La nonviolenza e' in cammino. 233



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 233 del 19 settembre 2001

Sommario di questo numero:
1. Peppe Sini: come opporsi alla guerra, in sette punti e una postilla
2. Nanni Salio, persuasi della nonviolenza per sconfiggere ogni terrorismo
3. Le lettere non spedite di Baldino Graziano: il pianto col bilancino
4. Pasquale Pugliese: contro la follia: mobilitazione, disarmo militare e
disarmo economico
5. Giulio Vittorangeli, il colonialismo italiano rimosso
6. Cristina Papa, "Il paese delle donne"
7. Roberto Tecchio, il laboratorio di ricerca e formazione sulla gestione
nonviolenta dei conflitti (parte terza)
8. Letture: Luigi Bonanate, democrazia tra le nazioni
9. Letture: Pier Paolo Portinaro, il realismo politico
10. Letture: Jose' Ramos Regidor, natura e giustizia
11. Per studiare la globalizzazione: da John Rawls a Domenico Sereno Regis
12. La "Carta" del Movimento Nonviolento
13. Per saperne di piu'

1. PROPOSTE. PEPPE SINI: COME OPPORSI ALLA GUERRA, IN SETTE PUNTI E UNA
POSTILLA
1. Illimpidendo noi stessi.
Interrogandoci sulle nostre ambiguita', sulle nostre complicita', sui nostri
privilegi, sulle nostre menzogne, e depurandocene. Da Mohandas Gandhi a
Danilo Dolci tutte le grandi lotte nonviolente sono cominciate con il
raccoglimento interiore, l'esame e la purificazione di se'.
*
2. Col ripudio assoluto della violenza.
Che implica separarci nettamente, preliminarmente ed intransigentemente dai
violenti e dagli ambigui. Far comunella con loro, o illudersi di poter
percorrere insieme con loro un pezzo di strada, significa imboccare la
strada sbagliata, e diventare loro complici.
*
3. Preparandoci all'azione diretta nonviolenta.
Per contrastare la guerra praticamente, operativamente, e non solo
simbolicamente, non solo a chiacchiere. L'azione diretta nonviolenta contro
la guerra o e' concreta o non e'.
Questo richiede una preparazione rigorosa, training di formazione,
un'autentica persuasione alla nonviolenza, la profonda introiezione dei suoi
valori, lo studio sistematico delle sue tecniche.
Ed occorre essere intransigenti nello stabilire che ad una azione diretta
nonviolenta contro la guerra possono partecipare solo le persone che hanno
fatto la scelta della nonviolenza, e che ad essa intendono attenersi fino in
fondo; gli altri, i non persuasi, non possono partecipare poiche' sarebbero
di pericolo per se' e per gli altri, e farebbero fallire irrimediabilmente
l'azione nonviolenta anche solo con una parola sbagliata.
*
4. Preparando la disobbedienza civile di massa.
La quale disobbedienza civile e' una cosa seria che richiede serieta' di
comportamenti e piena responsabilita', consapevolezza e preparazione.
Essa e' quindi il contrario delle iniziative equivoche ed irresponsabili che
personaggi stolti e fin inquietanti hanno recentemente preteso di spacciare
sotto questa denominazione.
*
5. Preparando lo sciopero generale contro la guerra.
E giovera' ripeterlo pari pari: preparando lo sciopero generale contro la
guerra.
*
6. Ripudiando tutte le culture sacrificali.
Occorre affermare la dignita', l'unicita' e il valore assoluto di ogni vita,
la propria  e l'altrui.
Chi pensa che si possa sacrificare anche una sola vita umana, ha gia'
sancito in linea di principio la liceita' di ucciderci tutti, ed e' quindi
complice della logica degli assassini.
*
7. Affermando la nonviolenza in tutte le sue dimensioni, anche come
nonmenzogna e come noncollaborazione al male.
Mentire e' gia' disprezzare e denegare gli altri esseri umani in cio' che
degli esseri umani e' piu' proprio: la facolta' di capire, la ragione. La
nonviolenza e' sempre anche nonmenzogna.
Chiave di volta della nonviolenza e' la consapevolezza che occorre togliere
il consenso ai facitori di male. Occorre esplicitamente noncollaborare con
essi. La nonviolenza e' sempre negazione del consenso all'ingiustizia e alla
violenza.
*
Postilla. Lo scatenamento di una guerra globale come quella che gli
abominevoli attentati terroristici dell'11 settembre hanno innescato puo'
provocare la fine della civilta' umana. E' bene non dimenticarlo mai.
Opposizione alla guerra e salvezza dell'umanita' vengono quindi a
coincidere. Ma solo la nonviolenza puo' opporsi coerentemente e
concretamente alla guerra. E dunque solo la nonviolenza puo' salvare
l'umanita'.
Un movimento per la pace che non scelga la nonviolenza non e' un movimento
per la pace.

2. RIFLESSIONE. NANNI SALIO: PERSUASI DELLA NONVIOLENZA PER SCONFIGGERE OGNI
TERRORISMO
[Nanni Salio e' una delle figure piu' prestigiose della nonviolenza in
Italia. Per contatti: e-mail: regis at arpnet.it]
"Non vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra, che
quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume.
Non credo piu' che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver
prima fatto la nostra parte dentro di noi. E' l'unica lezione di questa
guerra, dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove".
E' da queste parole di Etty Hillesum, scritte nel suo Diario 1941-1943,
durante la seconda guerra mondiale, poco prima di morire nel lager, che
bisogna partire per riflettere sulla tragica serie di attentati dell'11
settembre negli USA. "Il regno di Dio e' in voi", diceva Tolstoi, ma
potremmo aggiungere: "...anche quello di satana".
Per i persuasi della nonviolenza, il compito e' oggi piu' difficile che mai.
Bisogna riuscire a interrompere la spirale della violenza che quasi
certamente verra' alimentata dalla ritorsione che il governo USA sta
pianificando. La via maestra e' quella del dialogo con tutte le parti in
causa, conoscerne e riconoscerne torti e ragioni, vedere e far vedere la
sofferenza e il dolore di tutte le vittime, aiutare i persecutori a
riumanizzarsi, analizzare i traumi subiti mediante una sorta di grande
terapia collettiva che apra la strada alla riconciliazione del genere umano.
Dobbiamo aiutare i cittadini americani a prendere coscienza della
irresponsabilita' della loro classe politica e del fallimento delle dottrine
militari, anch'esse basate sul terrorismo (di stato), che li hanno resi piu'
insicuri e vulnerabili. Cosi' come a suo tempo aiutammo i cittadini
sovietici a scrollarsi di dosso un regime che cadde quasi senza colpo
ferire, attraverso una strabiliante lotta nonviolenta culminata nel 1989,
ora dobbiamo aiutare i cittadini americani a liberarsi dal giogo altrettanto
odioso e pericoloso del complesso militare-industriale-scientifico che li ha
portati in un vicolo cieco.
Al contempo, occorre aiutare le popolazioni dell'islam e piu' in generale i
popoli oppressi a non cadere nella trappola della violenza e del terrorismo.
E' necessario un gigantesco impegno di educazione alla lotta nonviolenta,
l'unica strada che nel secolo scorso ha consentito di ottenere risultati
significativi e duraturi senza seminare odio, vittime, vendette, massacri,
tragedie ricorrenti e senza fine.
Non ci sara' vera pace senza giustizia e non ci saranno ne' pace ne'
giustizia senza una cultura della nonviolenza attiva. E' la globalita' dei
problemi che impone di riconoscere sia i limiti, i fallimenti e gli errori
sia gli aspetti positivi, creativi, costruttivi di ciascuna cultura. Non ci
sono popoli eletti ne' reietti, ma ciascuno ha il suo bagaglio di esperienze
storiche, miti, traumi, successi e insuccessi dai quali partire per
costruire una cultura che riconosca nella nonviolenza il seme comune
dell'umanita', le verita' antiche come le colline.
Chi si fara' carico di questo progetto, della trasformazione nonviolenta di
ogni conflitto, dal micro al macro? In tutte le principali tradizioni
culturali e religiose sono presenti uomini e donne che hanno saputo assumere
su di se' il dolore del mondo per compiere un'opera di redenzione: sono i
"giusti" della tradizione ebraica, il redentore della religione cristiana, i
bodhisattva della cultura buddhista, i rishi degli antichi Veda, i sufi
dell'islam. Oggi, questa eredita' culturale dev'essere raccolta e
disseminata da tutti coloro che hanno effettivamente a cuore le sorti
dell'umanita' intera e che intendono dare alla propria esistenza un senso
piu' profondo e autentico. Se ci sono persone disposte a immolare la propria
vita per seminare il terrore, dovra' esserci un numero ancora piu' grande di
satyagrahi preparati a donare la vita perche' persuasi della nonviolenza,
come ci hanno insegnato Gandhi, Martin Luther King, Etty Hillesum e tanti
altri che hanno vissuto in momenti della storia umana non meno drammatici
del nostro.
Il "movimento di movimenti", venuto alla ribalta negli ultimi due anni per
le sue iniziative di contestazione dei vertici dei potenti, si trova ora di
fronte a una scelta ineludibile: deve farsi carico consapevolmente di questo
ambizioso progetto e imboccare chiaramente e con determinazione la strada
della nonviolenza attiva, costruttiva e creativa per non soccombere nella
stretta fra i due terrorismi. La sua agenda diventa ancora piu' fitta e una
priorita' assoluta dovra' essere assegnata alla lotta contro lo strapotere
degli apparati militari, ovunque nel mondo, alla realizzazione di modelli di
difesa basati sulle tecniche di lotta della nonviolenza, alla
democratizzazione delle Nazioni Unite, al boicottaggio delle industrie
belliche, all'abolizione degli eserciti, alla disobbedienza civile di massa.
Solo cosi' la lotta per la giustizia sociale, per la salvaguardia del
pianeta, per la difesa dei deboli non si avvitera' nell'eterna e drammatica
spirale autodistruttiva della violenza diretta.

3. LE LETTERE NON SPEDITE DI BALDINO GRAZIANO: IL PIANTO COL BILANCINO
Vostra grazia illustrissima,
il fatto che in questi giorni molti valentuomini, amicissimi di vostra
grazia come dell'umile mia persona, e per vero dire eccellenti uomini di
lettere e di mondo, si soffermino appena ad esprimere pieta' per le vittime
delle stragi terroristiche e subito si affrettino ad aggiungere la condanna
degli Stati Uniti d'America come sentina di ogni nequizia, mi pare
rivelatore non solo di un diffuso ed enorme errore politico ma anche e
soprattutto di una inquietante e profonda inadeguatezza morale: come se non
si potesse piangere le vittime innocenti di New York senza bisogno di
aggiungere altro; come se esse non fossero degne di pianto di per se'.
Trovo, ahime', assai sconsolante questo diffuso atteggiamento, e me ne
cruccio. Vi leggo una sorta di inconscio ed onnivoro pregiudizio
antiamericano sciovinistico e come razzistico, e l'eredita' di una sorta di
stalinismo tanto piu' profondo quanto piu' irriflesso (che affetta molto
piu' facilmente chi non e' mai stato un militante comunista, di quelli
onesti che con lo stalinismo quindi hanno dovuto farci i conti e combatterlo
davvero).
Ora, poiche' io non ho dubbi o ambivalenze di giudizio sui crimini commessi
dall'imperialismo, quello americano come gli altri, e poiche' ho passato
tutta la mia vita cosciente a lottare contro i poteri assassini (tra essi
includendo tutti gli eserciti), ed ogni volta che ho potuto il mio braccio e
il mio cuore ho messo al servizio della lotta degli oppressi per la
giustizia e la dignita' umana, penso di poter dire il mio orrore per la
strage in America, e di dover piangerne le vittime, senza bisogno di
aggiungere subito l'elenco - banalizzato e strumentale, e quindi reso
inautentico e degradato - delle vittime dei crimini della Cia, della Nato e
di tutti gli imperialismi passati, presenti e futuri.
Se si piange una vittima la si piange per se stessa, altrimenti un pianto
col bilancino, col misurino, non e' piu' pianto, ma ipocrisia.
Di vostra grazia illustrissima sono e mi professo l'umilissimo,
obbedientissimo e devotissimo servitore
Baldino Graziano

4. RIFLESSIONE. PASQUALE PUGLIESE: CONTRO LA FOLLIA: MOBILITAZIONE, DISARMO
MILITARE E DISARMO ECONOMICO
[Pasquale Pugliese e' impegnato nel Movimento Nonviolento e nella Rete di
Lilliput. Per contatti: puglipas at interfree.it]
Dopo il silenzio e il raccoglimento - uniche azioni immediatamente possibili
di fronte ad una tragedia dalle proporzioni, reali e simboliche, di
dimensioni bibliche - per le migliaia di inermi cittadini statunitensi
vittime del terrorismo, e' giunto il tempo di avviare una riflessione
profonda sulle cause di tanto odio e di tanta disperazione e sulle risposte
che tutti noi oggi possiamo dare. E le risposte si situano, a mio parere,
almeno a tre diversi livelli di profondita': la mobilitazione contro la
guerra, il disarmo militare e il disarmo economico.
* Mobilitazione
Di fronte alla folle azione terroristica, l'unica reazione che l'Occidente
sembra contemplare - e gia' sta preparando - e' la guerra: una doppia
follia. Follia in se stessa, perche' anch'essa azione terroristica che
colpisce - ormai quasi esclusivamente - innocenti vittime civili, compiuta
da chi detiene il monopolio "legittimo" della forza; follia nelle
conseguenze, perche' - se non e' totale e sterminatrice ("hanno fatto un
deserto e l'hanno chiamato pace") - alimenta nelle vittime l'odio, la
disperazione ed ulteriori e piu' feroci azioni di terrore.
Di fronte alla follia del terrorismo ed alla doppia follia della guerra
l'unica risposta possibile e' la mobilitazione: una grande e determinata
mobilitazione pacifista e nonviolenta. La mia proposta e' di sospendere da
parte del movimento per la pace e la giustizia globale - gandhianamente -
tutte le iniziative di contestazione in programma per i prossimi mesi e di
concentrare tutti gli sforzi in un nostro grande appuntamento di massa: la
Marcia per la pace Perugia-Assisi del 14 ottobre prossimo.
Se cio' non bastera' a fermare la follia, bisognera' passare all'obiezione
di coscienza, alla disobbedienza civile ed all'azione diretta nonviolenta,
attive e diffuse.
E questo e' il compito di tutte le donne e gli uomini costruttori di pace.
* Disarmo militare
In questi cinquanta anni "di pace" decine e decine di guerre hanno
insanguinato tutti gli angoli del globo, causando milioni di morti. Gli
Stati Uniti sono stati coinvolti, direttamente o indirettamente, nella
maggior parte di esse: popolazioni civili in tutte le parti del mondo -
dalla Corea al Vietnam, dall'Irak alla Yugoslavia - hanno visto le bombe
americane cadere sulle loro teste, distruggere le loro citta', annientare le
loro economie. O sparare le armi occidentali vendute indiscriminatamente a
tutti i paesi in guerra.
La difesa degli interessi economici e strategici dell'Occidente ha visto
sempre di piu' - con un'accelerazione dopo la fine della guerra fredda -
l'uso della guerra calda per conseguire e mantenere il dominio ed il
privilegio. Cio' e' causa di disperazione, odio, desiderio di vendetta di
molte genti verso l'Occidente in generale e gli Stati Uniti in particolare.
E l'odio genera odio, la vendetta genera vendetta in una spirale senza
uscita fino all'uso, folle ma possibile, - e gia' sperimentato proprio dagli
americani - da parte di qualcuno della bomba atomica.
Ed allora solo il disarmo ci puo' salvare, solo la ripresa di una lotta
antica ("disarmo, vocabolo d'un tempo" dice Pietro Ingrao su "il manifesto"
del 16 settembre), contro tutti gli eserciti e tutte le guerre. E' quanto
hanno proclamato, ignorati dai piu', i 3.000 marciatori della Marcia
nonviolenta del 24 settembre 2000; e' quanto va recuperato oggi piu' che mai
in questo momento di follia.
E questo e' il compito di tutti gli amici della nonviolenza.
* Disarmo economico
Noi che viviamo "sicuri nelle nostre tiepide case" (Primo Levi, Se questo e'
un uomo), come potevamo pensare di poter continuare ancora a lungo nella
nostra sicurezza, quando sperperiamo avidamente, da soli, le risorse
naturali, energetiche ed economiche dell'umanita' intera? Quale sicurezza ci
siamo illusi essere possibile continuando a spartirci, nell'opulento
Occidente, l'86 % delle risorse di tutti; costringendo alla morte, nel
silenzio e nel buio delle televisioni, 30.000 bambini al giorno per fame?
Quali misure di sucurezza possiamo innalzare, quali armi possiamo inventare,
a difesa di un mondo nel quale 220 persone possiedono una ricchezza pari al
prodotto globale lordo della meta' piu' povera dell'umanita'? I peggiori
regimi tirannici della storia sono stati spazzati via per molto meno.
Ed allora ecco, di fronte a questa follia, la giusta ribellione dei popoli
di Seattle e di Porto Alegre, che si salda alla ribellione dei contadini
indiani, dei sem terra brasiliani e degli indios messicani. Ecco la lotta
per resistere alla violenza strutturale, della quale la violenza diretta
della guerra e' la difesa, e per costruire un'economia sobria, giusta e
sostenibile. E realizzare per questa via, finalmente, un mondo in cui tutti
abbiano diritto ad una vita dignitosa e libera dalla fame, dalla guerra e
dallo sfruttamento.
Ma, attenzione, i fatti di questi giorni ci ammoniscono, ancora una volta,
che solo la nonviolenza dei fini  e dei mezzi - alternativa radicale alla
violenza strutturale dell'ingiustizia e alla violenza diretta della guerra -
e' la strada da percorrere. Ogni altra strada, si sa dove inizia ma non si
sa dove conduce.
E percorre questa strada, oggi, e' il compito dei lillipuziani.

5. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: IL COLONIALISMO ITALIANO RIMOSSO
[Giulio Vittorangeli, una delle figure piu' limpide della solidarieta'
internazionale, e' tra i principali collaboratori di questo foglio]
La Conferenza mondiale sul razzismo (Durban - Sudafrica, 31 agosto - 7
settembre) si e' chiusa con una dichiarazione finale molto sofferta. Un
doppio compromesso (che ha scontentato molti) su due temi scottanti: la
schiavitu' e la questione mediorientale; quest'ultima aveva gia' provocato
il ritiro, per molti versi pretestuoso, di Stati Uniti e Israele.
E' rimasto in ombra il tema del colonialismo. Un tema completamente rimosso
dalla coscienza di noi italiani; mentre altri fenomeni come il fascismo e la
Resistenza sono compenetrati (bene o male) nel nostro presente.
Considerazioni come il fatto che fascismo e Resistenza li abbiamo vissuti
"sulla nostra pelle", mentre il colonialismo sono stati altri a viverlo
sulla loro, non spiegano tuttavia il fatto che quest'ultimo fenomeno abbia
conosciuto una vera e propria rimozione nella nostra coscienza nazionale; un
fenomeno, e questo va sottolineato, tuttora perdurante.
Si e' preferito, da sempre, occuparsi del colonialismo degli altri, invece
di guardare in casa nostra. Questa rimozione e' spiegabile, in larga parte,
con una decolonizzazione "subita" e con il silenzio, per molti anni, della
scuola dell'Italia repubblicana  sull'imperialismo coloniale.
Preciso che alcune considerazioni e alcuni dati di seguito riportati sono
tratti dagli Atti del seminario di studi storico italo-libici
(Siena-Pistoia, 13-14 gennaio 2000): "Un colonialismo, due sponde del
Mediterraneo", a cura di Nicola Labanca e Pierluigi Venuta, Editrice C.R.T.,
2000.
La decolonizzazione fu piu' subita dal contesto politico, che non voluta dai
nostri governi. I provvedimenti di epurazione del dopoguerra dei quadri
della pubblica amministrazione, furono limitati ai casi piu' vistosi e non
riguardavano comunque il colonialismo; di modo che al momento dello
scioglimento del Ministero dell'Africa Italiana (gia' delle Colonie), i suoi
funzionari di spicco andarono a ricoprire responsabilita' in punti chiave
delle strutture dello Stato, assicurando in questo modo la continuita', e in
alcuni casi il controllo esclusivo, della nostra storia coloniale.
Abbandonata ogni velleita' coloniale (perse tutte le colonie durante la
guerra 1940-43, persa la "battaglia" post-bellica per riottenere tutti o in
parte i vecchi territori oltremare), a meta' degli anni '50, la nuova classe
dirigente democristiana non seppe, o non volle, cogliere quegli elementi di
rinnovamento del nostro paese, che avevano avuto importanti espressioni nei
confronti dei paesi arabi con la politica di un Enrico Mattei su un piano
politico-economico e di un Giorgio La Pira su un piano culturale.
Cosi' i manuali scolastici della nuova Italia repubblicana, non
riesaminarono piu' o meno criticamente quel passato: semplicemente "persero"
le pagine o le righe in cui parlavano del nostro colonialismo. Mentre i
ragazzi che erano andati a scuola sino ai primi anni Quaranta erano stati
indottrinati sulla potenza italiana in Africa e sulla capacita'
colonizzatrice degli italiani, i ragazzi dei primi anni della Repubblica (se
non se ne fosse parlato a casa, in famiglia, nella politica) potevano
ignorare che il loro paese avesse mai avuto domini in Africa. L'imbarazzo
porto' al silenzio.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, la fase del silenzio fu superata. Ma si
fini' con l'oscillare tra la rivendicazione del passato coloniale e la
ripresa del trito argomento che la "giustificazione" dell'espansione
africana dell'Italia era l'esubero demografico. Fino a presentare l'impresa
d'Etiopia come sostenuta da un forte consenso interno: senza dire altro, ne'
sui libici, ne' sugli etiopici, ne' sui gas.
Come sui deportati libici nelle isole italiane tra il 1911 e il 1943. Erano
migliaia e gran parte di loro non sono mai ritornati, la sorte che e' stata
loro riservata resta totalmente sconosciuta. Si tratta di una questione che
tocca molte famiglie libiche, ferite mortalmente, che non sanno ancora
niente della sorte toccata ai loro congiunti. Tale questione e' all'origine
di drammi sociali e psicologici di cui e' difficile misurare l'ampiezza,
avendo la tragedia toccato moltissime famiglie libiche. Questa vicenda dei
deportati libici nei vari penitenziari italiani, resta una delle piu' cupe
vicende del colonialismo italiano, che mostra tutta la sua intima,
autentica, abiezione.
Oppure si accreditava la versione per cui l'Italia era andata a Massaua per
vendicare una strage compiuta da "indigeni" ai danni di innocenti
esploratori italiani; o che al colonialismo italiano era mancato solo il
tempo perche' potesse esprimere le migliori qualita' del popolo italiano.
Comunque si finiva, sempre, con l'assolvere in generale l'imperialismo: "il
colonialismo commise varie e grosse malefatte, tuttavia fece entrare nella
civilta' moderna paesi arretrati e cio' produsse innegabili benefici". Nelle
letture che accompagnavano i testi degli anni Cinquanta e Sessanta, o nelle
immagini e nei brevi approfondimenti che li illustravano, delle figure
classiche della colonizzazione, solo il colono era rimasto, come se avesse
fatto tutto da solo: e i soldati?
Ancora alla fine degli anni Sessanta, mentre l'Italia era profondamente
cambiata e le manifestazioni operaie e studentesche percorrevano il paese,
in alcuni manuali per la suola media si risentivano echi del passato, e di
autoassoluzione.
Finalmente negli anni Settanta cambia anche la scuola. E' definitivamente
cambiato anche lo scenario del cosiddetto Terzo Mondo, e sono bruscamente
cambiati anche i regimi politici nelle ex-colonie italiane. Nei nuovi
manuali si sente l'eco di questo, per quanto sfumato e, al fondo, non
soddisfacente. Anche se l'analisi del colonialismo e' chiara. La continuita'
di un'interpretazione prima esaltatrice, poi reticente e infine
auto-assolutoria era (almeno sui punti essenziali) finalmente rotta. Il
colonialismo internazionale e' infine definito come "conquista dei mercati".
Cosi' la conquista della Libia incontra consenso fra la classe dirigente e
fra gli italiani, ma all'origine di queste c'erano gli interessi del Banco
di Roma e dei nazionalisti.
Infine gli anni Ottanta e Novanta hanno visto, da un lato, il proseguire
dell'innovazione, offrendo ai giovani lettori documenti storici importanti e
che hanno raffigurato la controversa natura dell'imperialismo coloniale
italiano. Dall'altro, una sorta di basso profilo. Gli accesi dibattiti
storiografici di questi due decenni, ad esempio sul fascismo, si sono
riflessi anche in questi strumenti didattici: il revisionismo non e' stato
solo affare dei ricercatori, ma anche dei riproduttori di senso comune
storico e della scuola.
Rileggendo questi manuali scolastici appare piu' chiaro perche' generazioni
di italiani "non potevano", non sapevano, non erano state messe in grado di
capire cosa fosse davvero l'imperialismo coloniale. Quindi, opinione
pubblica non informata (o formata ancora come in antico), classe politica
non sensibile, in genere italiani disponibili piu' all'esotismo che alla
comprensione, ammissione di alcune vicende del proprio passato nazionale.
Tutte questo spiega il perdurare di una cultura colonialistica in Italia. La
decolonizzazione stenta a trovare il suo passo e questo costituisce senza
dubbio un'incuria, una macchia della nostra cultura. Una cultura che non ha
mai avuto da confrontarsi non tanto con i residui del colonialismo, fenomeno
storicamente concluso (altro discorso meriterebbe il neocolonialismo),
quanto con una mentalita' coloniale assai diffusa che continua a perdurare e
a proliferare anche in contesti diversi dal suo specifico.
Il bisogno sarebbe di rimuovere la rimozione coloniale, per integrarla alla
nostra storia nazionale. Ne' piu' ne' meno come per il fascismo, che anche
se o proprio perche' e' stato combattuto, non e' stato per questo espulso
dalla nostra storia. Lo spirito della nostra Resistenza puo' essere di
grande supporto a questo tipo di operazione; la Resistenza italiana e' stata
sempre dalla parte delle lotte di emancipazione dei popoli e non ha certo
avuto le ambiguita' del nostro Risorgimento, complice e attore del
colonialismo, straniero ed italiano, tanto nel pensiero quanto nell'azione;
e per venire a tempi piu' vicini, di molti uomini della Resistenza francese
che parteciparono attivamente alla repressioni coloniali: rivoluzionari in
casa, reazionari fuori.
Un ultimo, ma significativo, esempio del difficile processo di
decolonizzazione della nostra cultura. Non molti anni fa la sostanzialmente
mancata distribuzione in Italia del film sulla Resistenza libica
all'occupazione italiana: "Omar al-Mukhtar. Il leone del deserto"; nel
dubbio che la proiezione potesse porre problemi di "ordine pubblico",
analogamente a quanto era avvenuto in Francia con il film italiano "La
battaglia di Algeri". La vicenda del film sulla vita dell'eroe nazionale
libico, e' l'emblema del fenomeno della rimozione storica, della negazione
di sentimenti paritari - l'aspirazione alla liberta', per esempio - che
sempre ha infarcito e corrotto l'approccio con una nuova lettura del nostro
colonialismo.
E' scritto in un vecchio documento libico senza data: "Ne' la storia, ne'
gli scritti degli antichi, ci raccontano che un prigioniero catturato sul
campo di battaglia, vecchio di piu' di ottant'anni, sia stato condannato a
morte. Solamente al tempo dei fascisti cio' pote' accadere e far dimenticare
al mondo le ingiustizie dei secoli bui...".
Parole pesanti, pesantissime, anche se non tutti gli italiani di allora
erano fascisti, o crudeli, o razzisti. Ma quel peso ancora oggi ce lo
sentiamo - almeno dovremmo sentirlo - gravare sulla nostra coscienza.

6. ESPERIENZE. CRISTINA PAPA: "IL PAESE DELLE DONNE"
[Ringraziamo Cristina Papa che per la redazione de "il paese delle donne" ha
scritto questo articolo di presentazione. Per contatti: e-mail:
pdd at isinet.it, sito Internet: www.womenews.net]
Il "Foglio del paese delle donne" si avvia a compiere, ormai, il suo
quindicesimo compleanno. Siamo nate infatti nel 1985 come inserto del
quotidiano romano  "Paese sera".
Il movimento femminista italiano aveva  vinto da poco il referendum sulla
194, in ogni citta' migliaia di donne erano associate in gruppi e
collettivi, non solo per studiare la storia delle nostre antenate, ma per
discutere di politica, salute, sessualita', economia...
Tuttavia, nonostante la loro ricchissima elaborazione, le donne sembravano
invisibili per la maggior parte agli occhi dei mass media, anche quelli di
sinistra, se non come vittime di efferati delitti o di violenze.
Ogni settimana le nostre due pagine ospitavano resoconti di incontri,
articoli sulla salute, la sessualita', la politica, il lavoro, tutti
caratterizzati da uno sguardo totalmente "altro" rispetto a quello delle
normali pagine del giornale.
In anticipo su Indymedia, alcune di noi, mosse dalla convinzione che "non
bisogna credere nei media ma crearli" se si vuole far arrivare la propria
voce senza distorsioni, hanno dunque dato vita ad uno spazio autogestito
all'interno del quale potevano trovare espressioni le soggettivita'
femministe.
Fin dall'inizio "Il Paese delle donne" ha proposto le voci dei soggetti
politici con cui entrava in contatto senza sottoporle al filtro della
mediazione giornalistica: in pratica ogni lettrice e' anche una nostra
potenziale redattrice.
L'esperienza, durata due anni (cosi' che forse di anni ne abbiamo 17), era
stata troppo importante perche' potesse finire quando "Paese sera" fu
costretto a chiudere. Le fondatrici della testata, tra cui Maura Vagli,
Maria Paola Fiorensoli, Franca Fraboni e Marina Pivetta che continua a
svolgere la funzione di direttora, decisero di proseguire autonomamente. Ed
e' cosi' nata l'attuale associazione per l'informazione "Il paese delle
donne".
Il primo lavoro della redazione della testata autogestita e' stato quello di
costruire relazioni politiche con le altre.
Questa  rete di relazioni ha rappresentato il nostro capitale iniziale, che
e' andato crescendo con il tempo, il solo patrimonio su cui eravamo certe di
poter contare.
Forse proprio per questa abitudine a lavorare senza un vero centro, senza
una gerarchia tra la redazione di Roma, che e' quella che materialmente
confeziona il giornale, e le corrispondenti, Internet, ci e' apparsa subito
l'evoluzione  naturale della nostra pratica.
Nel bene e nel male il nostro settimanale e' stato, nei suoi 15 anni di
vita, uno specchio fedele di quanto accadeva nel femminismo italiano.
Il progetto politico intorno a cui e' nata la nostra testata era e rimane un
progetto  rivoluzionario, lo diciamo senza timore di sembrare presuntuose.
Continuiamo a pensarci come un luogo all'interno del quale ogni donna possa
esprimersi senza bisogno di dover mostrare credenziali, o dichiarare la
propria appartenenza.
Non ci interessava e non ci interessa far convivere gli opposti, crediamo
infatti che la vera crisi della politica sia data dall'omologazione e
dall'attenuarsi, fin quasi all'invisibilita', di ogni differenza.
Al contrario proprio le differenze volevamo e vogliamo mettere in campo,
nella certezza che solo dal loro rispettoso dialogare possano nascere
pratiche e azioni davvero capaci di cambiare il mondo. Questo mondo che non
ci piace.
La storia del movimento femminista, in Italia, e' strettamente intrecciata
con quella della sinistra. Non stupisce dunque che entrambi attraversino un
momento di crisi che, paradossalmente, non deriva da una sconfitta ma
dall'apertura (per quanto parziale) di spazi fino ad ora impensabili di
intervento sul reale.
Si possono forse dare valutazioni diverse sui femminismi degli anni '70 e
'80, sarebbe anzi importante discutere il come e il perche' e il quando e'
cominciata la frantumazione che ha tolto forza e visibilita' al movimento
politico delle donne.
Non c'e' dubbio pero' che e' dal femminismo, nei suoi molteplici aspetti,
che ancora, nonostante tutto, viene la critica piu' radicale dell'esistente.
Non c'e' antagonismo possibile se non si assume che non dipende solo da una
sorte cinica  e bara se il 70% della popolazione che nel mondo vive al di
sotto della soglia di poverta' e' composto da donne; se non si capisce ad
esempio che le lotte delle indiane contro i disboscamenti, le esperienze di
economia collettiva delle africane, l'impegno per la salute e per i diritti
riproduttivi in tanti paesi del mondo, rappresentano altrettanti convitati
di pietra intorno ai tavoli di coloro che esaltano il nostro modello di
sviluppo e auspicano il definitivo trionfo dei mercati come panacea per la
felicita' degli esseri umani.
La soluzione dei problemi posti dalle donne non e' riconducibile ad un "di
piu'", a qualcosa che semplicemente si affianca alle contraddizioni di
classe.
E che dire poi della famiglia e del rinascere di politiche familiste,
portate avanti anche dal centro sinistra? Quale societa' e' possibile
pensare se, parlando della riduzione dell'orario di lavoro, la stessa
sinistra fatica ad uscire dall'ambito di una critica tutta lavoristica e non
comincia ad interrogarsi piuttosto su cosa fare del tempo liberato, sulle
ricadute anche nei termini del rapporto personale/politico che essa apre?
Le donne hanno detto parole fondamentali sull'intreccio tra produzione e
riproduzione, spinte dal bisogno di conciliare i tempi piu' frenetici e
spersonalizzanti della prima, con quelli della cura che sono lenti e basati
sugli affetti.
Chi meglio delle donne potra' parlare di una politica che non scinde piu' il
corpo e la mente, i desideri e i bisogni? Chi meglio delle donne conosce gli
effetti micidiali che la politica puo' avere sulla vita quotidiana? Da chi
piu' che delle donne puo' venire una critica alla "Politica"?
Quale mondo diverso sara' possibile se si prescinde dalla contraddizione
primaria, quella non ricomponibile, tra i generi?
Il nostro giornale e', e puo' essere ancora di piu', uno spazio di
collegamento tra tutte le realta' politiche di donne, lo strumento per
costruire ponti e per percorrere insieme le une con le altre un cammino che
o e' comune o non e'.
Ospitiamo parole di donne, ma non e' solo a queste che ci rivolgiamo.
In questi anni sulle nostre pagine hanno trovato spazio, gli uni a fianco
degli altri, i contributi di quante lavorano all'interno delle istituzioni e
quelli di coloro che si muovono all'interno del mondo delle associazioni e
dei collettivi.
Abbiamo cercato di far giungere fino alle nostre lettrici gli echi delle
voci che si alzavano in Palestina, Kurdistan, Afghanistan.
Produzioni e autoproduzioni femministe hanno sempre trovato nel nostro
giornale un luogo di visibilita', soprattutto quando tutti gli altri media,
inclusi quelli della sinistra, glielo negavano.
Abbiamo seguito da vicino, e, nel nostro piccolo, crediamo, contribuito ad
organizzare, la Marcia delle donne, la protesta contro il disegno di legge
sulla procreazione assistita, la mobilitazione contro la guerra nel Kosovo.
Abbiamo fatto del pacifismo non un destino biologico ma una precisa scelta
di pratica politica, non a caso nel riquadro che affianca la nostra testata
si alternano da anni frasi contro la guerra e contro il silenzio impotente.
Questa e' la nostra ricchezza.
Si tratta di una ricchezza politica che stride forse con la nostra poverta'
monetaria.
Siamo state e restiamo infatti convinte che l'unico modo per garantire
liberta' al nostro giornale sia l'autofinanziamento e l'indipendenza da ogni
partito o organizzazione altra, per vicina che sia. Fino ad ora siamo andate
avanti contando solo sugli abbonamenti e sul nostro lavoro volontario. Ma
mantenere aperto questo spazio di parola costa sempre di piu', e per poter
continuare ad uscire, sia pur sempre con una grafica ridotta all'osso e con
una foliazione limitata alle attuali 16 pagine, abbiamo bisogno di nuovi
abbonamenti.
Abbiamo bisogno di nuovi contributi di idee e di parola da parte di donne
che vivono realta' diverse dalla nostra: nei partiti e nei centri sociali,
nelle istituzioni e nei tanti centri di documentazione, nelle associazioni,
nella scuola, nel mondo del lavoro.
Sappiamo quanto sia importante per la nascita e l'espressione di una
soggettivita' la memoria di se'. Restiamo convinte dell'esigenza di un
giornale che, come il nostro ha fatto in passato e spera di poter continuare
a fare, sappia far dialogare realta' apparentemente inconciliabili. A chi
legge, uomini o donne, la responsabilita' di far continuare il nostro
viaggio.
Abbonamento ordinario lire 70.000; abbonamento sostenitore lire 100.000;
abbonamento estero lire 150.000; Abbonamento telematico lire 40.000;
Collettivi e istituzioni lire 150.000: c/c postale 69515005 intestato a
"Associazione il Paese delle donne". Per informazioni: pdd at isinet.it, sito
Internet: www.womenews.net, recapito postale: via Matteo Boiardo 12, 00185
Roma.

7. MATERIALI. ROBERTO TECCHIO: IL LABORATORIO DI RICERCA E FORMAZIONE SULLA
GESTIONE NONVIOLENTA DEI CONFLITTI (PARTE TERZA)
[Ringraziamo Roberto Tecchio, formatore alla gestione nonviolenta dei
conflitti, per averci messo a disposizione questo testo. Proseguiamo oggi la
pubblicazione delle schede utilizzate nel laboratorio; il seguito
pubblicheremo nei prossimi giorni]
Scheda teorica n. 4
1.6. Percezione di problemi e problemi di percezione.
La vita e' una cosa meravigliosa, o una valle di lacrime?
La nostra percezione della realta' gioca un ruolo centrale nella genesi e
risoluzione dei Problemi e dei Conflitti che viviamo, tanto da poter dire
che il cambiamento di percezione e' l'obiettivo fondamentale nella gestione
costruttiva dei conflitti. Il cambiamento di percezione consiste nel
cambiare il proprio e/o l'altrui punto di vista rispetto a un determinato
problema o situazione, cioe' nel vedere le cose in modo significativamente
diverso da prima (1).
Il modo in cui percepiamo le cose dipende da molti fattori. Tra questi, per
il discorso che stiamo facendo, riveste particolare importanza la nostra
concezione della realta', cioe' le idee e le opinioni che ci siamo costruiti
circa la realta'. Il modo in cui concepiamo la realta' si forma naturalmente
nella cultura in cui nasciamo e cresciamo, si apprende e si trasmette
piuttosto inconsapevolmente, e una volta formatosi non si cambia tanto
facilmente. Per esempio e' frequente osservare che una volta che mi son
fatto un'idea "su" di una persona (positiva o negativa che sia) nella
relazione con essa tendo poi a percepire tra le tante cose che essa dice e
fa solo quelle che confermano la mia idea di partenza. Finche' non accade
qualcosa che svela il pregiudizio e' difficile rendersi conto di questo
fenomeno. Cosi' accade che chi e' cresciuto in una cultura razzista (o
maschilista) tende a vedere veramente la propria superiorita' e l'altrui
inferiorita' come un fatto assolutamente naturale, e ai suoi occhi la
cosiddetta "realta' dei fatti" non fara' altro che confermargli questa idea,
anche di fronte alle prove piu' evidenti. Insomma, cio' che chiamiamo
realta' e' qualcosa che si puo' manipolare con grande facilita', anche in
buonissima fede, per cui va a finire che si vede cio' che si e' abituati a
vedere, o che si vuol vedere. Ecco perche' e' cosi' difficile (far) cambiare
idea e perche' la forza della ragione da sola non basta: bisogna toccare il
cuore delle persone se si vuole operare un cambiamento vero, profondo,
efficace (2).
Infine meritano un accenno altri due fattori che incidono in modo molto
pesante sulla percezione e che, da notare, sono strettamente legati alla
dimensione del disagio: i bisogni e le paure in senso lato. Per es. il
bisogno (o desiderio) di mangiare a tarda notte mi fa andare verso la
pizzeria che conosco e di cui vedo l'insegna luminosa a molta distanza, ma
quando sono in prossimita' mi rendo conto che l'insegna e' del bar accanto.
E anche la paura gioca brutti scherzi quando ne siamo preda.
Il rischio di cadere in queste trappole, che mantengono l'ignoranza e le
cattive abitudini con tutte le loro tragiche conseguenze, e' purtroppo
altissimo e sempre presente (e naturalmente e' presente anche in questo
scritto). Allora l'obiettivo della conoscenza, ovvero della comprensione di
cio' che chiamiamo realta', richiede una grande capacita' di osservazione e
di discernimento, che vada ben oltre il dato percepito dai sensi: come
dicono i poeti e i saggi "l'essenziale e' invisibile agli occhi". Da cio'
deriva la necessita' di sviluppare quella misteriosa facolta' umana che
chiamiamo consapevolezza (3).
Cos'e' un Problema?
Tornando alla nostra mappa concettuale, cioe' alla definizione di conflitto
qui proposta (che, ricordiamolo, ci serve unicamente per "stare dentro"
quella realta' che chiamiamo conflitto allo scopo di esplorarlo,
comprenderlo e quindi gestirlo positivamente), possiamo cercare ora di
capire meglio quella componente del conflitto che qui chiamiamo Problema.
All'inizio ne abbiamo dato una definizione (vedi punto 1.2.), proviamo ora a
usare altri termini quasi come a cambiare "punto di vista".
Potrei dire di trovarmi di fronte ad un problema ogni qualvolta nella
relazione (con me stesso, o con gli altri, o con le cose) c'e' qualcosa che
secondo me non va come dovrebbe andare e, nello stesso tempo, desidero
portare un cambiamento: insomma, c'e' qualcosa che non-accetto. Se
restringiamo il campo alle sole relazioni umane, la formula potrebbe essere
la seguente: tu fai qualcosa che non dovresti fare / tu non fai qualcosa che
dovresti fare.
Oppure potrei dire di trovarmi di fronte a un problema ogni qualvolta ho un
bisogno e qualcuno o qualcosa interferisce nel soddisfacimento di tale
bisogno. Per esempio devo prendere l'automobile, ma ce n'e' un'altra in
doppia fila che me lo impedisce.
Queste diverse formule possono esserci d'aiuto nel risvegliare la
consapevolezza di trovarci di fronte ad un problema (il famoso campanello) e
dunque metterci nelle condizioni di agire in modo appropriato, o comunque
diverso dal solito.
Non c'e' problema!...
Ma chi stabilisce che un problema e' un problema? Esistono problemi
oggettivi? La percezione di un problema, o di un bisogno, abbiamo visto che
e' legata a un insieme di fattori che, in ultima analisi, sono soggettivi,
per cui il problema c'e', esiste, nel momento in cui io lo vedo. Pertanto
non ha molto senso parlare dell'esistenza oggettiva dei problemi coi' come
non ha senso parlare della non esistenza dei fantasmi a una persona che li
vede e ne e' terrorizzata. Forse si puo' anche dire che i problemi spesso
esistono "solo" nella testa delle persone che li hanno, ma bisogna pure
riconoscere che quei problemi non restano affatto rinchiusi in quelle teste,
bensi' escono e condizionano anche pesantemente la vita di chi e' in
relazione con quelle persone (e non solo, come testimoniano i quotidiani
fatti di cronaca nera).
Allorquando una persona mi fa presente di avere un problema con me (o che ha
un problema con altri, come spesso accade quando si rivolgono a noi per un
aiuto), rispondergli che tale problema "per me" non c'e', e' come minimo una
grave superficialita', frutto di abitudini comunicative disfunzionali dalle
conseguenze distruttive. I problemi cosi' tendono a peggiorare e a
trasformarsi in conflitti, le relazioni s'indeboliscono e si deteriorano
anche se sul momento tutto sembra andar bene. In pratica quindi risulta
molto piu' funzionale e costruttivo riconoscere immediatamente l'esistenza
dei problemi invece di negarli o di ricercarne l'oggettiva esistenza,
tenendo ben presente pero' che riconoscere non vuol dire essere d'accordo. A
partire da questo riconoscimento (che, da notare, e' in sostanza il
riconoscimento dell'altro, del suo vissuto, della sua esperienza - vedi
cioe' tutto il discorso sull'accettazione), poi, nel processo della
comunicazione, la percezione del problema si trasformera', aumentando o
diminuendo financo a scomparire.
1. Sul cambiamento di percezione vedi P. Watzlawick et alii, Change,
Ubaldini, che seppur datato (e non a caso molto ristampato) rimane un testo
agile e straordinariamente ricco per la comprensione di questo processo, da
loro chiamato "ristrutturazione cognitiva", che svolge un ruolo centrale
nella risoluzione dei conflitti. Per quanto concerne lo specifico approccio
nonviolento, va tenuta in considerazione la fondamentale opera curata da G.
Sharp (direttore del Program of Nonviolent Sanctions in Conflit and Defense
della Harvard University), Politica dell'azione nonviolenta, tre volumi,
Edizioni Gruppo Abele; in particolare il terzo volume nella parte
riguardante le diverse possibilita' di risoluzione nonviolenta del
conflitto.
2. Gandhi afferma di aver cominciato a capire, credere e praticare la
nonviolenza nel momento in cui si rende conto che per ottenere cambiamenti
significativi non basta toccare la ragione ma bisogna toccare il cuore delle
persone, e come cio' comporti inevitabilmente una disponibilita' sincera a
soffrire, cosa possibile solo attraverso le qualita' dell'amore (vedi
Gandhi, op. cit. nel capitolo "cos'e' la nonviolenza").
3. Gandhi insiste molto sulla "ricerca della verita'"  come processo
incessante di conoscenza su cui si fonda l'azione nonviolenta (vedi Gandhi,
op. cit.). Su cos'e' e come si puo' sviluppare la consapevolezza, vedi C.
Pensa, op. cit.
(Continua)

8. LETTURE. LUIGI BONANATE, DEMOCRAZIA TRA LE NAZIONI
Luigi Bonanate, Democrazia tra le nazioni, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp.
216, lire 22.000. Utilissimo per ogni operatore di pace e di giustizia. Un
dono grande che Bonanate ci ha fatto.

9. LETTURE. PIER PAOLO PORTINARO, IL REALISMO POLITICO
Pier Paolo Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari 1999, pp.
152, lire 14.000. Eccellente messa a punto del tema, utile sia come prima
introduzione che come ricapitolazione suscitatrice di ulteriori riflessioni
e ricerche.

10. LETTURE. JOSE' RAMOS REGIDOR, NATURA E GIUSTIZIA
Jose' Ramos Regidor, Natura e giustizia, Emi, Bologna 2000, pp. 192, lire
20.000. Un libro che propone "un'etica ecosociale a partire dal Sud del
mondo". Scritto con la consueta profonda lucidita' e passione dell'autore,
che salutiamo con affetto.

11. MATERIALI. PER STUDIARE LA GLOBALIZZAZIONE: DA JOHN RAWLS A DOMENICO
SERENO REGIS

* JOHN RAWLS
Profilo: filosofo americano, nato a Baltimora nel 1921, docente ad Harvard.
La sua opera Una teoria della giustizia è da decenni un punto di riferimento
nel dibattito contemporaneo su temi etici, giuridici e politici, ed un
classico del pensiero democratico. Opere di John Rawls: il suo libro
fondamentale, del 1971, è Una teoria della giustizia, Feltrinelli; cfr.
anche la raccolta di saggi La giustizia come equità, Liguori. Cfr. inoltre
Hiroshima, non dovevamo, Reset, Milano 1995.

* SATYAJIT RAY
Profilo: regista cinematografico indiano, nato a Calcutta nel 1921 e
deceduto nel 1992.

* GIOVANNI REALE
Profilo: docente all'Universita' Cattolica di Milano, e' uno dei massimi
studiosi italiani di filosofia antica.

* BETTY REARDON
Profilo: si occupa di educazione alla pace presso il Teachers College
Columbia di New York. Opere di Betty Reardon: Militarismo e sessismo,
Satyagraha, Torino 1984.

* CLEMENTE REBORA
Profilo: poeta italiano (1885-1957); nella sua vicenda biografica dopo una
già significativa esperienza pedagogica e letteraria (nell'area della
 "Voce") ebbero grande rilevanza il trauma della guerra e la conversione al
cattolicesimo (abbracciò il sacerdozio); la sua poesia è di straordinaria
tensione stilistica e morale. Opere di Clemente Rebora: le Poesie sono
disponibili in una buona edizione economica presso Garzanti.

* MARIA TERESA REGARD
Profilo: eroina della Resistenza, è deceduta nel febbraio 2000.

* DOMENICO SERENO REGIS
Profilo: limpido e tenace promotore della nonviolenza. Alla sua memoria è
intitolato il centro studi dei movimenti nonviolenti di Torino. Opere su
Domenico Sereno Regis: cfr. la serie di interventi di autori vari (Beppe
Marasso, Enrico Peyretti, Gian Enrico Ferraris, Pietro Polito, Rodolfo
Venditti)  sotto il titolo complessivo Ricordo di Domenico Sereno Regis, in
"Azione nonviolenta", n. 1-2, gennaio-febbraio 1991. Cfr. anche la
testimonianza di Angela Dogliotti Marasso in AA. VV., Le periferie della
memoria, ANPPIA - Movimento Nonviolento, Torino - Verona 1999. Indirizzi
utili: Centro Studi "Domenico Sereno Regis", via Garibaldi 13, 10122 Torino.

12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

13. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ;
per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben at libero.it ;
angelaebeppe at libero.it ; mir at peacelink.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 233 del 19 settembre 2001