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Lettera aperta alle donne e agli uomini di buona volontà



Cari amici,
vi invio il testo di una LETTERA APERTA pubblicata oggi nel libro DOV'È LA
PACE SULLA TERRA.
UN SALUTO.
P. OTTAVIO RAIMONDO

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NOVITÀ
Dov’è la pace sulla terra?
Lettera aperta alle donne e agli uomini di buona volontà
pp. 160  Lire 13.550  € 7,00   Disponibile dal 12 dicembre 2001

Dov’è la pace sulla terra? è una lettera aperta che nasce in occasione del 
Natale 2001 e viene presentata nella Giornata Mondiale di digiuno per la 
pace del 14 dicembre 2001 e nella Giornata Mondiale della Pace del 1° 
gennaio 2002, ma va al di là di questi eventi. La firma di  personaggi e 
responsabili di organismi vari e i numerosi documenti e articoli che la 
accompagnano danno alla pubblicazione un valore di grande attualità e ne 
fanno un prezioso strumento di riflessione sulla pace.
I documenti riportati sono:
Le implicazioni etiche della globalizzazione (Giovanni Paolo II);
Dialogo tra le culture per una civiltà dell’amore e della pace (Giovanni 
Paolo II);
Ai leader del G8 (il Manifesto dell’associazionismo cattolico, Genova, 7 
luglio 2001);
Globalizzazione per l’uomo (card. Dionigi Tettamanzi);
Dopo Genova, quale azione per i cattolici?(Riccardo Moro);
Una convivenza a servizio dell’uomo (card. Carlo Maria Martini);
Giustizia, responsabilità e conversione(Presidenza della Commissione delle 
Conferenze Episcopali della Comunità Europea - COMECE);
La globalizzazione dal basso.Il ruolo della società civile mondiale e 
dell’Europa (Quarta Assemblea dell’Onu dei Popoli);
Le apocalissi dell’11 settembre (Enzo Bianchi);
Ringraziare e condividere (Angelus, 11 novembre 2001);
Digiunare e pregare per la pace (Angelus, 18 novembre 2001);
Obiettori di coscienza alla prova della guerra(Alberto Guariso);
Uno sguardo diverso. La crisi internazionale vista dal Ciad (Fraternità 
missionaria a N’djamena).
I nomi di chi ha sottoscritto la lettera aperta si trovano elencati dopo il 
testo che riportiamo qui di seguito.


Lettera aperta alle donne e agli uomini di buona volontà
“DOV’È LA PACE SULLA TERRA?”

Dunque Natale. Natale 2001. Così, è iniziato il terzo millennio. Il 
secondo, nel suo ultimo, grande e tragico secolo, si era chiuso con grandi 
speranze: caduta finalmente la contrapposizione tra Oriente e Occidente, 
sbriciolato il muro di Berlino, dissolto l’e-quilibrio del terrore. 
C’eravamo lasciati alle spalle la guerra fredda. La pace sembrava iniziare 
un nuovo, imprevisto cammino. È vero, erano cresciuti i conflitti, a 
partire dalla guerra del Golfo e poi, via via, insieme agli antichi focolai 
(Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Israele-Palestina), i nuovi (la Cecenia, 
il Sudan, il Kosovo, l’Africa dei diamanti e del petro-lio, i mille 
focolai, vecchi e nuovi, dell’inquieta Asia: Mindanao, Molucche, Kashmir…). 
Eppure, nonostan-te tutto, sembravamo entrati in un’epoca nuova, fuori 
della minaccia atomica. Certo bisognava speri-mentare strumenti politici 
per regolare efficacemente
i conflitti, ma si avvertiva comunque un dilatarsi nella coscienza non solo 
del bisogno di pace, ma di rifiuto della guerra, dei suoi armamentari 
bellici, una crescita della consapevolezza del valore della scelta non 
violenta, del suo significato sociale e politico. Basti pensare a quanto è 
cresciuta nel
nostro Paese, ad esempio, la domanda di obiezione di coscienza, che ha 
espresso una dimensione formativa e di proposta personale e sociale di 
grande spessore. Era una domanda di pace che aveva le sue radici anche 
nelle intuizioni della Pacem in Terris (1963) di Giovanni XXIII e 
nell’itinerario di rinnova-mento proposto dal Concilio. Di fatto negli 
ultimi venticinque anni migliaia e migliaia di giovani nel nostro Paese 
hanno reso credibile e possibile la speranza di una pace insediata nella 
coscienza, nel modo di vivere, alimentando progetti sociali, di impegno 
civile, per preparare un’alternativa alla guerra, alle spese militari, fino 
a parlare della pos-sibilità di una difesa non basata sulla potenza e il 
potere delle armi. Non erano e non sono giovani ai margini della società 
(molti oggi sono adulti, professionisti qualificati), ma persone desiderose 
di collocare questa scelta di coscienza a servizio del bene comune e che, 
insieme a tante donne e uomini di questo Paese, hanno fatto crescere una 
nuova concezione della politica e del suo rapporto con l’economia e la 
finanza. Questa scelta, legittima e riconosciuta, non solo non è stata 
subìta, ma promossa come valore nella società, nelle comunità cristiane, 
nell’associazionismo di diversa ispirazione ideale. Molte realtà sociali, 
esperienze vive di impegno anche a livello internazionale, sono maturate 
dentro questo clima e hanno restituito a tutti una speranza di pace e non 
violenza possibile e reale, pur in mezzo al conflitto e all’esasperazione 
della violenza diffusa e strutturale. Il Giubileo del 2000 ha espresso e 
dilatato questa speranza di un’umanità riconciliata e pacificata, affidata 
ai giovani, “sentinelle che annunciano il futuro”. Lo stesso movimento 
articolato e plurale che è cresciuto attorno alla campagna per la 
remissione del debito ha portato con sé una nuova e vivace consapevolezza 
dell’urgenza di dare spazio e legittimità culturale e politica alla 
solidarietà e giustizia nel mondo, così come l’insegnamento sociale della 
Chiesa ha richiamato con insistenza dalla Populorum Progressio (1967) da 
Paolo IV in poi. Molti fermenti di riflessione, di orientamento etico, di 
cultura e proposte politiche, economiche e finanziarie hanno formato un 
vero e proprio movimento di opinione, sfociato nel documento presentato a 
Genova il 7 luglio. I vescovi liguri con la loro lettera in vista del G8, 
che ha trovato valido sostegno e conferma nell’intervento del Papa stesso, 
hanno consolidato un percorso di proposta e di ispirazione orientato alla 
pace e alla giustizia come speranza possibile. Va anche detto che tutto 
questo patrimonio non solo non è stato interrotto o svuotato dai terribili 
fatti di Genova, dove la violenza ha riconquistato uno spazio egemone, ma, 
dopo un comprensibile disorientamento, ha dato una risposta precisa 
prendendo le distanze da qualsiasi legittimazione della violenza, anche 
quella contenuta nel linguaggio “non disarmato”. Anzi, i fatti di Genova 
hanno fatto crescere in molti, e senza tentennamenti, la convinzione che la 
pace attivata dalla non violenza praticata e testimoniata è l’unico 
itinerario per ridare legittimità e senso alla proposta di forti ed epocali 
cambiamenti, anche di scelte economiche e politiche a livello mondiale, con 
la gradualità che l’ostinata e insistente pazienza pacifica, che nasce 
dalla condivisione con i poveri della Terra, insegna. In fondo l’attiva 
provocazione della non violenza riconsegnava luce e speranza a quegli 
obiettivi, a quell’entusiasmo di pace e giustizia che doveva e può lasciare 
tracce forti anche nei modelli di vita, richiamando ad un consumo 
responsabile e al rispetto dell’ambiente, facendo respirare il bisogno di 
un’etica e di una politica capace di dare il gusto della speranza e 
dell’attesa di un futuro più umano e giusto, a partire dagli ultimi, da 
coloro che sembrano abitare solo “nei sotterranei della storia”.
Poi, all’improvviso, l’11 settembre. L’orrore delle torri trafitte al cuore 
e accartocciate su migliaia di persone. Una minaccia oscura, mostruosa, 
imprendibile si era fatta realtà: il terrorismo internazionale, in formato 
globale. Mai con così tanti morti, tutti in una volta. Il terrorismo non 
era stato un ospite ignoto al Novecento, ma sempre nel gioco delle grandi 
potenze: usato, promosso, represso. Non ce ne eravamo accorti in tanti 
anni: con le sue basi militari, i suoi campi di addestramento, la sua rete 
informatica, le sue azioni in borsa, i suoi campi di oppio, le sue 
industrie di morte... È cresciuta una rete parallela che ha sferrato 
l’attacco. Uno dei suoi rifugi in quella terra da sempre di confine, grumo 
di tribù eternamente in balìa del primo venuto che è l’Afghanistan.
Un nemico per certi aspetti invisibile. Eppure l’abbiamo avuto sotto gli 
occhi per anni, nutrito dal
sogno nostalgico di riunire in una sola cosa, in una nuova grande potenza, 
i Paesi musulmani sorti
dalla disgregazione dell’impero ottomano, umiliando l’Occidente corrotto e 
i suoi amici. Non solo.
Paradossalmente, in questi anni, il terrorismo di Bin Laden è diventato 
anche “cosa nostra”: i talebani sono stati sostenuti, preparati e 
finanziati dagli stessi Stati Uniti quando si trattava di abbattere il 
regime filosovietico di Kabul (così com’era avvenuto con Saddam Hussein 
quando doveva piegare l’Iran di Khomeini o con la guerriglia di Kabila 
quando si voleva spazzare via l’ormai impresentabile dittatore zairese Mobutu).
A riprova del fatto che la complessità del mondo globalizzato è tale da 
rendere incontrollabili gli esiti della sua crisi. E il sistema ha tante e 
tali variabili che anche la sua reazione di fronte al cancro che ha 
scoperto all’interno del proprio organismo è del tutto imprevedibile.

Un nuovo tipo di guerra

Così è iniziato il terzo millennio, con un nuovo tipo di guerra, per tanti 
versi ignota, terribile. “Guerra globale, nuova guerra”. Siamo dinnanzi ad 
una innovazione mostruosa, analoga a quella che si produsse con la prima 
guerra mondiale, la prima guerra industriale di massa. Qui la guerra è 
atipica, incerta. Non uno scontro classico tra eserciti, tra popoli, tra 
Stati, ma un’azione tentacolare, imprevedibile, che assomma sofisticazione 
tecnologica e artigianalità, che si insinua in ogni meandro della 
convivenza civile: dalle poste ai treni, ai ponti, al tram, alla galleria. 
La paura arriva ad abitare in casa nostra. Non è solo lo schiantarsi 
spettacolare contro torri babeliche di aerei civili, ma l’antrace, la 
polvere bianca, la paura del vaiolo. Gli Stati occidentali si attrezzano a 
una sicurezza globale: aeroporti, strade, banche, chiese... Tutto può 
essere obiettivo di un attentato, di una vendetta, di una dimostrazione di 
forza.
Ma qualcosa d’antico è rimasto: il sapore del sangue, sempre uguale, come 
il colore dell’atrocità. Nei giorni successivi alla presa di Kabul abbiamo 
assistito a uno spettacolo tristemente noto: massacri di talebani ad opera 
dell’Alleanza del Nord. Come in Ruanda, in Kosovo: l’oppresso diventa 
oppressore. Perché la guerra non è una partita a scacchi e anche il più 
“chirurgico” dei conflitti vede sempre la progressiva disumanizzazione dei 
contendenti.
  La reazione alla brutale violenza, l’orrore della tragedia diffusa in 
modo quasi ossessivo dai mass-media, la solidarietà dovuta e commossa alle 
vittime è richiesta e quasi pretesa. Ma questa risposta diventa subito e 
unicamente risposta armata, necessità della guerra, che non solo è invocata 
e legitti-mata, ma porta con sé, oltre al suo potente armamentario bellico, 
il suo linguaggio, che addirittura evoca potenza infinita, la sua retorica, 
sino a pretendere legittimazione etica. Le istanze di pace, di non violenza 
perdono quasi la voce, vengono irrise o accantonate, la coscienza comune 
sembra non
lasciare spazio a dubbi a interrogativi. Esplodono l’urgenza e la necessità 
della guerra che viene addirittura propagandata con parate e ritualità 
continue. Scompare o si riduce al lumicino la voce pacifica della coscienza 
che rifiuta la guerra, che sceglie la non violenza. Sembra scomparire 
questo orizzonte culturale, si volta pagina. Anzi sembra non essere più 
possibile interrogarsi, trovarsi nel dubbio e parlarne, consegnare qualche 
inquietudine a chi ti sta attorno, come ad esempio le migliaia di giovani 
che hanno obiettato in questi anni e le realtà e i movimenti che hanno 
prodotto quell’attenzione critica ai processi di globalizzazione per un 
diverso equilibrio tra popoli ricchi e poveri, Nord e Sud del mondo.
La guerra, con la sua potenza militare, non diventa più solo una risposta 
richiesta al terrorismo e localizzata, ma viene accolta e condivisa quasi 
come una “buona” notizia. Vi è una dilatazione cul-turale della legittimità 
della guerra che riduce all’angolo la scelta della non violenza, additata 
come strumento da irridere e fuori della realtà storica. Ma questa pagina 
quasi chiusa e apparentemente fuori della storia viene riaperta ancora nel 
Natale, dove vi è un bimbo che nasce, povero e deposto nella mangiatoia. 
Gesù è colui che consegnerà la propria vita alla violenza del male per 
riportare l’attesa di una vita piena, che vince la morte e insegna a 
considerare la storia piena di futuro, se si riporta dentro il suo 
dischiudersi l’amore per tutti, per il nemico che diventa prossimo: “Amate 
i vostri nemici, fate del bene a quelli che non ve ne fanno” (cfr. Lc 
6,27). Il Vangelo restituisce la buona notizia che sorprende ed entusiasma: 
il Gesù che “da ricco che era diviene povero” (cfr. 2Cor 8,9), che segna la 
storia umana del perdono, che fin dalla sua nascita è costretto a fuggire 
da un editto che ordina una strage degli innocenti, che insegna a mostrare 
l’altra guancia e a “riporre la spada nel fodero” (cfr. Mt 26,52). Che 
senso ha tutto questo dopo l’11 settembre? E perché dobbiamo ancora pensare 
e interrogarci attorno alla buona notizia del Vangelo, della nascita di 
Gesù con l’annuncio “e pace in terra agli uomini di buona volontà”?
Dopo l’11 settembre è nata la più grande coalizione mondiale contro il 
terrorismo. Tutti sono contro, anche quelli che lo praticano, lo 
sostengono, lo organizzano. Non si scopre certo nulla di nuovo. Lo si 
sapeva già. Eppure continuiamo a interrogarci con inquietudine. Se 
giustamente l’atto terroristico contro gli Stati Uniti ha scatenato tali e 
tante reazioni, come spiegare però l’assoluta inazione di fronte ad altri 
apocalittici stermini che sono in atto da decenni nei confronti del Sud del 
mondo? Due milioni e 700mila morti in Congo ex Zaire, oltre trent’anni di 
guerra civile in Angola, 24 mila morti per fame ogni giorno, un miliardo di 
persone che vive sotto il livello immaginabile di dignità umana, milioni di 
bambini violati o schiavizzati. Seicentomila bambini iracheni uccisi 
dall’embargo, mentre Saddam Hussein governa ancora da despota. Di fronte a 
questo scempio della
vita umana i Paesi ricchi hanno allargato le braccia, invocando la 
superiorità delle leggi dell’economia, la loro inalterabilità, pena il 
crollo del nostro sistema. E invece questa forma esasperata di 
globalizzazione in cui il mercato diventa quasi sacro s’è inceppata, si è 
scontrata con il fondamentalismo delirante, con l’azione dei kamikaze, 
pronti a farsi polverizzare in nome della causa. Questa esplosione e questa 
evidenza dell’ingiustizia colossale che attanaglia la vita delle 
popolazioni povere non ci permettono di non avere dubbi. Anche chi invoca 
il diritto alla legittima difesa per sostenere non la necessità doverosa di 
una risposta, ma l’estensione in termini quan-titativi e qualitativi della 
guerra e la sua ineluttabile necessità, deve riflettere. Com’è possibile 
affermare astrattamente questo diritto  che per essere tale deve poter 
essere legittimo per tutti e a disposizione di tutti  se non esiste 
un’autorità sovranazionale che possa orientare le scelte? Lo si legittima 
solo per alcuni in modo quasi automatico? Se lo lasciamo al libero 
esercizio di chi è colpito, il mondo sarà travolto da questo ricorso alla 
guerra: bisogna imparare a convivere con la guerriglia e la rappresaglia? 
Il conflitto israeliano-palestinese con la sua escalation drammatica non 
insegna niente? Ecco perché ritorna doveroso riaprire la pagina della pace, 
ridare razionalità politica all’urgenza della pace e alle alternative che 
porta con sé e che interpellano anche la politica, la cultura, la 
dimensione religiosa, l’esigenza del dialogo. Ma per questo occorre ancora 
interrogarsi, dialogare anche nella nostra coscienza.
Ogni giorno scopriamo qualcosa di nuovo. Tutto ciò ci sconcerta. Ci rende 
vulnerabili, incapaci di reagire e di ragionare. Di capire. I kamikaze non 
venivano dagli slum di qualche infernale metropoli
africana, erano laureati nelle università occidentali, colti e capaci di 
perfetta integrazione nel nostro sistema. E la struttura finanziaria di Al 
Qaeda? È cresciuta e si è fortificata nelle “serre” del nostro sistema 
bancario, protetta dai nostri paradisi fiscali. Fra quei 1800 miliardi di 
dollari di operazioni finanziarie che ogni giorno circolano nel nostro 
pianeta, c’erano anche i soldi di Bin Laden, e per anni li abbiamo 
tollerati. Poi è venuto l’antrace. Portato da buste assassine che non 
arrivano solo da uffici postali lontani. Arrivano da Denver e da Los 
Angeles. Da casa nostra.
Per George W. Bush l’11 settembre è stato un dramma ma anche una 
inquietudine cui non basta la predica sulla sicurezza. Così come lo è per i 
leader dei paesi occidentali che parlano agli americani e al mondo di 
guerra giusta, della necessità di estirpare il terribile, vigliacco nemico 
terrorismo e con lui “cancellare” i regimi canaglia che lo proteggono. Oggi 
c’è l’Afghanistan. Domani l’Iraq. Dopodomani chissà. Ci potrà essere un 
altro Stato complice da combattere: se ne avvertono già i segnali premonitori.
Eppure gli Stati Uniti, unica potenza rimasta, mai sono stati così fragili.
Questa fragilità è l’altro aspetto, latente finora, della caduta del muro 
di Berlino. Nessuno lo aveva previsto, come nessuno aveva previsto il 
crollo stesso del muro. A crollare è stato un sistema, a vincere nessuno.
Il mondo islamico, nelle sue masse sconfinate, non può essere ostaggio del 
fondamentalismo. Bin Laden s’è presentato a legioni di poveri musulmani 
come guida e mito, sia in vita che in morte.
Come può un rampollo della ricca e corrotta borghesia araba, 
diciassettesimo di cinquantasette figlidi un ricco mercante e del suo 
harem, educato dall’America all’uso delle armi e della Borsa, diven-tare la 
speranza di riscatto di migliaia di disperati? L’Islam moderato sembrerebbe 
in difficoltà, trema. Il terrorismo più crudo viene proprio da quell’Arabia 
Saudita alleata da sempre al fratello americano. Affari e mano tesa ai 
portatori di morte.
Ed ecco la grande semplificazione: identificare Islam e terrorismo, parlare 
di una guerra dell’Occi-dente contro l’Islam, di una lotta dell’islamismo 
contro il cristianesimo. Il Papa ha lanciato un allarme accorato di fronte 
a questa trappola mortale. Eppure dopo i massacri di cristiani in Sudan e 
poi in Pakistan questa semplificazione prende corpo, entra nella vita di 
tutti, quasi si legittima. Il clima si fa pesante: il musulmano viene visto 
come il potenziale terrorista, il nemico che ci siamo cresciuti in casa, 
pronto a colpire… Si vanno erodendo gli spazi di accoglienza.
Per la prima volta il nemico esprime una convergenza con interessi che sono 
interni allo stesso sistema globalizzato: pezzi di nazioni, lobbies di 
potere, multinazionali.
Si tratta però di un nemico che si avvale di un’arma subdola e vile, che 
sfrutta la rabbia, l’i-gnoranza, l’assenza di speranza che regna nelle 
baraccopoli, nei campi profughi, negli slum, nelle favelas e che in questi 
luoghi, spesso, trova la sua manovalanza.
La minaccia del terrorismo va bloccata al più presto, con tutte le forze 
occorre isolare e mettere in condizione di non nuocere chi semina morte e 
domani (come l’11 settembre) potrebbe mettere a repentaglio altre migliaia 
di vite innocenti.

Riequilibrare il sistema

Ma il terrorismo non si vince semplicemente con la cattura di Bin Laden, né 
solo col rovesciamento del regime dei talebani, né erigendo alte barriere 
tutt’intorno al mondo occidentale, per difenderci da nemici visibili o 
invisibili. Non si vince innalzando scudi, spaziali o culturali, per 
custodire gelosamente i nostri tesori. Questa guerra può essere vinta solo 
se, per estirpare il cancro, si affronta ciò che lo alimenta, cioè ancora 
una volta, come sempre, cominciando a capire in radice problemi troppo a 
lungo dimenticati, culture a lungo ignorate. Occorre cominciare a 
riequilibrare il pianeta, a migliorare le condizioni di vita di quattro 
quinti dell’umanità. A riscattare dalla schiavitù. Seriamente.
Invece al terrorismo si sta rispondendo solo con la guerra, che suscita 
odio, il quale alimenta nuovo terrorismo, che provoca ancora guerra. Una 
spirale perversa che non sembra avere fine. Davvero oggi questa è la paura 
più grande: questo non avere fine. Si dice: una guerra lunga e difficile, 
durerà mesi, anzi, anni. Poi Kabul cade improvvisamente, ma il terrorismo 
non è eliminato, si rifugia tra i monti, in altri paesi, in altre comunità, 
nelle nostre città. Questo terrorismo fluido senza volto, ramificato in 
Oriente e in Occidente, ha generato paura, incertezza, bisogno di 
sicurezza, odio verso lo straniero e il diverso.
E la pace dov’è? Dove riprendiamo il filo e la tessitura di quell’orizzonte 
di pace che è cresciuto in questi anni?

Tutto ciò accade in un mondo globale. Un mondo dove la globalizzazione ha 
assunto caratterizzazioni estreme. Da una parte vista come inarrestabile e 
dovuta. Dall’altra come demone perverso, luogo geometrico dei mali del 
mondo. Preferiamo una visione più articolata, critica, che guardi con 
realismo e sollecitudine alla storia. La caratterizzano mille sfaccettature 
cui sottostanno alcune grandi e urgenti questioni: lo scandalo drammatico 
della povertà e dei diritti di cittadinanza negati, la tutela dell’ambiente 
e i sentieri per uno sviluppo sostenibile, il ruolo della finanza e lo 
strapotere delle multinazionali, il ruolo del mercato, della politica e una 
democrazia mondiale ancora negata. Questioni critiche cui occorre dare un 
unico fondamento, un’unica priorità: la centralità della persona, il valore 
della vita di ogni uomo. La dignità dell’uomo e di ogni uomo è sopra e 
dentro l’economia, la produzione, il profitto. È sopra e dentro il mercato. 
Il mercato può permettere comportamenti liberi. Ma è libertà reale o 
apparente a seconda che il mercato venga usato, e regolato, al servizio 
della comunità o viceversa. Senza regole non c’è più comunità, non ci sono 
più diritti, non c’è più libertà. Il profitto serve per costruire il 
futuro, ma non lo genera automaticamente, né lo garantisce. Se vogliamo 
futuro, per noi e per i nostri figli, dobbiamo definire le priorità. 
Dobbiamo concertarle insieme. Abbiamo bisogno di una politica giusta. Per 
indicare gli obiettivi e concordare le regole per ottenerli. Senza politica 
giusta c’è solo la giungla. E nella giungla l’uomo non sopravvive.
La globalizzazione è un fiume che corre. Di per sé, come dice Giovanni 
Paolo II, non è un bene né un male. Non possiamo fuggire la responsabilità 
di indicarne la direzione accettando il rischio di affrontare le 
contraddizioni.
La cancellazione totale del debito e gli aiuti, a favore dei quali tutti 
lavoriamo, non risolvono da soli il problema, altrettanto grave, della 
democrazia e delle leadership di tanti Paesi del Sud del mondo. Come 
potremo evitare l’avvento del prossimo Mobutu che affama il suo Paese 
accumulando fortu-ne nelle banche svizzere?
Rivendichiamo il diritto a non dover mangiare cibi transgenici, ma dove 
poniamo il limite alla ricerca e alla sperimentazione perché siano al 
servizio dell’uomo?
Battiamoci per evitare la riduzione in schiavitù di tanti bambini che 
finiscono in prima linea nelle guerriglie, a cucire palloni o a raccogliere 
il cacao o il caffè delle multinazionali. Ma quale soluzione offriamo alla 
famiglia africana o asiatica che vede nei propri ragazzini l’unica risorsa 
in grado di integrare gli introiti insufficienti? Non basta la semplice e 
necessaria estensione delle avanzate norme sociali e ambientali del Nord 
del mondo, e dell’Europa in particolare, alle realtà del Sud per risolvere 
il problema del lavoro minorile, dell’equilibrio ecologico e dell’uscita 
dalla povertà.
Battiamoci per colmare il divario tecnologico, per estendere l’accesso alla 
rete, ma non dimentichiamo che nel suo utilizzo si pone il problema delle 
regole e di chi le deve stabilire, senza le quali vi sono, come è noto, 
gravissimi abusi. Pensiamo alla mafia, alla pedofilia, al riciclaggio di 
denaro, al terrorismo appunto.
Occorre fare chiarezza: se è vero che scandalizzano gli spropositati 
profitti di poche centinaia di società e la ricchezza di un manipolo di 
individui, è altrettanto vero che per ribaltare questa situazione si 
richiede una conversione culturale profonda e diffusa, un movimento di 
opinione che rivaluti le scelte collettive di giustizia e solidarietà, 
anche distributiva, che faccia crescere consenso a scelte di sviluppo 
sostenibile, di sobrietà e rinuncia per una ridistribuzione di equilibri. 
Ma questo richiede una coscienza  praticata e testimoniata, una visibilità 
che è richiesta, proprio oggi, a partire da questo Natale. È in fondo il 
grande itinerario ideale tracciato dal Papa nella Novo Millennio Ineunte 
(Lettera apostolica di Giovanni Paolo II, 2001).
La globalizzazione trionfante dei mercati, delle merci, delle immagini, le 
“magnifiche sorti e progressive” di una storia senza Stato, che si era da 
tempo accinta a smantellare ogni idea di responsabilità sociale 
dell’economia e delle istituzioni, ebbene, tutto ciò è tra le macerie delle 
torri americane. Un’oligarchia di felici è impossibile, impraticabile in un 
mondo di poveri. La globalizzazione generalizza questa consapevolezza.

Non possiamo più fingere di non vedere

Emergeva col fumo delle torri un disincanto disperato, il dolore della 
memoria che ripete i suoi lutti. Tutto come prima, tutto come è sempre 
stato, pur nelle forme più diverse, “fin dalla fondazione del mondo”.
Possiamo rassegnarci a questo disperato disincanto? Accontentarci di una 
prossima consolante ripresa dei consumi? Dobbiamo avere il coraggio di dare 
una spallata alla rassegnazione.
Ci siamo dimenticati della speranza?
Ci siamo dimenticati, forse, che la forza della politica sta nella 
elaborazione culturale che si rap-porta alla realtà, nella produzione di 
idee e del confronto serrato fra chi propone progetti diversi?
Ci siamo dimenticati, forse, che la politica può governare il cambiamento, 
riequilibrare le risorse, perseguire il bene comune?
Ci siamo dimenticati che ci riguarda? Che tocca a noi?
Se ce ne siamo dimenticati, l’11 settembre 2001, drammaticamente, ce l’ha 
ricordato.
L’emotività legata agli avvenimenti rischia di non farci cogliere una 
questione importante: il 12 settembre c’erano sul tappeto gli stessi 
problemi del 10 settembre. Gli stessi, con la stessa urgenza e la stessa 
tragicità. Non possiamo più fingere di non vedere.
Allora proprio per il desiderio di pace rinnoviamo il bisogno della 
politica. La guerra ne sancisce o ne limita l’orizzonte: la costruzione 
della pace, senza fare ricorso alla guerra come necessità, esalta il 
compito della politica. Non si può perdere questa occasione. Gli scenari 
che si stanno disegnando con la guerra definiscono l’urgenza di ripensare 
la global governance. Bisogna, è urgente, è improcrastinabile percorrere 
questa strada, pena l’inizio di un caos non più governabile, coniugando gli 
obiettivi sociali con gli strumenti e i vincoli economici e finanziari.
Ma ancora.
Promuovere l’Europa. L’Europa deve assumere un ruolo politico 
internazionale più forte. Il nuovo ordine mondiale, con gli Stati Uniti 
alleati dei nemici di sempre, Russia e Cina, ha bisogno di un’Europa dei 
diritti che non sia monca e non sia afona. La speranza passa anche di qui. 
La forza del pensiero europeo è sempre stata la capacità di fare 
autocritica, di fare delle proprie debolezze, tante debolezze, un 
laboratorio di idee. Nella sua tradizione ogni grande crisi ha sempre 
provocato una profonda riflessione autocritica. L’Europa può e deve alzare 
la testa perché la crisi che stiamo vivendo non diventi lunga, tragica e 
forse fatale.
Istituzioni internazionali forti e democratiche. Il ventunesimo secolo si 
apre presentandoci la crisi dello Stato-nazione. Stanno nascendo realtà di 
fatto extranazionali e sovranazionali. Il passaggio dalla comunità 
nazionale alla società globale è già in atto. La globalizzazione taglia 
trasversalmente Paesi, società e popoli. Fino ad oggi ha incluso alcuni ed 
escluso la gran parte. Ma questa trasformazione, tra le più radicali che 
abbiamo conosciuto, non esige forse che si ripensino i rapporti 
internazionali, il concetto di democrazia, il ruolo e i criteri di 
rappresentanza, l’idea di maggioranza e minoranza? Occorrono strumenti 
adeguati, occorrono istituzioni internazionali. Ripensare e rafforzare le 
Nazioni Unite perché diventino reale luogo di governo democratico e 
trasparente, luogo di costruzione e tutela della pace, anche con operazioni 
di polizia internazionale. Nazioni Unite che non abbiano bisogno di 
ricevere premi Nobel.
Cittadinanza universale. La società di massa sinora si è inquadrata in uno 
Stato, il quale era più o meno in grado di soddisfare i bisogni, di 
controllare le degenerazioni, di armonizzare i contrasti sociali che si 
potevano verificare al suo interno.
La società planetaria, invece, non ha ancora una fisionomia, è priva di 
strutture e di rappresentanza. È lo Stato-nazione che continua a svolgere 
il ruolo di cardine e di organizzazione fondamentale. Ma il suo motore è 
inadeguato. Ben altra capacità di adattamento ha mostrato l’economia, o 
meglio i centri di potere economico.
La regola di non imporre regole è fallimentare. Gli squilibri aumentano 
fino all’implosione o alla frammentazione in schegge incontrollabili. Il 
punto d’appoggio della società planetaria non può essere un’economia che si 
autoregoli e si autodetermini. Il punto d’appoggio è il primato della 
persona e dei suoi diritti inalienabili. Tocca dunque alla politica 
determinare le regole dell’economia. Tocca alla società civile, ai 
cittadini, partecipare a questa responsabilità. Tocca a tutti i cittadini 
del pianeta, anche a quelli che non sanno leggere e scrivere, a quelli che 
non hanno speranza di vivere oltre i quarant’anni, a quelli che muoiono 
indossando divise cucite da altre mani e da altre menti, anche a quelli che 
si prostituiscono per nutrire i figli…

La pace, un sogno?

Come può tutto ciò generare pace? Guardandoci intorno vediamo sprazzi di 
luce, come quelli colorati, sonori e festosi, tra Perugia e Assisi.
Non si può dunque banalizzare, ridicolizzare la domanda di pace, quelle 
pagine aperte scritte e riscritte in questi anni.
“Un sogno, essa può sembrare. Un sogno, diciamo, perché l’esperienza di 
questi ultimi anni e l’insorgenza di recenti torbide correnti di cattivi 
pensieri (sulla contestazione radicale ed anarchica, sulla violenza lecita 
e necessaria in ogni caso, sulla politica di potenza e di dominazione, 
sulla gara degli armamenti e la fiducia nei metodi dell’insidia e 
dell’inganno, sull’ineluttabilità delle prove di forza) sembrano soffocare 
la speranza nell’ordinamento pacifico del mondo”.
A scrivere di pace, scuotendo la testa e dicendo che no, la pace non è, non 
può essere un sogno, non è l’uomo triste e confuso di quest’ultimo scampolo 
del 2001, dopo i tumulti di Genova, il sanguinoso attacco all’America e la 
guerra che ne è scaturita. Non è inchiostro fresco. Ad offrire queste sue 
riflessioni è un Papa forte e fragile al tempo stesso, Paolo VI, che così 
pensò e scrisse nel Messaggio per la Giornata della pace del primo gennaio 
1969, 32 anni fa. Aggiunse anche: “Questa speranza [la speranza della pace, 
Ndr] rimane, perché deve rimanere. È la luce del progresso e della civiltà. 
Il mondo non può rinunciare al suo sogno di Pace universale. E proprio 
perché la Pace è sempre in divenire, perché è sempre incompleta, perché è 
sempre fragile, perché è sempre insidiata, perché è sempre difficile, noi 
la proclamiamo. Come un dovere. Un dovere inderogabile. Un dovere dei 
responsabili della sorte dei popoli. Un dovere d’ogni cittadino del mondo: 
perché tutti devono amare la Pace; tutti devono concorrere a produrre 
quella mentalità pubblica, quella coscienza comune che la rende auspicabile 
e possibile. La Pace dev’essere dapprima negli animi, affinché poi sia 
negli avvenimenti”.
La pace però sembra avere lasciato la scena del mondo, proprio quando 
sembrava esservi entrata. Beati i pacifici… Quante volte si è ripetuta nel 
mondo questa disperata beatitudine? Ripetuta,  ripetuta, ripetuta… Questo è 
ciò che può uccidere la speranza: il ripetersi dell’orrore della storia, 
degli uomini. Anche delle religioni quando degenerano in fondamentalismi 
che armano guerre “sante” e “crociate”. Ma la pace ha radici più profonde. 
Per noi credenti la pace parla il linguaggio di Dio, ci provoca ad 
incontrarlo e ospitarlo nella nostra storia, proprio perché si fa uno di noi.


Il Natale speranza della pace

Si avvicina Natale. Anzi è qui. Ma che senso ha questo Natale? Perché 
questo Natale? E ci si chiede: perché “quel Natale”, il primo, se la storia 
si è ripetuta, fino all’11 settembre, fino alle torri trafitte, se la 
storia uccide ogni giorno per fame? Sembra essersi ingigantito solo il 
dolore. La ragione, l’evidenza sembrano dire altro rispetto alla speranza, 
dicono di questa abitudine alla sofferenza, alla strage. Non ci sarà pace, 
ma altre guerre, altri scempi di corpi e di anime. Così è già stato. 
Nonostante quel Natale. Forse occorre aprire di più gli occhi, cambiare le 
lenti e la luce. Guardare più oltre. Ma soprattutto chinarsi ad ascoltare e 
a celebrare questo evento. Il profeta Isaia l’aveva annunciato: “Ebbene il 
Signore vi darà lui stesso un segno. Avverrà che la giovane incinta darà 
alla luce un figlio e lo chiamerà Emmanuele [Dio con noi]” (Is 7,14); 
“Spunterà un nuovo germoglio: nascerà nella famiglia di Jesse, dalle sue 
radici, germoglierà dal suo tronco… Renderà giustizia ai poveri e difenderà 
i diritti degli oppressi... Lupi e agnelli vivranno insieme e in pace…” (Is 
11,1.4.6). Ebbene, questo bimbo irrompe ancora nella storia, la fa sua. E 
allora guardare nel volto questo bimbo significa avvertire che nella storia 
scorre questa inquietudine e speranza di pace, affidata agli uomini che 
egli ama, a tutta l’umanità. Ecco perché a Natale dobbiamo riscrivere 
l’alfabeto della speranza, inscriverlo nel nostro cuore. È in fondo la vita 
che nasce, che dà il suo primo vagito, che convoca a sé, alla periferia del 
mondo, in quel piccolo villaggio di Betlemme tutta la pienezza della vita. 
Affidarsi alla speranza significa viverla e portarla con sé, nel cuore, 
nella vita, con gli altri, celebrarla, destinarla. Non possiamo non farci 
il dono, in questo Natale, di affidarci la  gioia umile e nascosta che 
Maria e Giuseppe trovarono. Pur nella fatica e nella solitudine della 
ricerca dell’alloggio. Forse avvertendo già che Erode, con la sua violenza, 
minacciava quella vita. Si misero in fretta in cammino e in fuga verso 
l’Egitto con quel bimbo adorato e amato. Anche noi forse celebriamo il 
Natale 2001 quasi pronti “a fuggire e ripararci”, ma quel bimbo tra le 
braccia ci consola e ci invita a continuare a vivere nell’oggi con il cuore 
colmo di desideri di pace e di perdono.
  “Senza perdono non c’è pace”. È il messaggio di Giovanni Paolo II per la 
giornata della Pace del 1° gennaio 2002. Il perdono rivoluziona, 
scompagina, spiazza, cambia le carte. Trasforma. Il perdono è fra noi 
proprio grazie a quel Natale, che è Amore.
  Siamo chiamati al perdono, siamo chiamati all’amore, a quell’amore che 
genera incontro, conoscenza e scambio, sorriso, vita. Siamo chiamati alla 
responsabilità di orientare il nostro futuro, declinando giustizia e 
solidarietà. Per questo siamo chiamati alla testimonianza dentro la storia, 
alla politica vera. Nelle grandi istituzioni e nelle piccole cose del 
quotidiano. La pace si costruisce ogni giorno. Dipende anche da noi.
Costretti a sperare? Noi crediamo alle Sue parole: “Beati i costruttori di 
pace, beati i pacifici, perché erediteranno la terra” (cfr. Mt 5,3-12).
Certo, oggi il canto degli angeli nella notte di Natale sembra un grido: 
pace in terra agli uomini di buona volontà.
È il nostro grido, tanto più vero, quanto più operoso, concreto, capace di 
grandi e piccoli gesti perché nel mondo un desiderio di pace attraversi nel 
profondo gli uomini, le donne, i popoli, le nazioni. La pace è, infatti, 
levatrice della giustizia. Shalom è la pienezza della vita, del ben stare, 
del ben amare, della libertà dal bisogno e dall’oppressione. Non un altro 
nome della pace quello della giustizia, ma lo stesso nome, il suo cono 
d’ombra. Testimoniare la novità e il paradosso della pace. Nonostante la 
difficoltà e l’apparente chiusura di questa pagina nella storia dei nostri 
giorni. Vivere il Natale così, questo Natale, riaprendo la pagina della 
pace e riprendendo a scriverla ogni giorno con tutti coloro che sono 
inquieti e ne sono assetati, sulle nostre strade, nel mondo intero.
“Non avere paura, città di Sion, non ti scoraggiare! Il Signore tuo Dio è 
con te, è forte e ti salva! Esulta di gioia per te, nel suo amore ti dà 
nuova vita. Egli si rallegra per te, con canti di gioia, come nei giorni di 
festa” (cfr. Sof 3,16-18).
Milano, 3 dicembre 2001
GIOVANNI BIANCHI, parlamentare
PAOLA BRAMBILLA, presidente WWF Lombardia
MICHELE CANDOTTI, segretario WWF Lombardia
FRANCESCO CAVALLI, assessore comunale Riccione
GIANFRANCO CENCI, consigliere provinciale Rimini
26 ALBERTO CHIARA, inviato di “Famiglia Cristiana”
DON VIRGINIO COLMEGNA, sacerdote
GIOVANNI COLOMBO, presidente Associazione Rosa Bianca
PASQUALE D’ALESSIO, Comunità Aperta - Premio Ilaria Alpi
PAOLO DANUVOLA, consigliere regionale Lombardia
BEPPE DEL COLLE, direttore de “Il Nostro Tempo”, editorialista di
“Famiglia Cristiana”
DAVIDE DEMICHELIS, giornalista
GEROLAMO FAZZINI, condirettore di “Mondo e missione”
ANGELO FERRARI, giornalista dell’Agenzia Giornalistica Italia
P. PAOLO FOGLIZZO SJ, di “Aggiornamenti Sociali”
GUIDO FORMIGONI, presidente Associazione Città dell’Uomo
GIUSEPPE FRANGI, direttore di “Vita”
EFREM FUMAGALLI, responsabile Comunicazione COOPI
FLAVIO GIACOSA, presidente Centro Turistico Giovanile Torino
MIRIAM GIOVANZANA, giornalista
LUCIANO GUALZETTI, presidente Fondazione S. Carlo Torino
ALBERTO GUARISO, avvocato
PAOLO LAMBRUSCHI, giornalista
EUGENIA MONTAGNINI, direttrice Centro Sociale Ambrosiano
RICCARDO MORO, economista
P. OTTAVIO RAIMONDO, direttore Editrice Missionaria Italiana
LUCIANO SCALETTARI, inviato di “Famiglia cristiana”
GUIDO TALLONE, operatore sociale e giornalista
MARIA GRAZIA TANARA, pubblicista
BENEDETTA VITETTA, giornalista
SABRINA ZANETTI, presidente ACLI Rimini