UNA PROVOCAZIONE: EMIGRAZIONE RECIPROCA E SOLIDALE



Mi permetto di inoltrarvi questo contributo pubblicato da alcuni siti web (scusandomi per la sua arrischiata schematicità) che intende suggerire una riflessione sulla governance dei flussi immigratori in termini non ristretti ed unidirezionale; per esempio ragionando sull'opportunità di un'integrazione sempre più stretta tra l'operato del Ministero degli Interni, del Lavoro/Welfare e degli Affari Esteri in tema di politiche migratorie.

 

Rodolfo Ricci

 

 

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UNA PROVOCAZIONE: EMIGRAZIONE RECIPROCA E SOLIDALE

Emigrazione Notizie 2006

di Rodolfo Ricci

Che l’attuale immigrazione in Italia e in Europa sia decisiva per il mantenimento del nostro sistema di welfare e pensionistico è cosa ormai condivisa. Così come la funzione che essa svolge nel riequilibrio del rapporto natalità/mortalità in aree del mondo in cui l’entusiasmo va scemando.
Servirà anche, e sarebbe una nota negativa, a mantenere a livelli alti il tasso di obesità della popolazione autoctona dell’occidente?

A cose analoghe è servita la nostra emigrazione nel corso del ‘900, per i paesi di arrivo: ripopolazione o colonizzazione di aree desertiche non antropizzate, sostituzione della schiavitù, ecc.; valorizzazione, in fin dei conti, del capitalismo locale o multinazionale in cerca di occasioni di redditività oltre quelle consentite nei paesi di prima industrializzazione o, successivamente, in quelli che avevano subito lo shoc della seconda guerra mondiale....

Paolo Cinanni, assieme a Carlo Levi uno dei fondatori della FILEF, in “Emigrazione e imperialismo” (Ed. Riuniti, Roma, 1968), fa un’analisi originale e semplice di ciò che significa importare a prezzo zero, cioè gratuitamente, milioni di esseri umani in età lavorativa in un paese che ha bisogno di braccia, i quali uomini e donne però sono cresciuti e sono stati allevati a spese di un altro paese, di altre comunità; Cinanni si serve, per far comprendere questo ragionamento, del calcolo di redditività degli animali da lavoro (per. es. buoi e cavalli), alla fine di un periodo in cui, questi animali erano stati importanti per la produzione agricola: il vantaggio è enorme.

In un’economia sempre più “immateriale”, dove la risorsa umana (cioè l’intelligenza umana) è decisiva per lo sviluppo, il calcolo diventa più problematico, ma i valori di questa risorsa, se si vuole, a parità di soggetti, possono decuplicare, centuplicare…. Non è un caso che si vanno affermando, accanto alla costruzione di muri e barriere, ipotesi (in Italia) e già prassi altrove (in Germania, USA, ecc.) come quella di agevolare e incentivare l’immigrazione di cervelli cresciuti e prodotti dal terzo mondo: una ennesima, colossale rapina.

L’immigrazione è un formidabile travaso di energie e di valori economici e culturali da un paese ad un altro; il paese che riceve questa risorsa non ha investito nulla per la sua crescita e per la sua formazione muscolare ed intellettiva e si ritrova con un bene enorme ed insperato che, a rigore, non gli spetterebbe, almeno senza alcuna controparte; paesi come gli USA o il Canada o l’Australia, debbono ciò che sono a questa semplice condizione; paesi come la Germania hanno prosperato grazie a questa disponibilità. Paesi come l’Italia, che avevano esportato gratuitamente la propria risorsa umana essenzialmente per la ragione storica di non saperla gestire e opportunamente valorizzare, li stanno ora emulando.

L’incapacità di gestire i propri tesori deriva solitamente da arretratezza (arretratezza culturale, politica, o dell’incapacità di ottimizzare i fattori produttivi da parte del capitale nazionale). Farli gestire da altri, più avanzati, rassicura, solitamente, società arretrate e le stabilizza su rapporti sociali arretrati e conservatori. E’ per ciò che il circuito emigratorio, ritarda sempre l’evoluzione dei paesi di origine. La storia italiana del ‘900 potrebbe essere letta, almeno parzialmente, anche in questa chiave.
Ma ciò che ci interessa è l’attualità: sono oltre 200 milioni le persone in movimento nel mondo da paese a paese; si tratta già oggi, se le mettiamo tutte insieme, del 4° o 5° paese per dimensioni; se sommiamo i flussi di migrazione interna anche a grandi paesi, come la Cina, o il Brasile, o di altri paesi asiatici e africani, questa popolazione in movimento supera le dimensioni della popolazione degli Stati Uniti d’America; vale a dire che dopo Cina ed India, il popolo migrante sarebbe il terzo popolo del mondo.

E’ indubbio che esso costituisce la linfa della produttività e della valorizzazione capitalistica ovunque esso si trovi, come è indubbio che rispetto ad una massa così ampia di persone, il sistema di diritti nei singoli paesi e a livello internazionale mostra delle carenze impressionanti: esse non sono così evidenti come dovrebbero, per la semplice ragione che nessuno rappresenta adeguatamente nei consessi internazionali, la condizione specifica del popolo in movimento: esso non dispone di organi di stampa, non dispone di una propria soggettività politica.

E’ solo una sorta di concime prezioso, di vena aurifera che consente a questo sistema produttivo di continuare a prosperare e ad autovalorizzarsi. E parallelamente a mantenere i rapporti di forza e di potenza tra paese e paese a livello mondiale. Le difficoltà di integrazione, le dinamiche interetniche spesso negative che si sviluppano dentro le società di accoglimento sono, da questo punto di vista, semplici corollari, seppure appaiono molto pregnanti sul piano della cronaca sociale e politica e della gestione amministrativa dei paesi di arrivo.
In un seminario che realizzammo nel 2005 a Porto Alegre, nell’ambito del V° Forum Sociale Mondiale, ponemmo l’accento sul fatto che esiste un flusso (rimesse) in senso inverso rispetto ai flussi emigratori –cioè danaro che viaggia dai paesi di nuovo insediamento dei migranti verso i paesi di origine – che ormai supera di gran lunga la somma degli IDE (investimenti diretti dall’estero) e degli aiuti allo sviluppo messi assieme.

Vale a dire che l’emigrazione dai paesi poveri e in via di sviluppo verso i paesi ricchi o verso i paesi di nuova industrializzazione, finanzia (o meglio, sarebbe in grado di finanziare) lo sviluppo dei paesi di origine ben più del complesso delle misure di cooperazione, di assistenza e degli investimenti diretti di capitali privati.

E’ questo uno di quei singolari casi della storia, per i quali l’emigrazione, come un novello Re Mida, trasforma in oro tutto ciò che tocca: i paesi di arrivo e i paesi di partenza. O almeno potrebbe farlo.
Se non fosse che gli enormi flussi finanziari indotti, anzi prodotti dai redditi del popolo migrante, sono gestiti da altri: il sistema finanziario internazionale, con le proprie banche, o i singoli paesi, la cui azione, raramente garantisce l’investimento oculato e mirato, soprattutto sociale, che sarebbe necessario per la loro crescita; nel più frequente dei casi questa enorme mole di danaro che si aggira sui 250 miliardi di dollari l’anno, torna, come un canale artificiale debitamente orientato, nella disponibilità e nelle dinamiche del capitale finanziario internazionale, oppure viene gestito in termini clientelari dalle istituzioni, non raramente affette da ampi fenomeni di corruzione, dei singoli paesi.

E’ la stessa cosa che è accaduta nell’arco del secolo scorso con le rimesse dei siciliani o dei sardi, o dei campani emigrati, che sono state gestite più da Milano e Torino che da Palermo, o da Napoli o da Cagliari. Il ritardo di sviluppo delle nostre regioni meridionali può essere letto anche in questa chiave: non solo sono partiti uomini e donne, ma sono ripartiti – o sono state malamente utilizzati - anche i capitali che questi uomini e donne avevano inviato ai luoghi di origine.
I flussi di capitale di ritorno (o di merci come i sacchi di carbone dal Belgio secondo l’accordo del 1956), in cambio di flussi di risorse umane non sono quindi sufficienti a riequilibrare la perdita netta di enormi possibilità di sviluppo.

Sarebbe necessaria un’altra condizione: che accanto all’emigrazione di imponenti masse di persone e alla disponibilità di capitali derivanti dai loro redditi, si registrasse l’immigrazione "progettuale, bilateralmente concordata e programmata" di masse, meno imponenti, di capitale umano qualificato dai paesi avanzati verso i paesi poveri, e, parallelamente, di investimenti nei sistemi di welfare locali che consentano la crescita dei sistemi di educazione, della salute, della piccola impresa familiare e cooperativa soprattutto in agricoltura, ecc..
Questa potrebbe essere una delle condizioni decisive per consentire che le rimesse degli emigrati dai paesi ricchi, possano essere valorizzati in loco: poiché non si dà alcuna valorizzazione senza l’attivazione -o l’innesco- delle risorse umane, degli uomini e delle donne in carne, ossa e cervello.

Si potrebbe quindi concludere con una utopica indicazione, da far assurgere a suggerimento, direttiva o risoluzione dell’ONU e che ogni paese dovrebbe impegnarsi a ratificare e far proprio:
“Per ogni flusso migratorio da sud a nord di persone con bassa qualificazione si incentivi un flusso migratorio da nord a sud di un numero x di tecnici per un periodo determinato”.
Ponendo x = a 10, a fronte dei 250 milioni di emigrati oggi nel mondo, si tratterebbe di far emigrare (in via provvisoria e in un arco di tempo sufficientemente lungo, diciamo 10-20 anni) 25 milioni di tecnici verso i paesi sottosviluppati o in via di sviluppo. Considerando l’alto livello di disoccupazione intellettuale nei paesi ricchi, la cosa, da un punto di vista teorico, non solo sarebbe possibile, ma per molti potrebbe risultare soggettivamente più entusiasmante di una cosiddetta fuga “da cervelli” da occidente a occidente. Ma diciamo pure che il 10% è eccessivo: ragioniamo sull’1%, cioè 2,5 milioni di persone da tutto l’occidente messo insieme, oppure, più realisticamente, posizioniamoci sullo 0,1%: 250.000 tecnici suddivisi in quote tra i diversi paesi.
E il 50% di questa cifra facciamolo venir fuori da percorsi di riqualificazione approntati ad hoc per gli stessi immigrati che arrivano a nord: riqualificare un consistente numero di immigrati per prepararli ad un rientro da attori dello sviluppo dei propri paesi. Parallelamente impegniamoci a stimolare le rimesse degli emigrati sulla base di accordi bilaterali o multilaterali che prevedono investimenti mirati allo sviluppo; (tra l’altro incentivare le rimesse contribuisce a tenere sotto controllo il nostro tasso di inflazione).

Non stupisca troppo la apparente banalizzazione o schematicità del ragionamento: considerando il mondo per quello che già oggi è, e cioè come “un unico paese globale”, cosa che le giovani generazioni saranno necessariamente chiamate a fare più di quanto oggi non accada, le questioni identitarie (che tanto ci affannano) appaiono molto più relative; o meglio l’identità può ben rientrare nell’ambito che gli spetta, quello individuale, e sparigliare l’abito neo-con che negli ultimi anni gli si è cucito intorno.

Siamo cioè dell’opinione che bisognerebbe incentivare - e finanziare attraverso i fondi della cooperazione centrale e decentrata, attraverso fondi comunitari, ecc.- questo tipo di emigrazione o di scambio che può anche chiamarsi di mobilità solidale (e che richiama quella derivante dai programmi di incentivazione alla mobilità e all'integrazione nello spazio europeo): soprattutto la nostra, verso gli altri lidi. La prima, quella che arriva da noi, è il prodotto fisico di enormi disequilibri tipici dei vasi comunicanti; la seconda, quella qui auspicata, sarebbe un atto politico e consapevole dell’intelligenza raggiunta su questo pianeta. Si tratterebbe cioè del più grande progetto di cooperazione che l’umanità è in grado di mettere in atto. Siamo coscienti che possono anche insorgere dubbi e perplessità pressanti relativamente alla questione del rispetto dei potenziali diversi modelli di sviluppo, della conservazione delle specificità e dei patrimoni culturali e quindi al rischio di nuove colonizzazioni, ecc. ecc.: tutte questioni non infondate.

Diciamo allora che l’obiettivo (e il vincolo) può limitarsi al conseguimento dell’autosufficienza alimentare e della costruzione di un adeguato sistema educativo e sanitario.

UTOPIA? Probabilmente; ma chi si sarebbe aspettato, 30 anni fa, che il microcredito di Muhammad Yunus oggi valorizzato dal Nobel, fosse così efficace al punto da sfamare oltre 200 milioni di famiglie e così redditizio da contravvenire alle leggi ferree (ed ideologiche) della valorizzazione del capitale finanziario come la si è intesa per oltre 5 secoli in quella parte di mondo che chiamiamo occidente ?
Mi fanno notare che la differenza sta proprio qui: quella è stata una scoperta ad una “autoproduzione” di uno dei paesi più poveri al mondo, il Bangladesh; nel nostro caso si tratterebbe invece dell’ espressione di una volontà politica dovrebbe emanare essenzialmente da nord verso sud: cosa più complessa e improbabile. Però potrebbe trattarsi di una sfida – magari rivista, corretta e ridimensionata - da prendere in considerazione anche unilateralmente, da parte di un paese che ha ottenuto il 98% dei voti quale membro non permanente delle Nazioni Unite.


Rodolfo Ricci
(Segr. FIEI e Coordinatore FILEF)

rodolfo.ricci at email.it