Dopo l'Argentina puo' toccare al Venezuela e alla Colombia



(IL Manifesto)
Sudamerica, un virus di nome Tango
Il crack dell'Argentina era atteso da un anno e la tesi ufficiale è
"tranquilli, Buenos Aires non è contagiosa". Ma almeno due paesi
sudamericani sono sul punto di esplodere. In Venezuela, il presidente Chavez
è ai ferri corti con Washington e si parla di golpe (o autogolpe). In
Colombia, Usa ed esercito spingono il presidente Pastrana alla guerra con le
Farc, l'ultimatum scade domani. Dopo 15 anni di democrazia formale, se
saltano Bogotà e Caracas salta l'intero modello dell'America latina
MAURIZIO MATTEUZZI
Dopo l'Argentina, il cui crack era atteso da almeno un anno, ci sono altri
due anelli deboli nella catena latino-americana che saranno - o potrebbero
essere - i prossimi a saltare. Il Venezuela e la Colombia. Se uno dei due
salterà sarà difficile continuare a sostenere la tesi ufficiale di
"tranquilli, l'Argentina non è contagiosa". Perché se è vero che si tratta
nei tre casi, come sempre, di situazioni differenti e non immediatamente
comparabili, altrettanto evidente è che il precipitare della crisi in tre
paesi così diversi in tempi così stretti sarebbe la riprova di una
instabilità nuova e inquietante in una regione che dopo 15 anni di
neo-liberalismo economico più o meno assoluto e di democrazia politica
formale sembrava pacificata - o rassegnata - sotto il "consenso di
Washington". Nel senso di Casa bianca e Fondo monetario. Fatte salve le
singole specificità, risulterebbe chiaro che il modello proposto (imposto)
non funziona.
Il Venezuela è quello che presenta più analogie con il caso argentino.
Perché se in Argentina c'è la grande paura che il governo Duhalde torni al
vecchio populismo, corredato dai suoi due aggettivi specificativi:
nazionalista e protezionista, il presidente Hugo Chàvez populista,
nazionalista e protezionista lo è per definizione. Solo che, finora, da
quando ha vinto a valanga le elezioni del dicembre '98 e si insediato nel
palazzo presidenziale di Miraflores di Caracas nel febbraio '99, la
"rivoluzione bolivariana" si era limitata più che altro a incendiari
proclami retorici - contro le élite "corrotte e cleptocratiche" dei due
partiti storici, contro i "pescecani" dell'oligarchia economica, contro "la
disumanità" del mercato e delle ricette neo-liberiste, contro "le
imposizioni" prepotenti degli Stati uniti e del Fondo monetario. Eccessi
verbali che gli venivano perdonati - come l'eccessiva amicizia per Fidel
Castro - con qualche sorriso di sufficienza, anche in nome del fatto che il
Venezuela è il secondo fornitore di greggio degli Usa e che le sue riserve
vengono solo dopo quelle dell'Arabia saudita e del Mar Caspio (che poi sono
la vera ragione delle guerra americana "al terrorismo").
Ma ora che il prezzo del petrolio è di nuovo crollato, che la sua popolarità
è in caduta verticale (dal 90 al 19%), che la povertà angosciosa in cui si
dibatte incredibilmente l'80% della popolazione dell'Eldorado venezuelano
non accenna a diminuire, che ha deciso di dare un giro di vite in materia
economica con 49 decreti presidenziali che toccano la proprietà della terra,
le royalities petrolifere e i diritti di pesca, evidentemente ha passato il
segno e nulla gli viene più perdonato. L'oligarchia politica, economica,
sindacale e sociale, annientata dall'ondata chavista in sei o sette elezioni
in due anni, ha ripreso fiato. Il 10 dicembre una inedita coalizione fra
Federcamaras (l'organo del padronato locale) e Ctv (il sindacato
tradizionalmente legato al vecchio duopolio
social-democratico/social-cristiano che ha (s)governato per quasi 40 anni)
ha proclamato un "paro", a La Carlota e negli altri barrios di lusso di
Caracas sono cominciati i cacerolazos, l'ex presidente socialdemocratico
Carlos Andres Perez (cacciato a suo tempo per corruzione) dal rifugio di
Santo Domingo ha fatto sapere di essere pronto a tornare per assumere la
guida di "un governo provvisorio".
L'11 settembre è stato un punto di svolta anche per il Venezuela. La
minaccia di Bush "o con noi o contro di noi" ha cominciato a macinare
Chavez. Le sue dichiarazioni contro il "Plan Colombia", contro l'Alca -
l'Accordo di libero commercio delle Americhe proposto/imposto da Bush ai 34
paesi "democratici" dell'America latina a partire dal 2005 - e in favore del
rilancio del Mercosud, al quale il Venezuela "bolivariano" vorrebbe aderire
al più presto, avevano già fatto scattare l'allarme a Washington, come pure
i suoi sforzi come membro influente dell'Opec per tagliare la produzione e
tentare di risollevare il prezzo del greggio. Ma sono state le sue dure
critiche dei bombardamenti americani sulla popolazione civile afghana -
equiparati al "terrorismo" di Osama bin Laden - la classica goccia che ha
portato a una prima rottura, con il richiamo a Washington "per
consultazioni" dell'ambasciatore Usa. La signora Donna Hrinak è poi tornata,
dopo qualche giorno, a Caracas, ma ormai il count-down è cominciato. Ai
primi di gennaio, l'ambasciatore Hrinak andata di persona a recare conforto
alla redazione di El Nacional, uno dei grandi giornali venezuelani,
attaccato prima da Chavez per "il suo terrorismo mediatico" e poi da una
folla di sostenitori chavisti. L'ex-gauchista peruviano Mario Vargas Llosa
ha messo ancora una volta la sua penna al servizio del "libero mercato"
scrivendo sui giornali di mezzo mondo le sue considerazioni su Chavez - "un
demagogo, un inetto, un ignorante" - e sul suo "delirio populista". Chavez
ha risposto con il solito furore ai critici di dentro e di fuori. Se prima
diceva che la "rivoluzione bolivariana" è "pacifica", adesso ricorda che
"questa è una rivoluzione armata" e che se "l'oligarchia ha le pentole, il
popolo ha i caccia F-16, i missili e i cannoni. E dopo il crack argentino ha
girato il coltello nella piaga affermando che "solo fino a pochi anni fa
l'Argentina ci era presentata come un modello da seguire: neo-liberalismo,
mercato, privatizzazioni, modernità... Noi abbiamo portato il Venezuela
fuori da quella strada".
In Venezuela sono sempre più frequenti le voci di un golpe. Che potrebbe
assumere anche le forme di un auto-golpe.
L'11 settembre del "con noi o contro di noi" è stato decisivo anche per la
Colombia. I tre anni di negoziati fra il governo del conservatore Andres
Pastrana e le Farc, il principale gruppo guerrigliero, sono stati dichiarati
falliti dal governo domenica 13 gennaio. Che accusava del fallimento le
Farc: che rifiutavano ostinatamente di recedere dalla richiesta che
cessassero l'accerchiamento delle forze armate e i voli spia americani sull'
"area di distensione" concessa alla guerriglia nel novembre '98 -
"Farclandia", nel sud colombiano, 42 mila chilometri quadrati, grande come
la Svizzera -; che avevano approfittato dei tre anni di negoziati per
riarmarsi e addestrarsi in nuove tattiche terroriste; che avevano
incrementato il narco-traffico; ma, soprattutto, che respingevano le
pressioni per dichiarare un cessate il fuoco immediato sospendendo la
pratica dei sequestri di persona e degli attacchi alle infrastrutture.
Le Farc di Manuel "Tirofijo" Marulanda, ribattevano che la sospensione del
fuoco doveva essere il risultato e non il preambolo dei negoziati e che
erano disponibili a continuare i negoziati, che la decisione di rompere era
del governo e Pastrana si era piegato ai voleri di Bush.
Pastrana aveva dato 48 ore di tempo alle Farc per sgombrare "Farclandia",
poi l'esercito avrebbe avuto mano libera. L'ultimatum scadeva alle 21.30 di
domenica 13 poi rinviato di 24 ore per dare tempo ai tentativi di mediazione
dell'ultimo minuto. Lunedì 14, dopo un'intera giornata di negoziati,
l'inviato dell'Onu, l'americano James LeMoyne, vescovi cattolici e gli
ambasciatori del gruppo dei 10 "paesi amici", costituitosi nel febbraio 2001
e fra cui ci sono Svizzera e Italia, riusciva a convincere le Farc ad
accettare in via di principio la principale richiesta di Pastrana: "Ci
impegnamo a negoziare un cessate il fuoco". Lunedì notte il presidente
colombiano è apparso in tv per annunciare che i negoziati riprendevano ma ha
concesso solo sei giorni alle Farc per fissare "il calendiario di un
accordo" che deve portare "alla cessazione delle ostilità", completa, ossia
comprendente "la sospensione di sequestri, sabotaggi e attacchi alla
popolazione civile".
Il nuovo ultimatum scade domani, domenica 20 gennaio. Ma è quanto mai
improbabile che si possa arrivare a una soluzione con una guerriglia in
attività da 40 anni e che controlla il 40% del territorio. Ed è lo stesso
quanto mai improbabile che le principali richieste contenute nell'agenda in
14 punti consegnata dalle Farc al momento dell'avvio dei negoziati - fra cui
la sospensione del pagamento del debito estero, la riforma agraria e forti
misure per la redistribuzione del reddito - possano essere accettate da
un'anatra zoppa quale è Pastrana (le elezioni presidenziali sono fissate per
maggio) e soprattutto dagli americani.
In questi tre anni non solo le Farc si sono rafforzate militarmente ma anche
le forze armate, che addestrate dai berretti verdi Usa (ce ne sono come
minimo già 500 in attività nel paese andino) hanno più che raddoppiato i
loro effettivi (da 20 a 50 mila), hanno messo in piedi forze di rapido
intervento e brigate anti-guerriglia, hanno avviato un piano di fumigazione
indiscriminata delle colture di coca, e soprattutto hanno - nonostante le
critiche internazionali - rafforzato in numero e capacità operative i
paramilitari di estrema destra delle Auc (Autodefensas unidas colombianas),
da sempre usati come forza di complemento anti-guerriglia per i lavori
sporchi.
Il Plan Colombia, votato dall'amministrazione Clinton nel giugno 2000, è
stato il punto di svolta: 1.3 miliardi di dollari di aiuti militari per la
guerra al "narco-traffico", che per gli americani vuol dire
"narco-guerriglia". Tanto più dopo l'11 settembre, quando il dipartimento di
stato ha messo nel listone di "gruppi terroristi" le Farc e l'Eln (il
secondo principale movimento guerrigliero, impegnato in negoziati di pace
cominciati venerdì 11 gennaio all'Avana, con la mediazione del solito gruppo
di "paesi amici"). Ai primi di gennaio la signora Anne Patterson,
ambasciatrice Usa a Bogotà, ha consegnato a Pastrana 16 elicotteri da
combattimento Black Hawks, presto arriveranno altri 30 elicotteri Huey.
I margini di manovra politica sono sempre più stretti, mentre Amnesty
International lancia invano l'allarme sull'"impatto disastroso" che la
rottura del processo di pace avrebbe sulla popolazione civile di Farclandia,
120 mila campesinos destinati a diventare le vittime sacrificali delle
rappresaglie incrociate dei militari, dei paramilitari e della guerriglia.
Il modello dei negoziati-mentre-si spara non è più praticabile. Ma nessun
altro modello è alla vista, in una situazione come quella in cui si trovano
la Colombia e gli Stati uniti. Una guerra strisciante che non ha soluzione
militare e che ha già fatto 40 mila morti rischia da un momento all'altro di
esplodere in una guerra "sempre più civile e meno militare - come dice
Augusto Ramirez Ocampo, ex ministro degli esteri ed ex negoziatore con le
Farc - in cui qui continuerà a morire più gente che in Kosovo e in
Afghanistan".






Nello

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