atomica esclude ogni possibilità di
trasformazione. 4) La minaccia della guerra atomica, della distruzione
totale, è totalitaria per sua natura: poiché vive del ricatto e trasforma la
terra in un solo Lager senza uscita. Adoperare, nel preteso interesse della
libertà, l'assoluta privazione della stessa, è il non plus ultra dell'
ipocrisia.
*
Ciò che può colpire chiunque riguarda chiunque. Le nubi radioattive non
badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle «cortine». Così,
nell'età finale, non ci sono più distanze. Ognuno può colpire chiunque ed
essere colpito da chiunque. Se non vogliamo restare moralmente indietro agli
effetti dei nostri prodotti (che non ci procurerebbe solo ignominia mortale,
ma morte ignominiosa), dobbiamo fare in modo che l'orizzonte di ciò che ci
riguarda, e cioè l'orizzonte della nostra responsabilità, coincida con l'
orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioè che
diventi anch'esso globale. Non ci sono più che «vicini».
*
Internazionale delle generazioni. Ciò che si tratta di ampliare, non è solo
l'orizzonte spaziale della responsabilità per i nostri vicini, ma anche
quello temporale. Poiché le nostre azioni odierne, per esempio le esplosioni
sperimentali, toccano le generazioni venture, anch'esse rientrano nell'
ambito del nostro presente. Tutto ciò che è «venturo» è già qui, presso di
noi, poiché dipende da noi. C'è, oggi, un'«internazionale delle
generazioni», a cui appartengono già anche i nostri nipoti. Sono i nostri
vicini nel tempo. Se diamo fuoco alla nostra casa odierna, il fuoco si
appicca anche al futuro, e con la nostra cadono anche le case non ancora
costruite di quelli che non sono ancora nati. E anche i nostri antenati
appartengono a questa «internazionale»: poiché con la nostra fine
perirebbero anch'essi,  per la seconda volta (se così si può dire) e
definitivamente. Anche adesso sono «solo stati»; ma con questa seconda morte
sarebbero stati solo come se non fossero mai stati.
*
Il nulla non concepito. Ciò che conferisce il massimo di pericolosità al
pericolo apocalittico in cui viviamo, è il fatto che non siamo attrezzati
alla sua stregua, che siamo incapaci di rappresentarci la catastrofe.
Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una persona cara) è già
di per sé abbastanza difficile; ma è un gioco da bambini rispetto al compito
che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli. Poiché questo nostro
compito non consiste solo nel rappresentarci l'inesistenza di qualcosa di
particolare, in un contesto universale supposto stabile e permanente, ma nel
supporre inesistente questo contesto, e cioè il mondo stesso, o almeno il
nostro mondo umano. Questa «astrazione totale» (che corrisponderebbe, sul
piano del pensiero e dell'immaginazione, alla nostra capacità di distruzione
totale) trascende le forze della nostra immaginazione naturale.
«Trascendenza del negativo». Ma poiché, come homines fabri, siamo capaci di
tanto (siamo in grado di produrre il nulla totale), la capacità limitata
della nostra immaginazione (la nostra «ottusità») non deve imbarazzarci.
Dobbiamo (almeno) tentare di rappresentarci anche il nulla.
*
Utopisti a rovescio. Ecco quindi il dilemma fondamentale della nostra epoca:
«Noi siamo inferiori a noi stessi», siamo incapaci di farci un'immagine di
ciò che noi stessi abbiamo fatto. In questo senso siamo «utopisti a
rovescio»: mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi
non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto.
*
Lo «scarto prometeico». Non è questo un fatto fra gli altri; esso definisce,
invece, la situazione morale dell'uomo odierno: la frattura che divide l'
uomo (o l'umanità) non passa, oggi, fra lo spirito e la carne, fra il dovere
e l'inclinazione, ma fra la nostra capacità produttiva e la nostra capacità
immaginativa. Lo «scarto prometeico».
*
Il «sopraliminare». Questo «scarto» non divide solo immaginazione e
produzione, ma anche sentimento e produzione, responsabilità e produzione.
Si può forse immaginare, sentire, o ci si può assumere la responsabilità,
dell'uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila. Quanto
più grande è l'effetto possibile dell'agire, e tanto più è difficile
concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto più grande lo «scarto»,
tanto più debole il meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone
premendo un tasto, è infinitamente più facile che ammazzare una sola
persona. Al «subliminare», noto dalla psicologia (lo stimolo troppo piccolo
per provocare già una reazione), corrisponde il «sopraliminare»: ciò che è
troppo grande per provocare ancora una reazione (per esempio un meccanismo
inibitorio).
 *
La sensibilità deforma, la fantasia è realistica. Poiché il nostro orizzonte
vitale (l'orizzonte entro cui possiamo colpire ed essere colpiti) e l'
orizzonte dei nostri effetti è ormai illimitato, siamo tenuti, anche se
questo tentativo contraddice alla «naturale ottusità» della nostra
immaginazione, a immaginare questo orizzonte illimitato. Nonostante la sua
naturale insufficienza, è solo l'immaginazione che può fungere da organo
della verità. In ogni caso, non è certo la percezione. Che è una «falsa
testimone»: molto, ma molto più falsa di quanto avesse inteso ammonire la
filosofia greca. Poiché la sensibilità è - per principio - miope e limitata
e il suo orizzonte assurdamente ristretto. La terra promessa degli
«escapisti» di oggi non è la fantasia, ma la percezione.
Di qui il nostro (legittimo) disagio e la nostra diffidenza verso i quadri
normali (dipinti, cioè, secondo la prospettiva normale): benché realistici
in senso tradizionale, sono (proprio loro) irrealistici, perché sono in
contrasto con la realtà del nostro mondo dagli orizzonti infinitamente
dilatati.
*
Il coraggio di aver paura. La viva «rappresentazione del nulla» non si
identifica con ciò che si intende in psicologia per «rappresentazione»; ma
si realizza in concreto come angoscia. Ad essere troppo piccolo, e a non
corrispondere alla realtà e al grado della minaccia, è quindi il grado della
nostra angoscia. - Nulla di più falso  della frase cara alle persone di
mezza cultura, per cui vivremmo già nell'«epoca dell'angoscia». Questa tesi
ci è inculcata dagli agenti ideologici di coloro che temono solo che noi si
possa realizzare sul serio la vera paura, adeguata al pericolo. Noi viviamo
piuttosto nell'epoca della minimizzazione e dell'inettitudine all'angoscia.
L'imperativo di allargare la nostra immaginazione significa quindi in
concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura. Postulato: «Non
aver paura della paura, abbi coraggio di aver paura. E anche quello di far
paura. Fa' paura al tuo vicino come a te stesso». Va da sé che questa nostra
angoscia deve essere di un tipo affatto speciale: 1) Un'angoscia senza
timore, poiché esclude la paura di quelli che potrebbero schernirci come
paurosi. 2) Un'angoscia vivificante, poiché invece di rinchiuderci nelle
nostre stanze ci fa uscire sulle piazze. 3) Un'angoscia amante, che ha paura
per il mondo, e non solo di ciò che potrebbe capitarci.
*
Fallimento produttivo. L'imperativo di allargare la portata della nostra
immaginazione e della nostra angoscia finché corrispondano a quella di ciò
che possiamo produrre e provocare, si rivelerà continuamente irrealizzabile.
Non è nemmeno detto che questi tentativi ci consentano di fare qualche passo
in avanti. Ma anche in questo caso non dobbiamo lasciarci spaventare; il
fallimento ripetuto non depone contro la ripetizione del tentativo. Anzi,
ogni nuovo insuccesso è salutare, poiché ci mette in guardia contro il
pericolo di continuare a produrre ciò che non possiamo immaginare.
*
Trasferimento della distanza. Riassumendo ciò che si è detto sulla «fine
delle distanze» e sullo «scarto» tra le varie facoltà (e solo così ci si può
fare un'idea completa della situazione), risulta che le distanze spaziali e
temporali sono state bensì «soppresse»; ma questa soppressione è stata
pagata a caro prezzo con una nuova specie di «distanza»: quella, che diventa
ogni giorno più grande, fra la produzione e la capacità di immaginare ciò
che si produce.
*
Fine del comparativo. I nostri prodotti e i loro effetti non sono solo
diventati maggiori di ciò che possiamo concepire (sentire, o di cui possiamo
assumerci la responsabilità), ma anche maggiori di ciò che possiamo
utilizzare sensatamente. E' noto che la nostra produzione e la nostra
offerta superano spesso la nostra domanda (e ci costringono a produrre
appositamente nuovi bisogni e richieste); ma la nostra offerta trascende
addirittura il nostro bisogno, consiste di cose di cui non possiamo avere
bisogno: cose troppo grandi in senso assoluto. Così ci siamo messi nella
situazione paradossale di dover addomesticare i nostri stessi prodotti; di
doverli addomesticare come abbiamo addomesticato finora le forze della
natura. I nostri tentativi di produrre armi cosiddette «pulite», sono senza
precedenti nel loro genere: poiché con essi cerchiamo di migliorare certi
prodotti peggiorandoli, e cioé diminuendo i loro effetti.
L'aumento dei prodotti non ha quindi più senso. Se il numero e gli effetti
delle armi già oggi esistenti bastano a raggiungere il fine assurdo della
distruzione del genere umano, l'aumento e miglioramento della produzione,
che continuano ancora su larghissima scala, sono ancora più assurdi; e
dimostrano che i produttori non si rendono conto, in definitiva, di che cosa
hanno prodotto. Il comparativo - principio del progresso e della
concorrenza - ha perduto ogni senso. Più morto che morto non è possibile
diventare. Distruggere meglio di quanto già si possa, non sarà possibile
neppure in seguito.
*
Richiamarsi alla competenza è prova d'incompetenza morale. Sarebbe una
leggerezza pensare (come fa, per esempio, Jaspers) che i «signori dell'
apocalissi», quelli che sono responsabili delle decisioni, grazie a
posizioni di potere politico o militare comunque acquisite, siano più di noi
all'altezza di queste esigenze schiaccianti, o che sappiano immaginare l'
inaudito meglio di noi, semplici «morituri»; o anche solo che siano
consapevoli di doverlo fare. Assai più legittimo è il sospetto: che ne siano
affatto inconsapevoli. Ed essi lo provano dicendo che noi siamo incompetenti
nel «campo dei problemi atomici e del riarmo», e invitandoci a non
«immischiarci». L'uso di questi termini è addirittura la prova della loro
incompetenza morale: poiché in tal modo essi mostrano di credere che la loro
posizione dia loro il monopolio e la competenza per decidere del «to be or
not to be» dell'umanità; e di considerare l'apocalissi come un «ramo
specifico». E' vero che molti di loro si appellano alla «competenza» solo
per mascherare il carattere antidemocratico del loro monopolio. Se la parola
«democrazia» ha un senso, è proprio quello che abbiamo il diritto e il
dovere di partecipare alle decisioni che concernono la «res publica», che
vanno, cioè, al di là della nostra competenza professionale e non ci
riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini. E non si
può dire che così facendo ci «immischiamo» di nulla, poiché come cittadini e
come uomini siamo «immischiati» da sempre, perché anche noi siamo la «res
pubblica». E un problema più «pubblico» dell'attuale decisione sulla nostra
sopravvivenza non c'è mai stato e non ci sarà mai. Rinunciando a
«immischiarci», mancheremmo anche al nostro dovere democratico.
*
Liquidazione dell'«agire». La distruzione possibile dell'umanità appare come
un'«azione»; e chi collabora ad essa come un individuo che agisce. E'
giusto? Sì e no. Perché no?
Perché l'«agire» in senso behavioristico non esiste pressoché più. E cioè:
poiché ciò che un tempo accadeva come agire, ed era inteso come tale dall'
agente, è stato sostituito da processi di altro tipo: 1) dal lavorare; 2)
dall'azionare.
1) Lavoro come surrogato dell'azione. Già quelli che erano impiegati negli
impianti di liquidazione hitleriani non avevano «fatto nulla», credevano di
non aver fatto nulla perché si erano limitati a «lavorare». Per questo
«lavorare» intendo quel tipo di prestazione (naturale e dominante, nella
fase attuale della rivoluzione industriale) in cui l'eidos del lavoro rimane
invisibile per chi lo esegue, anzi, non lo riguarda più, e non può né deve
più riguardarlo. Caratteristica del lavoro odierno è che esso resta
moralmente neutrale: «non olet», nessuno scopo (per quanto cattivo) del suo
lavoro può macchiare chi lo esegue. A questo tipo dominante di prestazione
sono oggi assimilate quasi tutte le azioni affidate agli uomini. Lavoro come
mimetizzamento. Questo mimetizzamento evita all'autore di un eccidio di
sentirsi colpevole, poiché non solo non occorre rispondere del lavoro che si
fa, ma esso - in teoria - non può rendere colpevoli. Stando così le cose,
dobbiamo rovesciare l'equazione attuale («ogni agire è lavorare») nell'
altra: «ogni lavorare è un agire».
2) Azionare come surrogato del lavoro. Ciò che vale per il lavoro, vale a
maggior ragione per l'azionare, poiché l'azionare è il lavoro in cui è
abolito anche il carattere specifico del lavoro: lo sforzo e il senso dello
sforzo. Azionare come mimetizzamento. Oggi, in realtà, si può fare in tal
modo pressoché tutto, si può avviare una serie di azionamenti successivi
schiacciando un solo bottone; compreso, quindi, il massacro di milioni. In
questo caso (dal punto di vista behavioristico) questo intervento non è più
un lavoro (per non parlare di un'azione). Propriamente parlando non si fa
nulla (anche se l'effetto di questo non-far-nulla è il nulla e l'
annientamento). L'uomo che schiaccia il tasto (ammesso che sia ancora
necessario) non si accorge più nemmeno di fare qualcosa; e poiché il luogo
dell'azione e quello che la subisce non coincidono più, poiché la causa e l'
effetto sono dissociati, non può vedere che cosa fa. «Schizotopia», in
analogia a «schizofrenia». E' chiaro che solo chi arriva a immaginare l'
effetto ha la possibilità della verità; la percezione non serve a nulla.
Questo genere di mimetizzamento è senza precedenti: mentre prima i
mimetizzamenti miravano a impedire alla vittima designata dell'azione, e
cioè al nemico, di scorgere il pericolo imminente (o a proteggere gli autori
dal nemico), oggi il mimetizzamento mira solo a impedire all'autore di
sapere quello che fa. In questo senso anche l'autore è una vittima; in
questo senso Eatherly è una delle vittime della sua azione.
*
Le forme menzognere della menzogna attuale. Gli esempi di mascheramento ci
istruiscono sul carattere della menzogna attuale. Poiché oggi le menzogne
non hanno più bisogno di figurare come asserzioni («fine delle ideologie»).
La loro astuzia consiste proprio nello scegliere forme di travestimento
davanti a cui non può più sorgere il sospetto che possa trattarsi di
menzogne; e ciò perché questi travestimenti non sono più asserzioni. Mentre
le menzogne, finora, si erano camuffate ingenuamente da verità, ora si
camuffano in altre guise:
1) Al posto di false asserzioni subentrano parole singole, che danno l'
impressione di non affermare ancora nulla, anche se, in realtà, hanno già in
sé il loro (bugiardo) predicato. Così, per esempio, l'espressione «armi
atomiche» è già un'asserzione menzognera, poiché sottintende, poiché dà per
scontato, che si tratta di armi.
2) Al posto di false asserzioni sulla realtà subentrano (e siamo  al punto
che abbiamo appena trattato) realtà falsificate. Così determinate azioni,
presentandosi come «lavori», sono rese diverse e irriconoscibili; così
irriconoscibili, e diverse da un'azione, che non rivelano più (neppure all'
agente) quello che sono (e cioè azioni); e gli permettono, purché lavori
«coscienziosamente», di essere un criminale con la miglior coscienza del
mondo.
3) Al posto di false asserzioni subentrano cose. Finché l'agire si traveste
ancora da «lavorare», è pur sempre l'uomo ad essere attivo; anche se non sa
che cosa fa lavorando, e cioè che agisce. La menzogna celebra il suo trionfo
solo quando liquida anche quest'ultimo residuo: il che è già accaduto.
Poiché l'agire si è trasferito (naturalmente in seguito all'agire degli
uomini) dalle mani dell'uomo in tutt'altra sfera: in quella dei prodotti.
Essi sono, per così dire, «azioni incarnate». La bomba atomica (per il
semplice fatto di esistere) è un ricatto costante: e nessuno potrà negare
che il ricatto è un'azione. Qui la menzogna ha trovato la sua forma più
menzognera: non ne sappiamo nulla, abbiamo le mani pulite, non c'entriamo.
Assurdità della situazione: nell'atto stesso in cui siamo capaci dell'azione
più enorme - la distruzione del mondo - l'«agire», in apparenza, è
completamente scomparso. Poiché la semplice esistenza dei nostri prodotti è
già un «agire», la domanda consueta: che cosa dobbiamo «fare» dei nostri
prodotti (se, ad esempio, dobbiamo usarli solo come «deterrent»), è una
questione secondaria, anzi fallace, in quanto omette che le cose, per il
fatto stesso di esistere, hanno sempre agito.
*
Non reificazione, ma pseudopersonalizzazione. Con l'espressione
«reificazione» non si coglie il fatto che i prodotti sono, per così dire,
«agire incarnato», poiché essa indica esclusivamente il fatto che l'uomo è
ridotto qui alla funzione di cosa; ma si tratta invece dell'altro lato
(trascurato, finora, dalla filosofia) dello stesso processo: e cioè del
fatto che ciò che è sottratto all'uomo dalla reificazione, si aggiunge ai
prodotti: i quali, facendo qualcosa già per il semplice fatto di esistere,
diventano pseudopersone.
*
Le massime delle pseudopersone. Queste pseudopersone hanno i loro rigidi
principî. Così, per esempio, il principio delle «armi atomiche» è affatto
nichilistico, poiché per esse «tutto è uguale». In esse il nichilismo ha
toccato il suo culmine, dando luogo all'«annichilismo» più totale.
Poiché il nostro agire si è trasferito nel lavoro e nei prodotti, un esame
di coscienza non può consistere oggi soltanto nell'ascoltare la voce nel
nostro petto, ma anche nel captare i principî e le massime mute dei nostri
lavori e dei nostri prodotti; e nel revocare e rendere inoperante quel
trasferimento: e cioè nel compiere solo quei lavori dei cui effetti potremmo
rispondere anche se fossero effetti del nostro agire diretto; e nell'avere
solo quei prodotti la cui presenza «incarna» un agire che potremmo assumerci
come agire personale.
*
Macabra liquidazione dell'ostilità. Se il luogo dell'azione e quello che la
subisce sono, come si è detto, dissociati, e non si soffre più nel luogo
dell'azione, l'agire diventa agire senza effetto visibile, e il subire
subire senza causa riconoscibile. Si determina così un'assenza d'ostilità,
peraltro affatto fallace.
La guerra atomica possibile sarà la più priva d'odio che si sia mai vista.
Chi colpisce non odierà il nemico, poiché non potrà vederlo; e la vittima
non odierà chi lo colpisce, poiché questi non sarà reperibile. Nulla di più
macabro di questa mitezza (che non ha nulla a che fare con l'amore
positivo). Ciò che più sorprende nei racconti delle vittime di Hiroshima, è
quanto poco (e con che poco odio) vi siano ricordati gli autori del colpo.
Certo l'odio sarà ritenuto indispensabile anche in questa guerra, e sarà
quindi prodotto come articolo a sé. Per alimentarlo, si indicheranno (e, al
caso, s'inventeranno) oggetti d'odio ben visibili e identificabili, «ebrei»
di ogni tipo; in ogni caso nemici interni: poiché per poter odiare veramente
occorre qualcosa che possa cadere in mano. Ma quest'odio non potrà entrare
minimamente in rapporto con le azioni di guerra vere e proprie: e la
schizofrenia della situazione si rivelerà anche in ciò, che odiare e colpire
saranno rivolti a oggetti completamente diversi.
*
Non solo per quest'ultima tesi, ma per tutte quelle qui formulate, bisogna
aggiungere che sono state scritte perché non risultino vere. Poiché esse
potranno non avverarsi solo se terremo continuamente presente la loro alta
probabilità, e se agiremo in conseguenza. Nulla di più terribile che aver
ragione. Ma a quelli che, paralizzati dalla fosca probabilità della
catastrofe, si perdono di coraggio, non resta altro che seguire, per amore
degli uomini, la massima cinica: «Se siamo disperati, che ce ne importa?
Continuiamo come se non lo fossimo!»

10. CAPARBIETA'. PEPPE SINI: UNA PICCOLA CODA
Contro la guerra, il terrore, il razzismo, occorre opporsi con la
nonviolenza, con la forza della nonviolenza, con la limpidezza della
nonviolenza.
Prepariamo e promuoviamo:
- l'azione diretta nonviolenta;
- la disobbedienza civile;
- lo sciopero generale.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

12. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ;
per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben at libero.it ;
angelaebeppe at libero.it ; mir at peacelink.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 258 del 14 ottobre 2001