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ricordare Romero



In molti luoghi della Terra - e in molti luoghi italiani  in questi giorni 
si commemora l’anniversario della morte di monsignor Oscar Arnulfo Romero, 
arcivescovo di San Salvador, assassinato con un colpo di fucile mentre 
celebrava una messa. Sono passati 22 anni da quel giorno, eppure milioni e 
milioni di cattolici (ma non solo di cattolici e non solo di cristiani) 
continuano a farne memoria.
Fare memoria non significa ricordare. Fare memoria significa rendere 
attuale un fatto, un protagonista, le ragioni di quel fatto, la fisionomia 
di quel protagonista, come se fossero accanto a noi, per noi significanti. 
E allora: attuale El Salvador, abbandonato dai riflettori della cronaca, 
dopo una guerra civile che lo ha allagato di sangue? Attuale un uomo morto 
da tanto tempo, senza lasciare trattati teologici, faraoniche costruzioni, 
opere d’arte, congregazioni religiose, istituti secolari? Attuale un santo 
che il Vaticano non ha (ancora?) riconosciuto come tale? Attuale il suo 
“caso” quando cento altri si sono accumulati in questi anni?
La gente risponde che sì. Romero non è mai stato un mito e sono i miti ad 
avere bisogno, per sopravvivere, di mass-media, di omaggi formali, di 
ceralacche apposte a pergamene fra volute d’incenso; e sono i miti ad 
essere logorati dalle celebrazioni, ridotti spesso  a statuine per i 
cruscotti delle automobili o a grandi statue per le piazze, a devozioni che 
sfiorano la magia, a titolari di santuarî che richiamano allegri picnic più 
che meditazioni evangeliche.
Romero è stato un mito soltanto per i suoi avversari, quelli che lo hanno 
descritto come un “vescovo rosso”, perché stava dalla parte dei poveri e si 
opponeva, fino a morirne, all’ordine pubblico degli squadroni della morte. 
Mentre lui camminava per i villaggi della sua terra, fra donne violate e 
campesinos uccisi dopo elaborate torture, l’ambasciatore del Salvador 
presso la Santa Sede, nella sua suite al Grand Hotel, offriva a importanti 
monsignori cene prelibate e ghiotte notizie: quel Romero permette che i 
suoi preti alternino la mitraglietta all’aspersorio, dicano la messa 
fumando e usino il caffè invece che il vino per le eucarestie. I monsignori 
prendevano nota. Cinque dei sei vescovi del Salvador odiavano Romero: uno 
di loro amava vestirsi da colonnello dell’esercito, un altro i campesinos 
lo chiamavano “tamagàs” che è il nome di una vipera velenosa e versipelle. 
Su questo Romero che non voleva capire che Mosca e Belzebù erano alle porte 
scrivevano a Roma lettere collettive, in cui la frase più tenera suonava 
così: un povero pazzo. Quanto ai nunzi apostolici, vescovi ridotti a fare i 
diplomatici, tutti a dire: quest’uomo crea turbamenti fra Stato (fascista) 
e Santa Sede. Si ingigantì così il mito del vescovo che “piaceva ai 
guerriglieri”, del vescovo-Che Guevara, o, la caricatura del povero, 
ingenuo monsignore strumentalizzato dai comunisti.
Se non fossero odiosi certi giochi di parole, si potrebbe dire che Romero 
non fu un mito, fu un mite. Soltanto contro chi osava ordinare il genocidio 
dei poveri la sua voce ebbe accenti infuocati. Per il resto la verità è che 
egli, a una immensa turba di poveri, che per secoli si erano troppo spesso 
sentiti predicare soltanto la croce dei doveri, diede l’annunzio che 
accanto ai doveri essi avevano dei diritti, e li esortò a chiederne il 
riconoscimento, mettendosi insieme, nella nonviolenza attiva. No, non fu un 
vescovo “rosso”, la sua intransigenza nei confronti del materialismo 
dialettico fu sempre ferrea. Ma fu un vescovo “liberatore”. Aveva scritto 
un poeta che, a causa delle continue repressioni, ogni salvadoregno nasceva 
già mezzo morto. Romero si chinò su quelle mezze-vite ascoltandole e 
facendone suoi i dolori e poi annunziando loro: siete i figli prediletti 
del vangelo.
Fu immensamente amato dai poveri. e forse in tanta avarizia di 
riconoscimenti da parte del Vaticano non c’è soltanto il peso di parole 
profetiche annotate come “eccessive”, ma anche un grano di invidia da parte 
di coloro che vorrebbero essere chiamati padri  da ricchi e da poveri e in 
realtà sanno bene che il vero amore cristiano viene da coloro che hanno 
fame e sete di giustizia.
La gente (molta gente) sente che quel monsignore, il quale, nella prima 
parte della sua vita conobbe soltanto la pratica della preghiera e 
dell’elemosina, ma poi si lasciò convertire dal popolo, è un santo che si 
vorrebbe avere per amico; ed è per questo che alla fine di ogni mese di 
marzo gremisce le chiese nel suo ricordo. E nel ricordo di Romero, il 
popolo cristiano scopre che il suo sangue germina sacerdoti e vescovi che 
affrontano intrepidamente gli oppressori dei poveri, proferendo il “Non ti 
è lecito!” che fu di Giovanni il Battezzatore: vescovi e preti assassinati, 
per questo, come i sei gesuiti salvadoregni massacrati nel 1986. il vescovo 
guatemalteco Gerardi, e forse il colombiano Duarte; vescovi in costante 
pericolo di vita, oggi, come alcuni brasiliani, haitiani, africani.
Aveva detto, un giorno, Romero: “Se mi uccideranno, risorgerò nel cuore del 
mio popolo”. Erano passati 12 anni dal suo martirio quando fu firmato l’ 
accordo di pace fra il governo salvadoregno e le forze guerrigliere. Quel 
giorno, nella piazza del palazzo presidenziale, ebbe luogo una grande 
festa: finalmente dopo tanti anni i salvadoregni potevano radunarsi senza 
paura: muchachos con il fazzoletto rosso del fronte rivoluzionario accanto 
a quelli con le divise dell’esercito, in pace. Famiglie disgregate si 
ricomponevano dopo anni d’assenza. Poi le orchestrine cominciarono a 
suonare, centinaia di coppie si allacciarono nelle danze. Su una facciata 
della cattedrale c’era un’immensa fotografia di Romero con la scritta: 
“Monsignore, sei risorto nel cuore del tuo popolo”: Passando accanto a quel 
muro, i ballerini buttavano baci. Qualcuno, tenendo la dama o il cavaliere 
con la sinistra, si faceva il segno della croce. Non dimenticherò mai 
quello spettacolo: e penso che pochi santi abbiano avuto una così gioiosa, 
affettuosa canonizzazione.


Ettore Masina