l'alternativa alla spirale del crac



l'alternativa alla spirale del crac
 
dal blog di GUIDO VIALE
mercoledì 2 novembre 2011

Ho pubblicato sul manifesto del 2.11 un articolo sulla minaccia di default
per il debito pubblico it
aliano
Prima ancora di esserne la causa - e in gran parte, ovviamente, lo è -
Berlusconi è il prodotto del "berlusconismo": una tabe che affligge non solo
il suo entourage politico-affaristico e il suo elettorato, ma larga parte
dell'establishment culturale, imprenditoriale e politico del paese (il
sindaco di Firenze e il suo seguito ne sono un esempio. E Confindustria che
lo ha sostenuto fino all'altro ieri anche; e allora, di che si lamenta?). Ma
gli uomini e le donne al governo dell'Europa sono anch'essi promotori e
prodotto (sono prigionieri del loro elettorato; che è però quello che hanno
costruito e vellicato) di un virus altrettanto grave, di cui Berlusconi non
è che la manifestazione più grottesca, infame e repellente. Quel virus è il
"pensiero unico": la convinzione, contro ogni evidenza, che il "mercato", e
solo il mercato, può tirarci fuori dai guai in cui ci ha cacciati. E che per
"tirarci fuori" dai guai, per "uscire dalla crisi", occorre "rilanciare la
crescita": cioè sperare - e che altro, se no? - in un aumento del PIL tale
da generare entrate fiscali sufficienti a pagare gli interessi e a
rimborsare, un po' per volta, una parte consistente del debito pubblico. Per
loro l'economia è come un'auto a cui si è imballato il motore. Basta "dargli
una spinta" e tornerà a correre - cioè a "crescere" - di nuovo. Ma le cose
non sono così facili; e non lo saranno mai più. E intanto, in attesa di
questo miracolo, la soluzione vincente è il taglio della spesa pubblica:
pensioni, sanità, scuola, trasporto pubblico, welfare municipale, pubblico
impiego, salari e stipendi. E privatizzazione di tutto, contando di
ricavarne le risorse necessarie a tacitare gli appetiti dei "mercati", cioè
di tutti coloro impegnati a "produrre denaro per mezzo di denaro": banche,
assicurazioni, fondi di investimento, speculatori, mafie (queste, sì, con la
"liquidità" necessaria a fare piazza pulita di tutto quel che è "in
 svendita": a partire dai servizi pubblici locali). Di tagliare per altre
vie le unghie alla speculazione non si parla; perché quello che chiamano
"mercato" è speculazione: senza l'una non c'è l'altro, e viceversa; simul
stabunt, simul cadent. Così, invece di "crescere" l'economia si avvita su se
stessa in una spirale che porta diritto al fallimento (default): non solo
delle finanze pubbliche (a beneficio di chi le tiene in pugno), ma del
sistema produttivo, della convivenza civile, dell'ambiente.


La parabola della Grecia ne è un esempio: tutti sanno - ma pochi lo dicono -
che non si riprenderà più per decenni. Ma altri paesi, Italia in testa, sono
già sullo stesso cammino e nessun paese dell'eurozona è più "al sicuro". Per
statuto la Banca Centrale Europea (BCE) non può fornire liquidità alle
banche messe in crisi dai debiti "sovrani" (cioè degli Stati) che detengono:
ufficialmente per non generare inflazione; in realtà per perpetuare quel
blocco dei salari da cui ha avuto origine la cavalcata dei profitti degli
ultimi decenni. Così, per garantire quei debiti si ricorre alla creazione di
nuovi debiti in una catena senza fine (andando a chiedere l'elemosina
persino in Cina) e l'Europa consegna alla finanza internazionale e alla
speculazione le chiavi dell'economia: la creazione di liquidità, cioè la
moneta.

Siamo alla vigilia della Cop 17, il vertice dell'ONU che a Durban (Sud
Africa) dovrebbe rinnovare, estendere e approfondire gli accordi di Kyoto
per ridurre in modo drastico le emissioni di gas di serra, causa dell'imminente
catastrofe climatica. Scienziati di tutto il mondo ribadiscono l'urgenza di
un cambio di rotta, pena la sopravvivenza stessa dell'umanità. Ma nessuno si
occupa più della questione e niente evidenzia meglio l'inconsistenza e
vacuità della "governance" europea (e di quelle del resto del mondo: tutte
fautrici e insieme prigioniere del "pensiero unico"). Già si sa che a Durban
non si concluderà niente, come niente si è concluso a Copenhagen (Cop 15) e
a Cancùn (Cop 16). Se tre anni fa erano Berlusconi e la pseudo-ministra
Prestigiacomo a girare l'Europa per spiegare agli altri capi di governo che
certi impegni erano irrealizzabili e dannosi per l'economia, ora il loro
obiettivo è raggiunto: anche se in alcuni paesi qualche passo in avanti,
comunque insufficiente, è stato fatto, su questo punto, in nome della
"crescita", l'allineamento dell'Europa al berlusconismo è ormai completo.

C'è un'alternativa a questa spirale? Certo che c'è. E' la conversione
ecologica del sistema produttivo e dei consumi: la promozione di una
democrazia economica fondata sull'autogoverno e un sistema produttivo
decentrato, diffuso, diversificato, "esperto", riterritorializzato ("a
chilometri zero"; ovviamente dove è possibile), replicabile in tutto il
mondo: tanto nei paesi di consolidata industrializzazione che in quelli
"emergenti" e in quelli devastati da sfruttamento e globalizzazione. Una
conversione che coinvolga i settori portanti della generazione e dell'efficienza
energetica, dell'agricoltura e dell'alimentazione, dell'edilizia e della
cura del territorio, della mobilità e della sanità; e promuova l'autogoverno
dei saperi, dei servizi pubblici e dei territori, restituiti alla loro
vocazione di beni comuni; e adotti consumi più sobri e meno aggressivi verso
l'ambiente: non la rinuncia ascetica né la miseria a cui la finanza sta
condannando il 99 % della popolazione mondiale; bensì un graduale passaggio
dai consumi individuali, in cui le scelte sono imposte dalla moda, dalla
pubblicità, dal marketing, dagli sprechi, a un consumo condiviso, in cui gli
acquisti vengono effettuati, nel rispetto degli orientamenti di ciascuno,
attraverso processi partecipati come quelli dei gruppi di acquisto solidale
(GAS). E con dei veri "tagli" alle spese "viziose": che non sono la pensione
dopo quarant'anni di lavoro in fonderia, e nemmeno il prepensionamento di
uomini e donne nel pieno del loro vigore cacciati dalle aziende e senza
alternative; ma le spese militari, l'evasione fiscale, le grandi opere
inutili e dannose, la corruzione, i costi dei politici ("dei politici", e
non della politica: quella vera non costa quasi niente). Solo nella
prospettiva di una conversione ecologica le risorse che si ricavano da tagli
del genere non verranno sprecate; evitando soprattutto di pagare un
"servizio del debito" (in Italia oltre 100 miliardi di euro all'anno) che
non può che affondare il paese. Non è il vagheggiamento di una società
ideale, ma un programma che risponde a un elementare senso di giustizia in
un processo fatto di conflitti, di partecipazione e di organizzazione delle
forze necessarie per imporre soluzioni innovative e condivise: a partire
dalle situazioni di crisi occupazionale che non hanno prospettive se non
nella riconversione produttiva; e dal condizionamento dei governi locali,
per risalire di lì ai governi nazionali e alle governance europee e
mondiali.

Ma dove sono mai le forze per imboccare una strada del genere? Quelle forze
hanno fatto una comparsa a livello globale nella giornata del 15 ottobre,
trascinate dall'indignazione nei confronti del modo in cui vengono
governate, dalla volontà di valorizzare l'energia e l'intelligenza di una
generazione messa ai margini dai poteri della finanza, dalla determinazione
a non pagare i costi della crisi e i debiti contratti dagli establishment
politici e finanziari al potere. Il segnale è partito dalla Spagna e le
parole più chiare sono state dette a New York; ma la manifestazione più
numerosa e dalla composizione più variegata di questo movimento in marcia è
stata quella di Roma, dove si sono ritrovati, per la prima volta insieme,
associazioni, movimenti, comitati, sindacati e persone (dai No-Tav agli
occupanti del Teatro Valle, dalla Fiom ai Cobas, dal Forum per l'acqua al
movimento degli studenti) che da anni lavorano con tenacia a promuovere
progetti e rivendicazioni tra loro diversi ma convergenti; e non è valsa a
offuscarne il significato la messa in scena di una aggressività vacua e
violenta.

Una cosa emerge ormai con chiarezza: entro i "vincoli di bilancio" imposti
dalla BCE a Grecia, Italia (quelli esplicitati dalla lettera con cui Draghi
e Trichet hanno definito il programma di questo come di ogni prossimo
governo) e in tutta l'Europa, non c'è posto né per la politica, né per la
proposta, né per l'alternativa. C'è posto solo per l'obbedienza, la
rinuncia, il servilismo mascherato da "buon senso" di tanti columnist, e una
spirale che porta direttamente al default; dopo aver però devastato
occupazione, redditi, convivenza civile, tessuto produttivo e ambiente. La
strada stretta della conversione ecologica passa allora attraverso lo
scardinamento di questo diktat ed è a senso unico. La crisi in corso, con il
salvataggio delle banche too big to fail (troppo grandi per fallire) ci fa
capire quanta forza hanno in realtà i debitori. E' la condizione in cui si
trova oggi il nostro paese: la sua insolvenza trascinerebbe nello stesso
gorgo, insieme all'euro, tutta la costruzione dell'Unione europea e le
economie sia deboli che "forti" di tutti gli altri paesi. Ci sono dunque le
condizioni per imporre una ristrutturazione radicale e selettiva del debito
pubblico italiano attraverso un negoziato condotto insieme ai paesi
cosiddetti "PIGS", tutti esposti alla stessa deriva. Cominciando così a
sgonfiare la bolla del debito che dai mutui subprime alle banche e agli
hedge fund, e da quelle agli Stati che le hanno salvate, e dagli Stati di
nuovo alle banche e poi di nuovo agli Stati, continua e continuerà ad
aleggiare sul continente, sconvolgendone tutto il sistema produttivo; e
buttando a terra uno a uno come tanti birilli tutti gli Stati dell'Unione.
Non sarà l'attuale governo - né il prossimo - ad avviare un negoziato del
genere; ma questo è il discrimine intorno a cui raccogliere e ricostruire un'autentica
forza di opposizione. Anche per salvare l'euro; e l'Europa