Re: su Asor Rosa e sulle elezioni



oddio, ci vorrebbe un esperto di economia politica; io non sono economista! sono un ferroviere. Spero qualcuno integri e corregga, in lista ci sono persone ben più competenti.
In due parole i marxisti vedono la crisi del capitalismo nella caduta media del tasso di profitto, cioè chi investe vede diminuita la percentuale di guadagno sul capitale; i keinesiani da una carenza della domanda aggregata, cioè le persone non hanno soldi e non comprano, così le aziende non vendono.
Nel primo caso si mantiene alto il tasso di profitto abbassando i salari, ma si deprimono i consumi interni. Il capitalismo senza crescita è un controsenso, ma oggi  i mercati sono saturi e la crescita impossibile, infatti il problema non è la carenza di capitali, ma la loro abbondanza che non trova remunerazione in investimenti. Per questo si è operato per anni sostenendo la produzione facendo indebitare i consumatori creando una bolla alla lunga insostenibile. Per questo si sono inventate anche le "grandi opere inutili" che, come la speculazione finanziaria, non creano ricchezza, ma la concentrano reperendola nella collettività attraverso il debito.
Nel secondo caso si dovrebbe prevedere uno stato finanziatore dei consumi per far riprendere l'economia; così si è usciti dalla crisi del '29, redistribuendo ricchezza. Ma oggi parrebbe che nessuno prenda in considerazione questa opzione e si punta solo a concentrare ricchezza, non a crearla o redistribuirla. I marxisti dicono che comunque oggi questa via non è praticabile essendo arrivate al limite le potenzialità dei mercati.
Personalmente credo che un sistema economico che ha come principale scopo la produzione di profitto alla lunga non regge (oltre che essere ingiusto) e le cronache degli ultimi anni mi pare lo confermino. Ci vorrebbe la capacità di elaborare modelli diversi, ma mi pare che in Europa ci sia poca scienza e coscienza.
Ti incollo sotto un articolo che ho già inviato nella lista e che mi pare molto chiaro e veramente completo nella sua sinteticità

http://www.alfabeta2.it/2013/03/03/a-che-punto-e-la-notte/


Vladimiro Giacché

Una delle principali banche del paese ha maturato 2,2 miliardi di perdita netta nell’ultimo trimestre del 2012 e ha dovuto accantonare 1 miliardo per spese legali. La banca centrale ha ridotto ancora le previsioni di crescita. Nel solo mese di dicembre le vendite al dettaglio sono calate dell’1,7% rispetto a novembre, e del 4,7% rispetto al dicembre del 2011. No, non stiamo parlando dell’Italia, ma della Germania.

Della situazione drammatica in cui versano i paesi europei in crisi sappiamo molto: della disoccupazione in Spagna, dell’aumento dei suicidi in Grecia, e ovviamente dei fallimenti di imprese in Italia. Meno noto, invece, è il fatto che i paesi europei ritenuti «virtuosi» e «al sicuro» non se la passano affatto bene: la Banca Centrale dei Paesi Bassi prevede per l’Olanda un –0,5% del Pil nel 2013, e un ulteriore calo nel 2014; la disoccupazione è in aumento in Finlandia; quanto alla Francia, in cronico deficit della bilancia commerciale, lo stesso ministro del Lavoro l’ha definita «uno Stato in totale bancarotta».

Cosa sta succedendo? Semplice: nel 2007-2008 è saltato un modello di sviluppo che aveva sostenuto per trent’anni la crescita economica dei paesi a capitalismo maturo. Un modello imperniato sulla finanza e sul debito (privato e pubblico). L’implosione di quel modello non è più reversibile di quanto lo fosse la caduta del Muro di Berlino. Ciò nonostante tutti gli sforzi dell’establishment occidentale in questi anni sono stati indirizzati a rappezzare quel modello andato in frantumi.

Si spiegano così l’assenza di regolamentazione dei derivati, il tentativo (riuscito) di ritardare al massimo l’entrata in vigore delle nuove regole sul capitale delle banche, e infine l’abortita supervisione europea delle banche (che varrà soltanto per le pochissime banche con attivi superiori ai 30 miliardi di euro, ed entrerà in vigore non prima dell’aprile 2014).

Non solo: come ha rilevato Bill Gross di Pimco, il maggiore fondo d’investimento specializzato in obbligazioni, «quasi tutti i rimedi contro la crisi proposti sino a oggi dalle autorità di tutto il mondo hanno affrontato il problema con l’obiettivo di favorire il capitale contro il lavoro». Ma in Europa a questa durissima guerra di classe si è unita una guerra feroce tra capitali. Una guerra determinata dal tentativo del capitale di Germania e paesi satelliti di far sì che la distruzione di capitale in eccesso oggi necessaria avvenga nei paesi periferici, da trasformare sempre più in fornitori di manodopera e di beni intermedi a basso costo per lo hub economico centrale dell’Europa – la Germania, appunto.

Il vero significato dell’austerity estrema imposta a paesi già fiaccati dalla crisi sta tutto qui. Ma questo obiettivo, in parte conseguito (la regressione della produzione industriale italiana ai livelli del 1988 parla da sola), ha comportato un pesante effetto collaterale: un crollo di redditi e consumi dei paesi periferici di tale entità da avere un impatto assai pesante sugli scambi commerciali intraeuropei. E quindi anche sull’export della Germania e degli altri paesi del Centro-Nord dell’Europa. Risultato: il problema della sovrapproduzione industriale, appena scaricato sulle spalle dell’Europa del Sud, si ripresenta come un incubo nella stessa Germania.

Inoltre l’accesso ai mercati extraeuropei è reso più impervio dalla guerra valutaria scatenata dagli Stati Uniti e dal Giappone attraverso imponenti immissioni di liquidità nel sistema che hanno avuto l’effetto di provocare un forte indebolimento di dollaro e yen nei confronti dell’euro. Crisi economica, disoccupazione di massa, deflazione salariale, guerra valutaria: quattro ingredienti cruciali della crisi degli anni Trenta sono chiaramente dispiegati davanti ai nostri occhi, mentre anche il crescente attivismo militare europeo in Africa contribuisce a riportarci indietro di decenni.

È in questo contesto che i movimenti di opposizione, in Italia e in Europa, dovranno saper collocare i loro obiettivi. A cominciare dall’opposizione alle politiche di austerity depressiva e alla cornice istituzionale entro la quale si collocano, di cui il famigerato Fiscal Compact è soltanto l’ultimo tassello. Una cornice che ormai serve soltanto a puntellare malamente un modello di sviluppo che ha fatto fallimento.


Il 05/03/2013 13:52, alessandra romano ha scritto:
Mi dai un'idea degli "strumenti di analisi marxiste o keinesiane"?