LATINOAMERICA - seminario Il riscatto delle popolazioni indigene




Roma - 23 novembre ore 10,00 -13,00  15,00 -18,00
Seminario "Il riscatto delle popolazioni indigene dell'America Latina"
Sala congressi Università La Sapienza - Via Salaria 113
intervengono

Adolfo Pérez Esquivel, Premio Nobel per la Pace argentino

Luis Evelis, presidente ONIC (Organizzazione Nazionalità Indigene Colombia)

Luis Macas, presidente CONAIE (Confederazione Nazionalità Indigene Ecuador)

Blanca Chancoso, leader movimento donne indigene ecuadoriane

Oscar Olivera, rappresentante della Coordinadora del agua y la vida e dei
movimenti sociali boliviani

Eugenio Rojas, sindaco di Achacachi, municipio indigeno aymara, Bolivia

Carlos Montemayor, giornalista e scrittore messicano, esperto della
questione indigena

 Introducono:

Angelo Bonelli, Assessore all'ambiente della Regione Lazio

Giuseppe De Marzo, portavoce dell'associazione A Sud

Moderatore:

Gianni Minà, direttore della rivista Latinoamerica



Uno degli effetti più palesi del vento politico di rinnovamento che ha
cominciato a spirare in America latina con l’affermazione di governi
progressisti in Brasile, in Venezuela, in Argentina, in Uruguay e in parte
in Cile è rappresentato dal riscatto delle popolazioni indigene, vittime
del colonizzatore, ma non dome, che stanno cambiando il presente e forse il
futuro di nazioni come la Bolivia, l’Ecuador e prossimamente forse il Perù,
il Guatemala e la stessa Colombia senza legge.

Tutto è cominciato con la rivolta zapatista del ’94 nel Chiapas messicano,
dove gli eredi dei Maya, con l’aiuto di un intellettuale bianco come
Marcos, “rieducato” dalla cosmovisione di quelle popolazioni millenarie, ha
cambiato non solo l’agenda politica del Messico, ma ha offerto un segnale
forte di una umanità decisa a riappropriarsi del proprio destino e decisa a
imporre ai governi idee e scelte di solidarietà e di rispetto verso chi
fino ad allora non era praticamente esistito. Con  questo superando le
logiche stesse di far politica dei partiti della sinistra latinoamericana,
abbandonati al proprio destino dopo la fine della Guerra fredda e il
tentativo degli Stati Uniti di affermare, nel continente, le ricette
dell’economia neoliberale più estrema.

Il Brasile, che elegge, tre anni fa, Lula, operaio metallurgico, alla
presidenza del paese, è il segno della vittoria di una società civile, fino
a pochi anni fa sfiduciata, narcotizzata dal potere, confluita invece ora
in un progetto, il PT (partido dos trabalhadores), nato vent’anni prima
come movimento sindacale autonomo, proprio dalle macerie dei partiti della
sinistra tradizionale.

Non è un caso che quel partito-antipartito, pur con tutte le sue
contraddizioni, sia stata la fucina del Forum Social Mundial di Porto
Alegre, vero laboratorio politico dell’universo degli esclusi di tutto il
mondo, ma in particolare dell’America latina alla ricerca della propria
identità e del proprio rinascimento, dove certamente ha preso corpo, fra i
tanti aneliti, l’idea dell’ineluttabilità del riscatto delle popolazioni
indigene.

Questo riscatto in Bolivia ha visto gli indigeni Aymara contrastare,
lottare, pagare un prezzo di vite umane, ma arrivare ad espellere dal paese
due presidenti corrotti in due anni (Sanchez de Lozada e Mesa) che volevano
privatizzare l’acqua e svendere il gas naturale del quale è ricca quella
terra, a vantaggio del solito cartello di multinazionali del petrolio. Lo
stesso riscatto ha animato la rivolta degli indigeni Quechua in Ecuador
contro il colonnello Gutierrez (eletto anche dagli indigeni, ma che, in
pochi mesi aveva tradito e stava svendendo il paese alle multinazionali
degli Stati Uniti). Una pagina che ha segnato un momento fondamentale nel
futuro di tutto il movimento indigeno del continente, dal Perù allo stesso
Brasile, dove le popolazioni amazzoniche da tempo lottano contro la
deforestazione e le colture transgeniche, purtroppo recentemente accettate
dal governo Lula. Fortissimo si leva ora anche il grido degli indigeni
colombiani, specie del popolo U’wa, contro le violenze rappresentate dagli
oleodotti e dai gasdotti che stanno disintegrando l’ecosistema di un paese
già ferito dal narcotraffico, dalla guerriglia, ma innanzi tutto da un
esecutivo, quello di Alvaro Uribe, che governa sotto braccio agli squadroni
della morte. E poi il Perù di Toledo, che ha tradito le sue stesse origini
e che sta per riconsegnare il paese ai seguaci del dittatore Fujimori. In
un certo qual modo anche la democrazia bolivariana di Hugo Chavez in
Venezuela è l’affermazione di un movimento che ha saputo dare una coscienza
e risvegliare le speranze del popolo dei ranchitos, il popolo indigeno
degli esclusi, degli “invisibili” delle case di fango, cinque milioni di
persone che non erano iscritte nemmeno all’anagrafe.

Un quadro complesso, che l’Europa, che fino a ieri si guardava l’ombelico
soddisfatta,  non ha capito, salvo la Spagna, e non riesce a interpretare
nemmeno quando questo esercizio viene tentato dalle forze in teoria
progressiste.



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