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Una
generazione cresciuta con cous-cous e Rete. È questa la rappresentazione
dominante dei giovani protagonisti delle rivolte che hanno cacciato gli
autocrati tunisini, egiziani e che sono in prima fila in Algeria, Libia,
Bahrain. Lo stesso era stato detto durante la sollevazione «verde» in Iran.
Che i giovani siano l'elemento indiscutibile dei movimenti che stanno
trasformando il Maghreb è cosa certa. Verrà il tempo capire gli elementi di
questa trasformazione. Così come verrà il tempo per comprendere davvero le
costellazioni culturali e emotive che hanno consentito, finora, a questa nuova
generazione di sfuggire alle sirene del fondamentalismo islamico. Ma al di là
delle incertezze analitiche sul «vento del Maghreb», l'elemento che emerge è
l'uso accorto della Rete non solo per far conoscere al mondo cosa stava
accadendo, ma anche per coordinare le mobilitazioni.
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Oramai,
si va in Rete attraverso il computer personale, ma anche attraverso i telefoni
cellulari di ultima generazione. Uno scheletro digitale della comunicazione
che entra in fibrillazione ogni volta che il conflitto politico e sociale
riesce a sovrastare l'indistinto rumore di fondo che domina il web. Le
notizie provenienti dal Maghreb hanno spesso avuto la forma dei cinguettii di
Twitter. Quei tweets hanno provocato un aumento delle «nuvole di dati» che si
addensano, diradano e si riformano continuamente attraverso Facebook o,
appunto, Twitter. Ovviamente, le rivolte così come le rivoluzioni non nascono
in Rete, ma sarebbe segno di miopia analitica pensare ai conflitti sociali e
politici indipendentemente da come funziona Internet. Ad esempio, è nel Web
che il rapporto tra azione politica e opinione pubblica mostra tutta la sua
ambivalenza. L'azione politica dei movimenti ha cioè bisogno dell'opinione
pubblica, ma se si limita solo a influenzarla mostra tutta la sua
fragilità.
La
forza dei legami deboli
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Esistono
ancora miliardi pagine Internet e ogni giorno se ne aggiungono migliaia. E
molte di queste sono allestite e gestite da mediattivisti, movimenti sociali,
sindacati indipendenti. Ma le tonalità emotive dominanti nascono nelle
chat-room, su Facebook, nei messaggi istantanei di Twitter. È in questo
contesto che nascono affinità elettive, piccole o grandi comunità, facendo
leva su «legami deboli» che tendono a confermare consolidate «visioni» della
realtà. Ed è in questo contesto che nascono le «nuvole», che in termine
tecnico sono chiamate cloud, che si formano, dissolvono, riformano,
costituendo il fenomeno più rilevante della Rete negli ultimi anni, al punto
che sono attentamente studiati per raccogliere dati, informazioni sulle
tendenze ai consumi, gli stili di vita che emergono nel Web. Dati che vengono
elaborati e «formattati» per essere proposti a chi vende spazi pubblicitari.
Il successo economico di Google e di Facebook sta infatti nel proporre la
rielaborazione delle «le nuvole di dati» ai potenziali inserzionisti. È in
questa commistione tra discussione fine a se stessa e business che i cloud
attirano l'attenzione anche dei movimenti sociali. La
parola d'ordine dei movimenti sociali dell'ultimo decennio - don't hate the
media, become the media, «non odiare i media, diventa media tu stesso» - deve
perciò essere ricontestualizzata in questo mutato scenario. I movimenti
sociali hanno infatti appreso che il consenso alle loro posizioni dentro e
fuori la Rete non è dato solo dall'aumento del numero dei contatti ai loro
siti, bensì dalla capacità di condizionare i cloud, modificando cioè il flusso
dei dati in maniera tale che un fatto, un «evento» diventino rilevanti,
sovrastando il chiacchiericcio che caratterizza i social network. Che questa
sia la tendenza in atto lo attesta anche la cura con cui Wikileaks ha
sviluppato i meccanismi affinché cresca - dentro e fuori la Rete -
l'attenzione alla pubblicazione di «dati sensibili». Anche in questo caso,
Wikileaks ha lavorato affinché nascessero gli opportuni cloud per diffondere i
materiali pubblicati sul suo sito. Ci
vorrà quindi del tempo per analizzare quanto questo abbia influito nei
meccanismi di formazione dell'opinione pubblica e del consenso attorno a un
«punto di vista». Per il momento, vanno semmai segnalati limiti e
contraddizioni del cloud. Il primo limite è quello individuato da Jason
Lanier, ingegnere e pioniere delle realtà virtuali, che da alcuni anni mette
in evidenza come le «nuvole dei dati» possano determinare un impoverimento
delle informazioni, perché vincolate a precisi meccanismi di standardizzazione
e di semplificazione. Per stare in un cloud, sostiene a ragione Lanier,
bisogna aderire a uno stile enunciativo «povero». Un
cultore della materia digitale, obietterebbe, con qualche ragione, che questo
non è un problema, perché un argomento si arricchisce laddove il cloud si
amplifica e cresce, evocando quel «potere della folla» che tanto piace ai
paladini della democrazia liberali. Un'opinione ha sempre basi fragili, ma se
viene arricchita da altri contributi, sostengono studiosi come Don Tapscott e
Kevin Kelly, l'iniziale debolezza diventa potenza, perché è la folla che
riesce ad arricchirla. Il
problema, tuttavia, non è quante persone intervengono a sostenere ed
articolare meglio un'opinione o una informazione, bensì quale capacità abbiano
nel modificare cioè che è veramente significativo, quando ci si trova di
fronte a un movimento sociale e dunque alla politica: la modifica, cioè, dei
rapporti di forza nella società. Tutto questo per dire che un cloud, meglio
l'opinione pubblica, non si riesce mai a rappresentare. Si manifesta, emerge
magari con clamore, condizionando così l'operato del sovrano, ma poi si
dissolve, lasciando flebili, se non effimere, tracce di sé.
La
politica dell'attenzione È
questo il limite del cloud. Non la standardizzazione del messaggio, ma il suo
carattere effimero. Inoltre, l'opinione pubblica non crea egemonia. Crea cioè
attenzione, interesse, ma non quella capacità che Edward Said ha chiamato la
spinta a far nascere un sistema di idee che modifica la realtà. E
tuttavia, altro dato interessante, l'esistenza del cloud delegittima le fonti
dominanti dell'informazione e si pone come una potenziale alternativa ai
media. Comunicazione povera e effimera, ma comunque capace di mettere in crisi
i media mainstream. Ne sanno qualcosa gli Stati Uniti, che sono stati infatti
scossi dalla «nuvola di dati» alimentata da Wikileaks. La
corsa ai ripari di Hillary Clinton, con le sue dichiarazioni a favore del Web
in quanto strumento di libertà, evidenziano come un cloud può, nonostante la
sua esistenza legata a precise contingenze, raggiungere una massa critica e
diventare un fattore che attenta al controllo sui flussi di informazione. L'uso
della Rete da parte dei giovani del Maghreb ha messo in evidenza la fragilità,
la debolezza degli apparati ideologici dei loro stati, ma ha comunque reso
evidente che la circolazione delle informazioni consente di sovvertire i
significati dominanti. Ma che una volta accaduto, la «nuvola di dati» perde il
suo potere seduttivo e comunicativo. A quel punto il lessico politico deve
ripiegare su altri e consolidati vocaboli, perché quello dell'opinione
pubblica diventa semplicemente inservibile. Il problema da risolvere, dunque,
è la costituzione di nuove istituzioni, di un nuovo ed egemonico sistema di
idee che abbia il potere di rappresentare la realtà emersa dopo la rivolta e
la cacciata dei tiranni.
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