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rifliessioni di Ingrao e Cardini su cuba
- Subject: rifliessioni di Ingrao e Cardini su cuba
- From: "Nello Margiotta" <animarg at tin.it>
- Date: Wed, 16 Apr 2003 13:26:11 +0200
Le prigioni di Cuba http://www.ilmanifesto.it/oggi/art4.html PIETRO INGRAO Le notizie che giungono da Cuba sono allarmanti e non consentono silenzi. Il 3 di aprile si sono svolti in diverse sedi dell'isola processi contro 78 «dissidenti», o - per usare parole più secche - oppositori del regime castrista. Sommando le varie condanne comminate a questi oppositori si arriva a centinaia e centinaia di anni di carcere. Sono cifre agghiaccianti. E per questi processi parlare di rito sommario è un eufemismo un po' ridicolo. Né si può ingannare noi stessi: è impossibile che in questi veri e propri processi lampo siano stati garantiti elementari diritti di difesa, né ci si sia stata quella necessaria, elementare prudenza, che pure è il sale obbligato, quando si decide sulla libertà o sulla prigionia degli individui e dei gruppi. Gli imputati erano oppositori del regime castrista, anzi - usiamo pure la parola forte - cospiravano contro il regime? E che altro essi potevano fare visto che a Cuba difettano essenziali diritti di parola, di organizzazione, di lotta politica pubblica e riconosciuta? E questo ancora oggi, dopo quarant'anni dai giorni dell'insurrezione armata e della emergenza rivoluzionaria. E inoltre dove sta scritto che anche ai cospiratori in manette - quando non sono in condizioni di nuocere - non si possono, non si debbano concedere elementari poteri e strumenti di difesa? La giustizia - questa parola così solenne e alta - ha bisogno come il pane del contraddittorio pubblico e prolungato. Senza di che l'aula del tribunale diventa una farsa, un inganno feroce. Ancora all'inizio di aprile - con un intreccio allucinante - si è tenuto a Cuba un altro processo, che ha portato alla condanna a morte di tre giovani che avevano sequestrato un traghetto per raggiungere la costa degli Stati uniti. Chi scrive nella sua vita ha imparato ad odiare la condanna a morte - questo agghiacciante potere di uccidere colui che sta già in manette e stretto dentro le mura di un carcere. Ma quella condanna a morte che si consuma e si compie quasi in un lampo, e non consente appello e rifiuta persino un momento di esitazione davanti all'uccidere l'inerme - è davvero qualcosa di ripugnante. Ed è ingannevole: si illude di cancellare con la mano del boia i problemi politici e umani che non sa risolvere. Si dirà: tutto questo è necessario a Castro per tutelarsi dai complotti americani. Io temo invece che ciò aiuti Bush a dire: vedete come è indispensabile la superpotenza americana... Tale è il quadro amaro. Io non dimentico ciò che dall'insurrezione cubana è venuto come speranza e simbolo per un Terzo mondo soffocato dall'imperialismo, e anche per la difficile lotta della sinistra anticapitalistica nell'Occidente avanzato. Anche se personalmente io ebbi dubbi, tanti, davvero tanti - e dall'inizio - in quella seconda metà del Novecento ponemmo il ritratto del «Che» sul cassettone di casa, e cantammo nei cortei quella canzone indimenticabile. E credo di afferrare, di capire quanto ancora oggi Cuba agisca come speranza: prima di tutto per il continente centro-americano in cerca di riscatto, e oltre ancora. E ancor più adesso che la superpotenza americana ha proclamato - dinanzi al mondo - l'avvento dell'era della «guerra preventiva». Ma tanto più se la questione è ormai questa - e si vede sul campo - non possiamo illuderci di superare una tale prova con i processi sommari e le fucilazioni fulminanti. Sento repulsione per quelle nuovissime carceri di Guantanamo, dove non esiste più nemmeno la protezione, il ritrarsi in sé che dà il buio della cella. Ma come posso contrastare le allucinazioni di Guantanamo se ricorro alla pena capitale contro dei fuggiaschi riagguantati e ormai con le manette ai polsi? La battaglia contro Bush e contro la dottrina della «guerra preventiva» chiede altre strade: nuove e diverse. E si nutre di pacifismo, non di carceri e manette persino assurde, e di boia macchiati di sangue. Un intellettuale, grande amico di Cuba, il nobel Saramago ha dichiarato il suo dissenso. E' una scelta che chiama al coraggio della verità, e Dio sa se ce ne vuole dinanzi alle prove aperte nel mondo. Fidel Castro tragica illusione http://ilmattino.caltanet.it/hermes/20030416/NAZIONALE/PRIMA_PAGINA/FERRO.ht m Franco Cardini Viviamo decisamente tempi di ferro e di sangue. Ci siamo a lungo illusi. Parlo anzitutto e soprattutto per me, la generazione nata intorno alla guerra, quella che nel '56 si è innamorata dell'Ungheria, negli anni Sessanta ha sperato nella pace e nella convivenza pacifica insieme con Papa Giovanni, più tardi è variamente rimasta incantata e imbrigliata nei miti del Sessantotto. Parlo per me, dicevo: ma potrei aggiungere che sto parlando anche a nome e per conto di altri, forse un po' più giovani, forse un po' più vecchi di me. Siamo restati un po' tutti legati a questi miti. La guerra nel Vietnam, l'Era dell'Acquario, Joan Baez e la sua voce calda e profonda che ci parlava della distesa delle Americhe, ci parlava di libertà, ci diceva che ce l'avremmo fatta. In un modo o nell'altro, lo abbiamo amato tutti, Fidel. Posso testimoniarlo appieno, personalmente, perché allora io ero un ragazzo che militava nelle formazioni dell'estrema destra: e, contro il parere dei nostri padri e dei nostri fratelli maggiori per i quali era solo un «comunista», anche noi andavamo pazzi per lui. Era l'uomo della politica tradotta nelle dimensioni della generosità e dell'avventura. Era un po' Robin Hood, un po' Garibaldi, un po' un personaggio uscito dai libri di Conrad e di Melville. Era un restauratore della giustizia, un riparatore dei torti, uno che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Prima di lui, la sua splendida isola circondata dall'Atlantico era un covo di biscazzieri, di puttane d'alto bordo, di perdigiorno e di profittatori d'ogni genere. A capo di un governo fantoccio, asservito agli Stati Uniti, c'era un gorilla in uniforme, un volgare rozzo assassino. Fidel, allievo dei gesuiti, giovane cattolico irrequieto che leggeva Bernanos e si ispirava ai primi eroici e puri falangisti spagnoli, quelli sacrificati dalla furia repubblicana e dal cinismo di Franco, quel Fidel ci piaceva, ci incantava. Era dritto, lucido, pulito come una spada appena uscita dalla forgia. Così, ci turammo il naso e guardammo dall'altra parte, tanto per usare le figure retoriche care al vecchio Montanelli. Vedemmo che il giovane Castro, la divisa color oliva e la lunga barba ispida, trasformava sempre più la sua bella isola in un felice Paradiso che somigliava tanto, però, a un campo di concentramento. Dietro di lui, il colosso sovietico. Ma noi ci ripetevamo: che cos'altro avrebbe potuto fare, con gli americani lì a due spanne, in Florida, pronti a riportare nell'isola i tiranni e i profittatori di una volta, pronti a ricostruire in Cuba il Paradiso artificiale dei biscazzieri, dei bordellieri, dei padroni dei panfili di lusso? Si instaurò così uno dei più rigorosi ma anche dei più feroci regimi comunisti della storia. E anche uno dei più arbitrari. Fidel era tutto: era il compagno, il Duce, il padrone. Scorrazzava per l'isola, aveva sempre una donna nel suo letto e un nuovo sigaro Avana tra le labbra. Era un autocrate. Però è vero anche che aveva restituito ai suoi isolani uno straccio di nobiltà e di dignità: è vero che aveva fatto fiorire l'isola di scuole, di ospedali, di pubbliche istituzioni. Gli americani lo assediavano e quasi lo aveva ridotto alla fame. Ma i suoi cubani reggevano, non lo tradivano. E c'era chi, nel suo nome, sognava di esportare la sua rivoluzione, il comunismo puro e pulito delle origini, quello che egli senza dubbio, un giorno, aveva sognato. Non si capirà mai se veramente il "Che" partì dall'isola per esportare il verbo castrista in tutto il mondo, a cominciare dall'Africa; o se invece se ne andò perché in fondo tutto questo per lui era una pura locazione d'opera mercenaria, un lavoro sporco al servizio dell'Unione Sovietica; o se invece, infine, anche lui, Ernesto Guevara, fuggiva dalla tirannide dell'amico diventato padrone, fuggiva dall'ombra delle sue illusioni e delle sue delusioni per andar a morire nella foresta sudamericana, sacrificato al suo sogno perduto di giustizia e di libertà. Lo abbiamo visto tutti, nel 1998. Era un Fidel diverso, cambiato. Era invecchiato e pure stava ancor ben dritto sulla sua schiena, sulle sue spalle ampie. Aveva dimesso l'uniforme color oliva, non portava nemmeno quella divisa vagamente sovietica, da generale russo sull'orlo delle dimissioni, che non gli aveva mai donato. Era un Fidel nuovo tutto vestito di blu, con una bella cravatta e una camicia di buon taglio; stava dritto dinanzi al vecchio Papa, al capo della sua religione, della fede che da giovane aveva seguito fedelmente ed entusiasticamente. Quel Fidel in blu, nel quale si indovinava ancora l'ombra del giovane falangista allievo dei gesuiti, ora recitava dinanzi al Pontefice di una Chiesa che egli aveva fin lì duramente perseguitato la sua lezione. Cuba è felice, Cuba è libera, Cuba è colta; abbiamo gli ospedali e le scuole migliori d'America, l'alfabetizzazione è vinta, abbiamo il tasso più alto di laureati di tutto il continente americano. Era vero. Resta vero e resterà vero per sempre. Ma quel che Fidel taceva, questo Fidel in inedita versione cattolica davanti al capo della sua Chiesa, era la somma immensa di sangue e di lacrime che il progresso cubano era costato. Fidel taceva i morti, i torturati, i chiusi in prigione, taceva anche le ragazze cubane che egli, alla vigilia degli anni Sessanta, aveva salvato dai bordelli di lusso di Batista per ridurle poi, qualche decennio più tardi, a prostituirsi ai turisti occidentali in cambio di qualche abituccio di seta, di qualche cena al ristorante. Questa era la tragica verità dell'uomo attorno al quale era crollato tutto, dalla raccolta dello zucchero fino alla società senza classi. Cuba, quella Cuba di cui si era innamorato il vecchio Hemingway, era ormai l'ombra atroce, lo scheletro sanguinante di quel che non era mai stato. Ci siamo illusi. Abbiamo sperato indomitamente, in questi cinque anni, che il disgelo cubano stesse facendo progressi. Le chiese si erano riaperte, nell'isola si respirava un clima nuovo: se ne accorgevano persino i distratti turisti occidentali. Forse, se avessimo avuto il coraggio di guardar bene dentro l'infinito orrore di quell'illusione, ci saremmo accorti che tutto era come prima. Poi, qualche giorno fa, le truci, inutili scariche di fucileria per tre dirottatori di un traghetto. Davanti a una America nuova, a un governo statunitense sempre più aggressivo e fanatizzato, forse il vecchio dittatore cubano ha perduto quel po' di testa che l'avanzata età gli aveva ancora lasciato. Un inutile giro di vite. I suoi colleghi dittatori di qualche decennio fa, gli uomini come il generale Franco e il maresciallo Tito, avevano cercato nell'ultima parte della loro esperienza politica e della loro esistenza di addolcire il tallone della dittatura e di preparare i loro rispettivi Paesi a un trapasso democratico. Non c'era niente altro da fare. Il semifascista Franco e il comunista eretico Tito erano dei condannati dalla Storia: ammesso che la Storia possa davvero assolvere o condannare qualcuno. Sapevano che la democrazia liberale avrebbe prima o poi fagocitato le loro nazioni. Franco è riuscito nell'intento; Tito ha fallito. Ma entrambi avevano seguito la via della graduale liberalizzazione. Speravamo che anche questa sarebbe stata la scelta di Fidel. Le scariche di fucileria dell'altro ieri ci hanno richiamato a una triste, fredda, atroce realtà. Il dittatore Castro vuole lasciarci di lui una memoria macchiata di sangue. Dio sa se io ti ho amato, Comandante. Nella mia quasi vecchiaia, non mi aspettavo da te questo dono avvelenato. Il dover pensare alla tua memoria come a quella di un vecchio assassino. I giovani assassini si perdonano: spesso sono dei crudeli idealisti. I vecchi assassini, quelli che odiano chi lasciano al mondo e vorrebbero che il mondo sparisse con loro, non hanno remissione. Cercherò di pregare per te Comandante. Ma non riuscirò a perdonarti l'avermi strappato la mia ultima tenace illusione politica. Addio. Franco Cardini
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