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16 dicembre 2012
Lo studio
Container, timori di bolla speculativa
Genova - La stagione delle bolle finanziarie potrebbe non essere finita.
C’è una potenziale Lehman Brothers nascosta tra i flutti degli oceani, laddove
la finanza ha incontrato il mondo armatoriale, in un abbraccio che rischia di
essere mortale. Secondo uno studio di Boston
Consulting,nel 2011 le prime
sedici flotte mondiali dei container con bilanci pubblicati hanno perso 5
miliardi di dollari. Nessuna però è
fallita: c’è chi ha avuto accesso a
fondi pubblici (come la francese Cma Cgm), chi può contare sul sostegno di
gruppi con immensa liquidità
(Maersk), chi ancora una volta ha avuto
iniezioni di capitali dai propri azionisti.
«Ma proviamo a immaginare se
davvero una delle prime 20 compagnie mondiali dello shipping del container
dovesse fare la fine di Lehman
Brothers, assisteremmo non a un cataclisma
dell’universo immateriale del denaro ma della circolazione “fisica” delle
merci». Non è
fantaeconomia secondo Sergio Bologna, uno dei massimi studiosi
italiani dell’economia del mare, già autore nel 2010 per Egea Editore de “Le
multinazionali del mare”. Ora è consultabile online “Il crack che viene dal
mare” (www.fondazionemicheletti.it/altronovecento). Secondo
Bologna, dopo la
bolla immobiliare e dei mutui subprime potrebbe arrivare la bolla dello shipping
nel settore dei container. E questa volta l’
epicentro sarebbe molto vicino.
Amburgo, non New York. A minare le fondamenta dei meccanismi che presiedono alla
gestione economica della catena logistica è “un infernale gioco dei quattro
cantoni” tra grandi compagnie di linea, armatori, fondi chiusi e banche. Le
compagnie di linea sono le protagoniste dell’immensa corsa al rialzo degli
ultimi anni, con ordini per navi sempre più grandi e sempre più capienti, sino
all’attuale crollo dei noli per eccesso di domanda. Una “follia” che,
secondo Bologna, risponde a logiche finanziarie più che industriali. Navi sempre
più grandi sono ordinate non tanto, come sostengono i manager, per aumentare le
economie di scala (in molti casi, attualmente, viaggiano al 60%), ma per
alimentare un rapporto vitale con le banche che sostengono queste società sulla
base delle quote di mercato, del valore degli asset, delle previsioni di
crescita. «La quota di mercato, come argomento principe del rating bancario,
spiega la folle corsa ad acquisire volumi, la valorizzazione degli asset spiega
la folle corsa all’acquisto delle navi». Oggi, tra Asia ed Europa, la rotta più
ambita dai grandi gruppi, sono attivi 24 servizi container. Si può stimare per
ciascuno di questi un costo di 1,5 miliardi: fanno 36 miliardi immobilizzati.
Che, data la flessione della domanda di trasporto, non è affatto detto siano al
sicuro. Delle perdite delle compagnie marittime, si è detto. Ma c’è ben altro:
Hsh Nordbank, istituto leader nei finanziamenti allo shipping, è stato salvato
nel 2008 dallo Stato tedesco e ora naviga nuovamente in cattive acque, pronto a
chiedere l’accesso al fondo di garanzia dei Laender sino a 1,3 miliardi di euro.
È il centro di un terremoto che sta travolgendo anche i piccoli risparmiatori
che, in Germania, sono soliti investire in fondi chiusi specializzati nel
settore dello shipping. Tali fondi - semplificando- acquistano navi dai cantieri
come ordini per poi rivenderle al momento della consegna, oppure incamerando gli
introiti del noleggio. Ma quando le rate crollano, il meccanismo si inceppa ed,
essendo fondi chiusi, è impossibile ritirare i propri soldi prima del tempo. Nel
primo trimestre 2011, secondo la Faz, i risparmiatori hanno dovuto rifinanziare
i fondi chiusi con nuova liquidità per 41,6 milioni di euro, a luglio «i prezzi
di vendita di molte navi sono scesi così in basso da sfiorare il valore delle
navi in demolizione». Uno scenario che ha mandato in tilt anche i non operating
ship owner, cioè quelle società , in gran parte tedesche, che possiedono parte
delle navi impiegate nei servizi delle compagnie di linea e che, ora, iniziano a
temere per la tenuta dei conti. Le banche iniziano a farsi da parte, a chiudere
i rubinetti: Hsh Nordbank, ma anche Commerzbank e altre ancora. Sperando non sia
troppo tardi. Intanto il Ceo di Maersk Nils Andersen, lo scorso 19 novembre ha
dichiarato la volontà di non investire più nello shipping nei prossimi cinque
anni, salvo poi correggere la rotta in un secondo momento. Nel frattempo, però,
onde sismiche di preoccupazione hanno attraversato tutto il mercato. Perché le
compagnie marittime sono la classica società “too big too fail” troppo grande
per fallire senza fare molto male.
Samuele Cafasso
cafasso at ilsecoloxix.it