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le multinazionali dei mari
- Subject: le multinazionali dei mari
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 23 Jan 2012 06:35:47 +0100
Le multinazionali del
mare
— 17 gennaio 2012 di SERGIO BOLOGNA Dal sito La furia dei cervelli (http://furiacervelli.blogspot.com) una analisi del naufragio della Costa Concordia, all’isola del Giglio, di Sergio Bologna, autore de “Le multinazionali del mare”. Strano che nessuno si sia chiesto quale bandiera batte la “Costa Concordia”. Strano che nessuno si sia chiesto chi stava sul ponte di comando della nave al momento dell’incidente. Strano che nessuno abbia ricordato che ai primi di ottobre del 2011 la nave portacontainer “Rena” della MSC è andata a sbattere contro l’Astrolabe Reef in Nuova Zelanda, uno dei più preziosi paradisi marini del globo, e che da allora (sono passati tre mesi e mezzo) sputa petrolio su quelle acque incontaminate, creando il più grave disastro ecologico in quell’emisfero. Strano che nessuno ricordi come l’Italia abbia a che fare in questi incidenti, per più motivi. Costa Crociere, nata italiana come dice il nome, è controllata dal gigante americano del settore. Ma chi la gestisce? Le navi, è bene si sappia, sono di proprietà, di norma, di una holding la cui prima preoccupazione è di metterle al riparo dal fisco e dalle norme sulle tabelle d’armamento presso certi paradisi fiscali (da cui le cosiddette “bandiere ombra” o flag of convenience). Ma sono gestite da Ship Management Societies specializzate che decidono le assunzioni di personale e lo fanno di solito in base al principio del minor costo. Sulla “Rena” c’erano 15 filippini su 20 uomini di equipaggio. I filippini hanno pessima fama, ma ingiustamente, da “paria” del settore sono diventati oggi tra quelli meglio preparati, perché negli anni hanno imparato che la loro vocazione era quella ed hanno investito in scuole professionali, che rilasciano i diplomi ed i certificati necessari per l’imbarco. Purtroppo oggi il mercato dei certificati falsi è fiorente, oggi i “paria” sono altri, ucraini, vietnamiti, turchi, bielorussi. 1. Sabato c’è stata una manifestazione sul Canale della Giudecca a Venezia
contro il passaggio delle grandi navi da crociera. Stava uscendo in quel momento
la “MSC Magnifica”. MSC sta per Mediterranean Shipping Company ed è la creatura
di un geniale italiano di Sorrento, Gianluigi Aponte, che ha trasferito le sue
attività in Svizzera, a Ginevra, dove sembra abbia preso moglie con tanto di
banca in dote. Ha una flotta di circa 150 navi portacontainer (è la seconda al
mondo) ed una flotta sempre più consistente di navi da crociera. I suoi
comandanti e, spesso, anche i suoi ufficiali, sono di Sorrento o dintorni. Anche
quello della “Costa Concordia” viene da Sorrento, si legge, e con il suo
comportamento ha coperto di disonore una categoria di validissimi uomini di
mare. MSC è famosa nel mondo per la sua mancanza di trasparenza. Non comunica
informazioni relative ai suoi traffici, in particolare sui volumi di merce
trasportata, non conferma né smentisce le notizie che le pubblicazioni insider
sfornano ogni giorno sulle loro costosissime newsletter. MSC si è fatta largo
con una politica di prezzi assai aggressiva, al limite del dumping, possibile
quando si riducono i costi al massimo e magari quando si dispone di grande
liquidità (gli invidiosi o i malevoli dicono di sospetta origine).
2. Ma torniamo alla nave naufragata. Chi era sul ponte di comando? Il
comandante e, si suppone, qualche ufficiale erano a cena con gli ospiti che si
erano messi in ghingheri apposta. Che il personale fosse addestrato
all’emergenza è probabile, ma per quanto riguarda il core manpower, il 10/15%
del totale quindi, le centinaia di precari a bordo, che spesso parlano un paio
di parole d’inglese al massimo, certo non lo erano. Chi aveva verificato il
funzionamento dei verricelli delle scialuppe di salvataggio? Nessuno. La “Rena”
era una nave substandard, sottoposta ad ispezioni almeno una quarantina di volte
negli ultimi anni, in genere era stata fermata e rilasciata solo dopo giorni.
Troppo costoso per il signor Aponte ritirarla dal servizio. Le navi da crociera
invece sono recenti, dotate delle più sofisticate apparecchiature di bordo. Se
causano disastri è per cause diverse da quelle destinate al cargo. E quali sono
queste cause?
3. La principale è di carattere culturale, di costume si potrebbe dire. Non
è tanto problema di preparazione del personale, di controllo del funzionamento
delle apparecchiature, di competenza degli ufficiali, è prima di tutto la
cultura della “movida” a determinare certi comportamenti irresponsabili. Una
nave da crociera è un’oscena “movida” galleggiante, che, a differenza di quella
che ha devastato città come Barcellona ed altre, coinvolge vecchi e bambini,
donne incinte e suore, paraplegici e malati cronici, tutti ammucchiati nella
spensieratezza e nello shopping, con cabine costruite per essere scomode in modo
che i passeggeri vadano in giro a comperare. Gli introiti all’armatore
provengono dallo shopping in egual misura che dalla tariffa di passaggio. E poi
lo spirito della “movida” è quello che fa avvicinare questi mostri
pericolosamente alle coste più belle, alle acque protette dei pochi e non
presidiati parchi marini.
Chi abita a Camogli e dintorni è ormai abituato a vedere le navi da crociera uscire dal porto di Genova e puntare diritte sul parco marino di Punta Chiappa, passandoci sfiorando le boe fatte per barche e motoscafi. Le sente lanciare l’urlo delle sirene e allora la gente del posto spiega: “I comandanti sono di Camogli ed è usanza che vengano a salutare le mogli e le mamme. Camogli viene da Ca’ delle mogli”. All’inizio ci cascavo anch’io e magari ripetevo questa sciocchezza a dei bagnanti inquieti per l’avvicinarsi del mostro, ma oggi so che non è così. Perché le grandi navi passano per il Canale della Giudecca? Per permettere ai passeggeri di scattare una foto di piazza San Marco dal bacino. E questa “esperienza” pare che valga l’intera crociera. Altrimenti perché i tour operator minaccerebbero di boicottare Venezia se le navi non passassero più per il canale della Giudecca? 4. Era troppo tardi all’Isola del Giglio per scattare le foto. La “movida”
si era trasferita ai tavoli delle mense. Ma la “movida” da sola non basta a
spiegare le modalità dell’accaduto. Un fattore strutturale è il cosiddetto
“gigantismo” navale. Perché si costruiscono navi da 100 mila tonnellate, in
grado di portare anche 6.000 persone? Per risparmiare sui costi, punto. Non è
che la vacanza è più bella se a bordo si è in 6 mila invece di mille, anzi il
servizio rischia di essere peggiore. Una simile nave in caso di incidente è
governabile assai meno di una nave più piccola, fosse pure perfettamente esperto
tutto l’equipaggio in evacuazioni d’emergenza. E’ il gigantismo in sé la pura
follìa, perché innesca il circolo vizioso. Quanto più grande la nave, tanto
inferiori i costi unitari per l’armatore che può offrire prezzi a portata di
tutte le tasche. Tanto più basse le tariffe tanto più difficile la concorrenza
da parte di navi più piccole, con costi unitari maggiori. Le barriere d’ingesso
al mercato si alzano, la situazione diventa di oligopolio e magari su
certi segmenti di mercato diventa monopolio, allora le tariffe possono
riprendere a crescere, ma nel frattempo è il disastro. Nelle navi portacontainer
la logica è la stessa ed i danni all’ambiente sono costanti. Oggi sono in ordine
ai cantieri navi da 18.000 TEU, per entrare in un porto hanno bisogno di alti
fondali.
Se chiedete a un Presidente di un qualunque porto italiano, che non sia Trieste, in quali attività investe le maggiori risorse, vi sentirete rispondere: scavare i fondali. Anche a Venezia è così e se non ci si ferma in tempo sarà la morte della laguna, che già è agonizzante. Con la costruzione del MOSE le bocche di porto si sono ristrette ed i conducenti dei vaporetti vi diranno che razza di velocità hanno preso le correnti in uscita ed in entrata a seconda delle maree, roba da render difficile il governo di un vaporetto. 5. La Ship Management Society della “Rena”, la portacontaienr che sta
ancora devastando il reef neozelandese, è la Costamare, con sede in Grecia. Se
andate sul sito, troverete che si considera la migliore del mondo nel
trattamento degli equipaggi. Possiamo anche crederle ma il problema oggi è che
ci si trova ormai nello shipping in una situazione, come nella finanza, sfuggita
ad ogni controllo. Per disastri di proporzioni inimmaginabili le multe pagate
dalle società sono ridicole, qualche problema in più lo hanno semmai le
assicurazioni, la colpa comunque è sempre dell’uomo, cioè di quel disgraziato a
bordo che si è fatto magari un turno di 16 ore. Si dice che il comandante della
“Rena” fosse ubriaco, forse era fatto di coca o forse il suo secondo al timone,
chissà. Non esiste un’Autorità Internazionale che abbia giurisdizione sulle
acque, in mare ciascuno fa il cazzo che vuole, l’International Maritime Office
può fare solo raccomandazioni e le sue Direttive debbono essere ratificate dagli
Stati… campa cavallo.
La deregulation è totale ed è iniziata con la deregulation del lavoro. Per questo sono nate le bandiere di comodo, non tanto per pagare meno tasse ma per aggirare gli standard dell’organico di bordo, cioè delle tabelle d’armamento. Le caratteristiche fisiche e tecniche di ogni nave richiedono un organico ben definito in termini di numero e di qualifiche, di ufficiali e di crew. Gli armatori registrano la nave a Panama, alle Isole Caimane, in Liberia per poter avere la mano libera sulle caratteristiche dell’equipaggio. Nel mirino si dovrebbero tenere quindi non solo gli armatori ma le Ship Management Societies. In Italia si è trovata una via di mezzo, il cosiddetto Secondo Registro Navale, la nave rimane sotto bandiera italiana e le tasse l’armatore le paga in Italia (non è il caso qui di soffermarsi sulle agevolazioni fiscali concesse all’armamento, i sacrifici si sa debbono farli solo i lavoratori, dipendenti, precari e freelance che siano). Ma l’equipaggio può essere formato secondo pratiche che non sono molto dissimili da quelle concesse alle flag of convenience. Non esiste salvezza dunque? Non è solo per antico operaismo, ma per una considerazione fredda ed obbiettiva che ritengo l’unica possibilità di salvezza la lotta multinazionale dei lavoratori. Purché se ne tenga conto. Nessuno ci fa caso, nelle cosiddette pubblicazioni antagoniste o di sinistra ancora non opportunista non c’è traccia di quel che accade nel mondo della portualità e dello shipping. Invece ci sono fermate, scioperi e proteste ogni giorno nel mondo, soprattutto nei porti. Forse qualcuno ricorderà che un paio d’anni fa sui giornali è venuta fuori la notizia che c’era un porto nuovo in Marocco che avrebbe stracciato tutti i concorrenti, Gioia Tauro in primo luogo. Da mesi è semiparalizzato dagli scioperi. Il problema non è quello di essere informati, ma quello di esser presenti nell’opinione pubblica con ragionamenti che spostino delle rivendicazioni dal terreno della pura sopravvivenza (di questo si tratta e non di presunti “privilegi” dei portuali) al versante della lotta per la salvezza dell’ambiente e di una civiltà del lavoro degna di questo nome. Sergio Bologna è autore de “Le Multinazionali del mare”, Egea Editore,
Milano 2010.
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