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sinistra conflitto beni comuni
- Subject: sinistra conflitto beni comuni
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 25 May 2012 06:33:33 +0200
da DK0.it
Sinistra conflitto beni comuni di GUIDO VIALE
Dal manifesto di venerdì 11 maggio
2012.
Propongo di non usare mai più il termine
“benecomunista”: è orribile, ridicolo, equivoco e neogotico. Sembra il nome di
una congregazione iniziatica fantasy. Poi, per evitare disquisizioni dotte ma
superflue, chiamando magari in causa persino san Tommaso, propongo una
distinzione netta tra il concetto di bene comune, senza ulteriori
determinazioni, e quello di beni comuni; che può anche essere declinato al
singolare come bene comune, ma solo se riferito a entità specifiche e
circoscritte, anche se globali e diffuse: come lo sono per esempio l’acqua,
l’atmosfera, l’informazione, i saperi, la scuola.
Bene comune rinvia a una concezione armonica e
unitaria della società, dei suoi fini ultimi, dei suoi interessi, della
convivenza. Il tema dei beni comuni rimanda invece al conflitto: contro
l’appropriazione, o il tentativo di appropriarsi, di qualcosa che viene
sottratto alla fruizione di una comunità di riferimento. Una comunità che non
include mai tutti, perché si contrappone comunque a chi – singolo privato o
articolazione dello Stato – da quel bene intende trarre vantaggi particolari,
escludendone altri. In questa accezione il rapporto con i beni comuni comporta,
sia nella rivendicazione che nell’esercizio di un diritto acquisito, forme di
controllo diffuso e di partecipazione democratica alla loro gestione o ai
relativi indirizzi che integrino le forme ormai sclerotizzate della democrazia
rappresentativa.
Per me il concetto di beni comuni ha relativamente
poco a che fare anche con il “Comune” di cui scrivono Negri e Hardt. Quel
“Comune” non è che l’ultima versione di una soggettivazione totalizzante del
reale che ha attraversato una successione di figure: Classe Operaia, “operaio
massa”, “operaio sociale”, “moltitudine”, per approdare, per ora, al “Comune”. È
un’entità che “gioca con se stessa”, producendo il proprio antagonista (la
Classe Operaia “sviluppa” il Capitale; la moltitudine “crea” l’Impero, ecc.) per
poi riassorbirlo in un movimento dialettico dall’esito precostituito. Le lotte
per i beni comuni, invece, non hanno esiti certi e meno che mai predeterminati:
anzi, il rischio a cui sono esposte – e insieme ad esse, coloro che se ne fanno
protagonisti e l’umanità tutta – è di giorno in giorno
maggiore.
In entrambe queste accezioni “comune” non è
comunque la stessa cosa di “pubblico”: soprattutto se per pubblico si intende
“statuale”. Il che inevitabilmente succede se si ritiene che il rapporto degli
umani con un bene non possa assumere altra forma che quella del diritto di
proprietà. Ma questa concezione non ha alcun fondamento storico, risponde a un
approccio giuridico tradizionale e sbarra la strada a qualsiasi percorso
alternativo allo stato di cose presente.
In realtà sono le modalità di esercizio del potere
su un bene, del controllo sul suo uso e sulla ripartizione, attuale e nel tempo,
dei vantaggi che può procurare, a definire le forme, anche giuridiche, esplicite
o sottintese, secondo cui si dispone di esso. Per questo la connotazione di una
risorsa come bene comune è indissolubilmente legata a forme di democrazia
partecipativa che lo sottraggano tanto alla disponibilità di un privato quanto a
quella di un apparato statale o di una sua articolazione. Il degrado e la
rapacità delle imprese di Stato, o delle società a partecipazione pubblica
(dall’Iri a Finmeccanica, da Fs alle ex municipalizzate), sottratte a qualsiasi
forma di controllo popolare, dimostra in modo inconfutabile la divaricazione tra
pubblico, nel senso di statale, e comune. Peggio ancora se si pensa di affidare
a poteri più centralizzati (Regione o Stato), come propone Asor Rosa, il compito
di rimediare ai guasti perpetrati dai livelli decentrati
dell’amministrazione.
Quei guasti possono essere evitati o corretti solo
in un regime di trasparenza integrale, con forme di coinvolgimento e di
consultazione popolare: che non sono però riducibili a un referendum, e meno che
mai a un sondaggio; perché devono essere precedute e accompagnate da confronti
pubblici, effettivi e approfonditi, sui problemi in campo. Per questo ho molte
riserve anche sulla proposta di Luciano Gallino di un’agenzia nazionale per il
lavoro che finanzi progetti locali. Queste agenzie ci sono già: si chiamano
Invitalia (già Sviluppo Italia e prima ancora Gepi) e Italia Lavoro. Sono due
baracconi che conosco personalmente, dove si concentra la quintessenza del
degrado clientelare. Non sono mancate loro in passato risorse finanziarie
ingenti, anche se non nella misura proposta da Gallino, e hanno quasi sempre
operato su progetti locali: messi però a punto da poteri pubblici statuali, al
di fuori di qualsiasi coinvolgimento partecipativo delle comunità beneficiarie.
I risultati sono stati devastanti. Per questo ritengo la democrazia
partecipativa condizione irrinunciabile anche della lotta per il
lavoro.
Che rapporto passa allora tra il conflitto sociale
che ha una delle sue leve nelle mobilitazioni per dei beni comuni e la lotta di
classe tra lavoro e capitale? La lotta di classe, come ancora recentemente ha
ben documentato Luciano Gallino (se mai ce ne fosse stato bisogno), è ben viva e
oramai estesa su tutto il pianeta. È soprattutto la lotta contro i lavoratori
sferrata dal capitale finanziario, commerciale e industriale, a cui la
globalizzazione ha messo in mano (oltre alle forme tradizionali di spolpamento
dei lavoratori dalla testa in giù) anche l’arma delle delocalizzazioni: per
poter tagliare loro l’erba sotto i piedi in qualsiasi momento e in qualsiasi
luogo. È difficile anche solo immaginare che i lavoratori di tutto il mondo
possano ricostituire in tempi adeguati collegamenti, organizzazioni o reti
sufficientemente estese per contrastare, al suo stesso livello, questo attacco
globale. Da tempo le lotte dei lavoratori hanno per lo più una dimensione
ristretta, aziendale o di categoria, quando non di reparto; raramente nazionale
e mai transnazionale. E anche quando assumono forme offensive, il che non
succede spesso, difficilmente riescono, soprattutto nei paesi di consolidata
industrializzazione come il nostro, a spuntare risultati che non siano di mero
contenimento dell’aggressione alle proprie condizioni di lavoro, di reddito e di
vita.
Secondo me quella corsa al ribasso che costituisce
la sostanza e il motore della globalizzazione liberista può essere fermata solo
sottraendo il lavoro – a pezzi e bocconi – ai diktat di una competizione senza
limiti: con un processo, o una serie di processi, di conversione ecologica del
sistema produttivo che rimetta al centro, insieme alla sopravvivenza del
pianeta, produzioni orientate alla soddisfazione dei bisogni basilari e al
miglioramento delle forme di convivenza delle comunità di riferimento: cioè i
beni comuni.
Per questo il conflitto sociale per i beni comuni
costituisce il supporto e lo sbocco indispensabile di un ripresa offensiva della
lotta contro lo sfruttamento del lavoro.
È ovvio, per me, che a un movimento che si batte per i beni comuni, l’ambiente, il lavoro e l’accoglienza ciascuno deve essere libero di portare il bagaglio di idee e di ideali che si è costruito nel tempo e che ha deciso di traghettare fino a qui, magari attraversando mari in burrasca e bonacce snervanti. Benvenuti! Senza quel bagaglio – quei bagagli, perché sono tanti e differenti – dovremmo partire da zero; e non è così. Ma a me sembra sbagliato sostenere – come temono alcuni – che «se non ci si dichiara di sinistra, si apre alle idee della destra». Milioni di persone oggi non riescono a considerarsi di destra o di sinistra e provano disgusto tanto per il cinismo e il carrierismo che contraddistingue la destra quanto per l’acquiescenza e la corsa all’emulazione di cui in tanti anni ha dato prova chi ha rappresentato la sinistra agli occhi di un’opinione pubblica poco impegnata e aliena dai troppi distinguo. Ma c’è di più: Bossi e Berlusconi, che fin dai loro
esordi hanno messo in scena, promosso e cavalcato la cosiddetta antipolitica
(altro che Beppe Grillo!), hanno diffuso tra i più sprovveduti, ma soprattutto
tra milioni di giovani che si sono affacciati alla vita adulta in quel contesto,
una identificazione pressoché totale tra sinistra e politica nella sua accezione
peggiore, che è quella che tutti hanno da tempo sotto gli occhi. Loro, invece,
proprio perché antipolitici, da quei vizi si erano chiamati fuori. Questa
costruzione si sta sfaldando sotto il peso delle inchieste giudiziarie (assai
più che per circostanziate denunce politiche), ma resta un dato di fatto da cui
non si può prescindere. Dichiararsi oggi di sinistra in forma pregiudiziale, e
non qualificarsi invece per i contenuti e le battaglie che si sostengono, vuol
dire probabilmente erigere steccati nei confronti di un pubblico che è un
interlocutore diretto del discorso sul beni comuni. Il successo dei referendum
contro la privatizzazione dell’acqua e il nucleare ne è, a contrario, la
riprova.
Il soggetto politico nuovo oggi si chiama Alba; e
noi “albigesi”. È una liberazione. Ritengo – e con me molti altri; e alcuni lo
hanno fatto notare – che la lotta politica che ci vede impegnati non abbia, e
non abbia bisogno, di un “soggetto” (anche e soprattutto nel senso etimologico
del termine, che significa «chi sta sotto»). La ricerca o la promozione del
soggetto che si fa carico di un processo storico, o di una transizione radicale
– e di questo stiamo parlando, credo – comporta effetti totalizzanti che
contraddicono le premesse che ci hanno fatto convergere verso questo impegno.
Invece, gli attori dei processi all’interno del quale vogliamo operare sono, e
saranno sempre di più, molteplici e plurali. E anche aleatori: oggi ci sono e
domani possono scomparire, insieme a noi, sia come individui che come forza
organizzata. Tutto ciò alcuni di noi lo hanno già sperimentato più volte.
L’importante è che il processo vada avanti comunque, magari correggendo la rotta
nel corso del tempo; e che ci sia sempre posto per nuovi ingressi e soprattutto
per nuovi protagonismi: specie delle nuove generazioni e di un punto di vista di
genere elaborato e trasmesso dalle donne. Sulla loro partecipazione si gioca
l’esito di questa iniziativa.
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