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come salvare il capitalismo dagli economisti



dal corriere.it
lunedi 8 giugno 2004

Salvare il capitalismo dagli economisti

Smettiamola di scimmiottare modelli altrui. Nell'industria italiana la
famiglia ha un futuro, il familismo no. Vedi Fiat

Si vanno moltiplicando i libri che si prefiggono di «salvare» il
capitalismo. Ma dopo Braudel e Cipolla bisognerebbe avere un po' di cautela
nell'uso di questo termine così ambiguo e indefinito. Così come bisognerebbe
fare qualche distinzione tra capitalismo, economia di mercato, sistema della
libera impresa che, invece, vengono normalmente utilizzati come sinonimi.
Non so se il moltiplicarsi di questi libri sia un segnale buono o cattivo.
Ma certamente, anche quando sono criticabili, ci aiutano a riflettere sullo
stato di salute della nostra economia. Tra questi un libro certamente vivo,
schietto, tagliente e gradevole da leggere è quello di Claude Bébéar , il
creatore del grande gruppo assicurativo Axa, dal titolo: «Uccideranno il
capitalismo». Chi sono questi sabotatori del capitalismo? L'elenco è lungo:
gli imprenditori senza scrupoli; i manager ossessionati dall'arricchimento
personale e da un sistema che premia i risultati a breve; le banche d'affari
interessate solo alle provvigioni e che propongono operazioni
industrialmente insensate; gli istituti di credito soffocati da
inestricabili conflitti di interesse, privi di rispetto per il mercato e per
i loro clienti risparmiatori; le società di revisione appiattite su una
revisione meccanica e formalistica; le società di rating campioni di
inaffidabilità; i gestori di fondi schiacciati su impropri modelli
statistico-matematici; gli avvocati d'affari «professionisti dell'assillo e
del ricatto giuridico»; i presidenti superstar, veri e propri soldati di
ventura.
Responsabilità e fiducia
Insomma tutti coloro che agiscono senza responsabilità perché «senza
responsabilità non c'è fiducia». Bébéar è uomo di grande esperienza che
conosce dall'interno la vita economia e delle imprese. Per questo si
ribella, con ragionevole spregiudicatezza, ad alcune pericolose formule alla
moda, che tutti ripetono meccanicamente sino a farle diventare giaculatorie.
Sul mercato, ad esempio: «Io non credo per niente al mercato; il mercato
ragiona a breve. Quando si realizza un'operazione, raramente il mercato ha
una reazione positiva. Di solito si dice che il mercato ha sempre ragione,
ma è falso. Il mercato ha praticamente sempre torto».
E sulle società di rating: «Sono profondamente scioccato dalla cieca fiducia
di cui godono le agenzie di rating. In fondo la comunità finanziaria
subappalta loro una parte consistente del lavoro tradizionale del banchiere
che un tempo si svolgeva attorno a questa domanda fondamentale: si può o no
prestare denaro a questa impresa e a quale prezzo?». E sul mito
dell'amministratore indipendente: «Il concetto di "amministratore
indipendente" mi sembra piuttosto ideale. Un amministratore dev'essere
competente, coscienzioso, e coraggioso. E' questo che conta, non altro».
Bébéar ritiene che per il capitalismo sia giunto uno di quei momenti in cui
è necessario ripulire i meccanismi principali.
Se l'analisi è corretta, la terapia suggerita è, però, debole. Non solo
perché la terapia è sempre, almeno in economia, più difficile dell'analisi.
Ma anche perché Bébéar non ha la profondità culturale necessaria per
affrontare la questione centrale delle ragioni di fondo di tutte queste
degenerazioni.
Un libro di grandi ed esagerate pretese intellettuali è invece: «Salvare il
capitalismo dai capitalisti» di Raghuran G. Rajan (indiano) e Luigi Zingales
(italiano), entrambi docenti alla Graduate School of Business
dell'Università di Chicago. Questo libro, accattivante solo nel titolo,
contiene una tesi abbastanza antica e sperimentata: l'establishment e le
élite (sono questi i termini non meglio definiti usati nel libro) non amano
l'economia di mercato, la concorrenza, la libera competizione. Di norma
premono sulle forze politiche per soffocare i mercati e soprattutto, con i
politici, i sindacati, le categorie socialmente protette, sono
tendenzialmente ostili ai mercati finanziari liberi, aperti ed evoluti,
istituzione questa fondamentale per un'economia basata sulla libera impresa.
Un vero peccato
Peccato che questa tesi, non nuova, e che poteva essere efficacemente
illustrata in cinquanta pagine, sia dispersa in trecentosettantun
noiosissime e pretenziose pagine, per molti aspetti molto discutibili,
ricche di esempi, storici, anche se non credo che si tratti di un libro di
storia ma di un libro che si serve di spezzoni di storia per cercare di
dimostrare le proprie tesi. La tesi centrale del libro non è ignota ai
grandi economisti liberali come Von Mises , Roepke , Einaudi e altri,
totalmente ignorati dai due autori. Così già nel 1922 von Mises, in quel
pilastro del pensiero liberale che è Socialism; An Economic and Sociological
Analysis , scriveva:
«L'intero scopo dell'imprenditore è di adattarsi alle contingenze economiche
del momento. Il suo scopo non è di combattere il socialismo, ma di adattarsi
alle condizioni create da una politica che tende alla socializzazione... Né
le associazioni degli imprenditori né quelle organizzazioni in cui ha
importanza il sostegno degli imprenditori, sono inclini a combattere di
principio contro il socialismo. L'imprenditore, l'uomo che coglie
l'opportunità del momento, ha poco interesse verso il problema di una lotta
secolare, di durata indefinita. Il suo interesse è di adattarsi alle
circostanze in cui egli al momento si trova...».
L'ostilità dei grandi imprenditori e dei grandi banchieri e delle rispettive
associazioni verso un mercato finanziario libero, aperto ed evoluto
l'abbiamo sperimentata in Italia a partire dal fascismo e senza sostanziali
soluzioni di continuità, per tutta la seconda metà del '900. Solo negli
ultimi dieci-quindici anni, sotto la spinta del processo di integrazione
europea, della globalizzazione e dell'impegno delle minoranze
modernizzatrici, questa tendenza all'ostilità verso un mercato finanziario
autonomo e funzionante secondo regole proprie, sganciato dalle manipolazioni
dello Stato banchiere e inserito nel mercato internazionale, è stata
rovesciata.
Ma, come bene avvertono Rajan e Zingales, questi processi non sono
irreversibili. Anzi, i rischi di una «macchina indietro a tutta forza» sono
elevati, come conseguenza di una coincidenza di fattori diversi ma
collegati: la gravità degli scandali finanziari internazionali e nazionali
(che Rajan e Zingales sottovalutano) e il disgusto dagli stessi originato
sia negli imprenditori per bene che nei risparmiatori-investitori; la
mancanza di reazione appropriata e tempestiva all'esplosione delle frodi
finanziarie; un processo di concentrazione bancaria molto criticabile che ha
impoverito la strumentazione finanziaria disponibile per le imprese
concentrando indebitamente il potere finanziario in pochissime mani; un
mercato borsistico formalisticamente rigido e sostanzialmente lassista,
organi di sorveglianza dominati da una cultura profondamente burocratica
sempre forti con i deboli e deboli con i forti; la crisi economica e di
competitività internazionale che esige importanti operazioni di
ristrutturazione aziendali e settoriali, senza enti finanziari specializzati
capaci di assistere la media impresa in questo difficile processo.
Indietro non si torna
Ma indietro non si può tornare, senza il suicidio. La media impresa italiana
di qualità, che è l'ossatura del Paese, ne è ben consapevole, anche se è un
po' confusa sulle vie da seguire. Quale capitalismo allora? Quello
anglosassone, con le sue orrende degenerazioni così sottovalutate da Rajan e
Zingales? Quello renano che, forse, non esiste più? Quello di relazioni,
come lo chiamano gli autori, tipico di Paesi come l'Italia e il Giappone,
con le sue collusioni e manipolazioni? E se abbandonassimo questa ricerca di
modelli stranieri e queste patetiche discussioni sui massimi sistemi e su
una cosa così indefinibile - come ci ha insegnato Braudel - come il
capitalismo, e ci limitassimo a vedere le cose che vanno o quelle che non
vanno da noi oggi?
Scopriremmo allora, tra i tanti, tre temi fondamentali. Il primo è quello
degli errori micidiali che un certo tipo di management delle grandi imprese,
con nome e cognome - e non un generico, misterioso e anonimo capitalismo -
ha posto in essere, con gravi e in parte irreversibili danni per l'economia
e la società italiane. E su questo tema ci possono essere molto più utili
libri come quelli di Massimo Mucchetti («Licenziare i padroni?», uscito in
edizione economica con una nuova postfazione sullo scandalo Parmalat) e di
Luciano Gallino («La scomparsa dell'Italia industriale»), libri concreti e
precisi per capire gli errori fatti, per non ripeterli e, possibilmente, per
rimediare dove è rimediabile.
Il secondo è quello di scoprire che lo spessore e l'articolazione
dell'apparato produttivo italiano è, nonostante tutto e nonostante la crisi
di tante (ma non tutte) le grandi imprese, di assoluto rilievo e che tante
partite che sembrano definitivamente perse sono ancora da giocare. In questo
senso la scoperta delle qualità professionali, intellettuali e morali di
buona parte della media impresa familiare italiana sarà sempre tardiva. Ma
il vuoto e la distanza che si sono nuovamente venuti a creare tra questa
media impresa e il mercato mobiliare e finanziario va colmato con un nuovo
pensiero, con nuovi progetti, con un ripensamento globale dei nostri
meccanismi di mercato, che vanno ridisegnati sulle nostre esigenze e sulle
nostre caratteristiche, e non scimmiottando gli americani come abbiamo
fatto, malamente, sino ad oggi.
Il capitalismo italiano è e resterà familiare e se saprà, come in gran parte
già è, essere familiare-professionale e non familiare-familista, farà ancora
una lunga strada. In fondo anche nella recente vicenda Fiat, questo scatto
di orgoglio e di unione della colpita famiglia Agnelli rimane l'aspetto più
positivo ed incoraggiante. Il terzo tema è che nella nostra economia il
pubblico e il privato resteranno sempre intrecciati tra loro come sono
sempre stati sia nel primo capitalismo dei Comuni e delle Signorie che in
quello della moderna industrializzazione.
Intrecci
Ma questo rapporto può essere corretto, trasparente e costruttivo o essere
collusivo, confuso, corrotto, strumentale al potere. La verità è che sul
fronte dell'intreccio perverso tra economia pubblica e privata stiamo
facendo grandi passi indietro, riproponendo, con rinnovata intensità, anche
se con volti nuovi, i nostri più antichi vizi e riportando così i conti
pubblici fuori controllo.
E allora, forse, vale la pena di riprendere e rimeditare, le parole
pronunciate da un grande maestro come Paolo Baffi , nel suo commiato come
Governatore della Banca d'Italia il 31 maggio 1979: «...La cronaca recente
lascerebbe negli assetti economici e nelle persone solo guasti e lacerazioni
se non ne venisse colto il significato profondo di crisi dei criteri e delle
istituzioni attraverso i quali si è manifestato in Italia l'intervento
pubblico nell'economia, e se non se ne traesse impulso per lo studio e la
realizzazione di assetti migliori e più coerenti... Da questa crisi di
criteri operativi, l'economia italiana non potrà uscire senza una
riflessione nuova e sistematica sulle sue regole fondamentali di economia
mista; senza un riesame che miri a definire la qualità e i modi
dell'intervento pubblico nell'economia, non meno della sua dimensione; senza
il contributo dell'intelligenza economica come di quella giuridica».
Da una riflessione seria su queste parole e non dalla retorica caccia ai
comunisti (che non esistono più) dobbiamo ricominciare a pensare.


Obiettivo sviluppo

Aziende familiari, il 50% ha un capo esterno

Ricerca Bocconi per Corriere Economia sulle prime 45 imprese di famiglia.
Ancora pochi i comitati nei Cda. Il 30% ha consiglieri indipendenti

B icchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Guido Corbetta, docente dell'
Università Bocconi, è sostenitore della prima linea. E per questo giudica
positivamente il risultato di una indagine realizzata dalla sua cattedra (la
Aidaf-Alberto Falck, sulle aziende di famiglia) per Corriere Economia sulle
45 imprese familiari quotate di maggior dimensione. E dalla quale risulta
che la metà delle società esaminate ha come amministratore delegato un
membro esterno alla famiglia. Su 34 imprese il cui controllo è saldamente
nelle mani di una famiglia (nelle altre 11 la quota di controllo è di
minoranza), infatti, in 17 l'amministratore delegato è un «terzo». «Certo -
dice il docente - si potrà obiettare che nell'altra metà non lo è, ma il
fatto che il 50% delle famiglie abbia deciso di affidarsi a una persona
esterna è un messaggio da non trascurare, significa che questa transizione è
stata affrontata». L'indagine Aidaf-Bocconi mirava in primo luogo a capire
quanto era diffuso nelle aziende familiari il fenomeno della somma della
carica presidente-amministratore delegato. Il risultato è che, considerando
le sole imprese il cui controllo familiare è di maggioranza, la
sovrapposizione è presente in un terzo dei casi, cioè 11 su 34. Tra queste
ci sono nomi come Italmobiliare, Danieli, It holding e Brembo, ma anche casi
come Recordati, Zucchi o Tod's dove però gli amministratori delegati sono
più d'uno. Più facile che l'azionista sia il presidente (26 casi su 34).
Nelle società in cui le famiglie hanno il controllo con una quota di
minoranza del capitale, invece, esiste una netta separazione tra le due
cariche e in nessun caso presidente e amministratore delegato sono la stessa
persona.
Lo studio prende le mosse dalle vicende accadute alla Fiat, con la nomina di
Luca Cordero di Montezemolo alla presidenza del gruppo torinese dopo la
scomparsa di Umberto Agnelli, l'uscita di Giuseppe Morchio che avrebbe
voluto cumulare i poteri del presidente a quelli dell'amministratore
delegato e la successiva nomina di Sergio Marchionne a nuovo ceo.
Cambiamenti decisi dalla famiglia Agnelli che hanno anche determinato
reazioni diverse e hanno riaperto la discussione sul capitalismo familiare.
«Non si può parlare di capitalismo familiare in generale, ne esistono tanti
tipi diversi - dice Corbetta -. C'è quello chiuso in se stesso e incapace di
trasformazioni, ma ne esiste un altro che ha saputo rinnovarsi. Ci sono
società quotate come Italcementi, Buzzi, Merloni, Autogrill, per citarne
alcune, che hanno saputo fare belle operazioni anche all'estero. Ci sono
casi come Campari, Bulgari, Brembo che dimostrano un'evoluzione molto
positiva. Ci sarà una selezione e sarà il mercato a sanzionare chi non
evolve».
Se tutti auspicano un maggior apporto di manager alle aziende familiari, va
detto che per un dirigente di alto livello non è sempre facile lavorare in
realtà che sono considerate dagli imprenditori «parte di se stessi», come
ricorda Mario Consiglio, fondatore di Gea e consulente di alcune delle più
importanti famiglie italiane. Claudio Ceper, partner di una delle maggiori
società mondiali di cacciatori di teste, la Egon Zehnder, ricorda che
«spesso l'inserimento di un ceo avviene in concomitanza del passaggio
generazionale» e sottolinea come l'intervento di un amministratore delegato
«che abbia idee e poteri» vada a rompere equilibri e abitudini dell'azienda
di famiglia, creando di conseguenza dei traumi. Ora, se tutte e due le parti
hanno fiducia e comprensione reciproca, il processo funziona. Ma se la
famiglia ha paura di perdere potere e il manager teme di non poter incidere
sui risultati, il meccanismo si inceppa. «A oggi - dice Ceper - direi che ci
sono ancora molte resistenze, anche se il tempo giocherà a favore dell'
ingresso dei manager in azienda».
Tra gli elementi positivi che emergono dall'indagine Aidaf-Bocconi (alla
quale ha collaborato Alessandro Minichilli), Corbetta cita poi il fatto
«che, in definitiva, i casi in cui le famiglie controllano le società
attraverso scatole cinesi sono numericamente pochi, anche se riguardano
gruppi influenti dell'economia e della finanza. Ma la grande maggioranza
delle imprese fa capo a famiglie che sostengono la maggior parte del rischio
dell'azienda. Cosa che risulta ancora più vera se andiamo a vedere le grandi
realtà familiari non quotate. D'altro canto - conclude -, si dice sempre che
le aziende devono andare in Borsa: il primo passo è farlo, diventare
contendibili sarà il successivo». Tra gli elementi positivi anche la buona
presenza di consiglieri (almeno formalmente), indipendenti, la cui incidenza
è attorno al 30% (ma vi sono quattro casi Brembo, Campari, Impregilo e
Recordati in cui supera il 63%). «Dipende molto dal consigliere - dice
Corbetta - anche se Parmalat ha suggerito a molti indipendenti di essere più
presenti». Complessivamente, 16 imprese sulle 34 a controllo familiare di
maggioranza hanno una presenza di azionisti in consiglio tra il 30 e il 50%
e 2 oltre il 50%.
Tra i risultati negativi, invece, il fatto che i consigli di amministrazione
siano eccessivamente affollati (mediamente hanno 11,33 consiglieri) e per
questo meno facilmente operativi. E soprattutto la scarsa presenza di
comitati (il comitato per le nomine, per esempio, esiste solo in Marzotto,
Campari e Pininfarina).
La fotografia che esce, come si vede, non è univoca. E d'altra parte
rispecchia un universo che ha molti elementi anche in contraddizione tra di
loro. Così, per esempio una recente ricerca di Newsweek ha messo in evidenza
come i titoli delle società familiari quotate abbiano registrato tra il 1993
e il 2003 performance migliori degli altri titoli in Francia, Germania e
Italia (sostanzialmente uguali in Spagna e Svizzera, leggermente inferiori
in Gran Bretagna). Ma allo stesso modo esiste per queste imprese un problema
di dimensione.
Mario Boselli, neo presidente dell'Aidaf, racconta di come sia rimasto
sorpreso scoprendo che con i suoi 50 milioni di euro di fatturato sia non
tra le aziende più piccole, bensì tra le prime 10 delle 32 imprese familiari
ultracentenarie del mondo. «È su questo che dobbiamo interrogarci: fino a
quando la famiglia è un vantaggio competitivo e quando invece non sia un
freno alla crescita». Ed è proprio il crescere delle dimensioni l'elemento
che «forza le decisioni», come dice Mario Consiglio. Che cita Merloni - dove
Vittorio Merloni rappresenta il riferimento per il controllo, la governance
e la visione strategica, mentre Andrea Guerra è a tutti gli effetti un
amministratore delegato - per sostenere come la complessità raggiunta dal
gruppo imponga la capacità di delegare. Semmai, conclude, il problema è che
«di imprese familiari che superano il miliardo di euro ce ne sono
pochissime».

Maria Silvia Sacchi