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cemento in regione il caso vicenza
- Subject: cemento in regione il caso vicenza
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 21 Sep 2004 09:18:17 +0200
dal corriere.it
sabato18 settembre 2004
«Basta capannoni, sono inutili»
Il Veneto e i 200 km di cemento
«E' stato un saccheggio». Ma Galan: ne servono altri
Un blocco di cemento di 1.070 metri cubi: è questa la «dote» portata alla
provincia di Vicenza, una delle più industrializzate d'Italia, da ogni
abitante in più degli anni Novanta. Crescita demografica: più 52 mila
abitanti, pari al 3%. Crescita edilizia: più 56 milioni di metri cubi, pari
a un capannone largo dieci metri, alto dieci e lungo 560 chilometri. Ne
valeva la pena? Valeva la pena di costruire oltre il quadruplo delle case
necessarie rispetto all'incremento di cittadini e di insultare ciò che
restava delle campagne care a Meneghello con giganteschi scheletri di
calcestruzzo tirati su spesso solo per fare un investimento e tappezzati di
cartelli «affittasi»? Se lo chiedono in tanti, finalmente. Se lo chiedono
gli imprenditori più avveduti, che hanno chiarissima l'idea che far
concorrenza alla Cina costruendo più capannoni e assumendo più cinesi
anziché puntare su innovazione e ricerca è un suicidio. Se lo chiedono un
pezzo della sinistra e della destra, a partire dalla Lega che ha denunciato
in un allarmato seminario per bocca del presidente provinciale Manuela Dal
Lago come negli anni '90 l'agricoltura abbia perso 18 mila ettari contro i
10 mila perduti nel decennio precedente. Se lo chiedono gli studiosi, come
quelli coinvolti in un convegno convocato oggi a a Montecchio dall'Accademia
Olimpica il cui presidente Fernando Bandini riassume la situazione così: «E'
stato un saccheggio». Intendiamoci: di « schei » ne sono piovuti tanti. La
provincia è la prima in Italia nel rapporto tra export e Pil, vanta una
partita Iva ogni 10 abitanti, un'impresa manifatturiera ogni 31 (media
italiana: una ogni 75), una disoccupazione ridicola (2,6%), un fatturato
industriale di 41 miliardi di euro, un reddito pro capite oltre 25 mila. Il
prezzo pagato all'ambiente, però, è stato elevatissimo. E fa del Vicentino,
felicemente stravolto dall'industrializzazione e dal benessere dopo secoli
di povertà ed emigrazione («L'altissimo de sora ne manda 'a tempesta /
l'altissimo de soto ne magna quel che resta / e in mezo a sti do altissimi /
restemo povarissimi») un caso emblematico del Nord Est. Che può insegnare a
tutti.
Nel bene e nel male.
Spiega ad esempio una tabella elaborata dall'ingegner Natalino Sottani,
relatore al convegno di oggi, che la popolazione provinciale (608 mila
abitanti nel 1950 saliti oggi a 807 mila), ha avuto un incremento in mezzo
secolo del 32%. Una crescita netta, ma abissalmente lontana da quella della
superficie urbanizzata, passata da 8.674 ettari a 28.137. Con un'impennata
del 324%: il decuplo.
E accompagnata, ovviamente, da un parallelo crollo dei terreni destinati
all'agricoltura: erano 182 mila ettari nel 1950, sono 114 mila adesso. Al
punto che, stando all'«impronta ecologica» e cioè all'indice che attraverso
una miscela di calcoli assai complessi misura qual è il livello dei nostri
consumi, ogni vicentino consuma oggi per 39 mila metri quadri disponendone
invece di 3.370: oltre undici volte di meno.
Un consumo del territorio abnorme, disordinato, sprecone, indifferente a
tutti i rischi. Così ubriaco di auto-compiacimento per lo stupore del mondo
davanti ai successi all'incredibile accelerazione degli ex poareti da
esaltare il disordine amministrativo e il «laissez faire» come fucina di
creatività. Col risultato che oggi i 121 comuni berici, stando al rapporto
allarmato della Provincia, hanno «oltre 500 aree industriali». Le quali, in
realtà, assediano quasi esclusivamente i comuni di pianura che sono una
sessantina e detengono dunque una decina di «zone produttive» a testa. Un
delirio. Del quale fanno oggi le spese non solo i cittadini intrappolati
ogni giorno in una delle più intasate reti stradali del pianeta ma gli
stessi protagonisti del miracolo, quegli imprenditori che si dannano l'anima
per guadagnare sei decimi di secondo nella produzione di un pezzo e poi
vedono i camion bloccarsi nella fossa larga sei metri di via Mazzini, sulla
strada che porta da Bassano a Padova e che sega in due il paese di Rosà, una
strettoia dove ogni giorno si strusciano l'uno l'altro 40 mila camion e 30
mila auto. E agognano la costruzione di una bretella, un ponte o una
pedemontana che non si possono fare senza buttar giù una miriade di case e
stabilimenti.
«Basta capannoni», disse nella primavera 2003 il presidente regionale
Giancarlo Galan. I nudi numeri spiegavano infatti che negli ultimi 5 anni
erano state costruiti nel Veneto edifici industriali pari a un capannone
alto 10 metri, largo 28 e lungo 200 chilometri e passa. Tanto che a Orgiano,
un paese vicentino sotto i colli Berici, la gente aveva raccolto 1.500 firme
(una enormità in un paese di 2.700 abitanti) per dire basta: «perché
dovremmo aprire nuove fabbriche se non c'è disoccupazione» e «deturpare una
delle rare aree incontaminate con strade, cave, discariche e industrie»? Il
coro di consensi fu vasto. Gli stessi industriali, o almeno i più attenti,
plaudirono. Un anno e mezzo dopo, però, Galan pare aver cambiato idea. E
qualche giorno fa, a Cortina, ha spiegato che «il Veneto di domani avrà
bisogno di più capannoni, non di meno. E Forza Italia ha il dovere di dirlo.
Il problema è come farli».
«Con i gerani, i salici e i sette nani nel giardino?», hanno ironizzato i
verdi. In realtà, lo sanno tutti, stanno arrivando al pettine quei nodi che
troppo a lungo sono stati rinviati. Riassumibili, se vogliamo, in un nodo
solo: su quale modello di sviluppo deve puntare un'area come il Nordest che
ha scommesso forse troppo sulla dedizione alla fatica dei «polentoni», sul
lavoro dei grandi artigiani come quelli dell'occhialeria (oggi in crisi),
sul perfezionamento di prodotti a volte vecchiotti fino a far dire a
Federico Faggin, il vicentino inventore del micro-processore, che «è un
posto buono per fare sedie e maglioni ma non tecnologia d'avanguardia»? Ciò
che appare certo a vedere il caso di Vicenza, dove l'opposizione denunciava
ieri nuovi progetti cementizi per un altro milione di metri cubi nei
prossimi anni nella sola città capoluogo, è che urge un ripensamento. I
dati, infatti, sono lì, sotto gli occhi di tutti. Ogni miliardo di euro di
crescita reale è costato un consumo di mille ettari di campagna. E dei
52.150 mila abitanti che risultano essersi aggiunti nel censimento del 2001
a quelli del 1991, addirittura 37.140 sono stranieri. Il che vuol dire che
per ogni vicentino in più arrivato nel decennio sono stati tirati su 3.718
metri cubi di calcestruzzo. Pari a un capannone dieci per dieci lungo 37
metri. Può essere questo, lo sviluppo di domani?
Gian Antonio Stella
i numeri
Cemento In dieci anni la crescita edilizia della provincia di Vicenza è
stata di 56 milioni di metri cubi di cemento. Pari a un capannone alto dieci
metri e lungo 560 chilometri
Terra perduta
Sempre in dieci anni i vicentini hanno «perso» 18 mila ettari di terra
coltivata
Terra ricca
La provincia è la prima in Italia nel rapporto tra export e Pil, vanta una
partita Iva ogni 10 abitanti, un'impresa manifatturiera ogni 31 e una
disoccupazione del 2,6%
Consumi
Secondo una miscela di calcoli complessa ogni vicentino oggi consuma 39 mila
metri di territorio pur disponendo di 3.370 metri