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il mondo a una svolta e i beni comuni
- Subject: il mondo a una svolta e i beni comuni
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 3 Nov 2011 06:44:48 +0100
| Vittorio Prodi a 
greenreport.it: «Il mondo a una svolta, troverà fondamento nei beni 
comuni» [ 31 ottobre 2011 ] Luca Aterini «Se finora la società ci ha spinti a mettere al centro i consumi materiali, noi dobbiamo ribaltare questa tendenza, riscoprendo e valorizzando altri aspetti dell'esistenza e un nuovo modo di essere nel mondo, capace di meraviglia per le cose di ogni giorno, nell'aspettativa che dai rapporti con altre persone arrivi anche un arricchimento personale: occorre andare oltre la tolleranza. La situazione climatica ci costringe a ripensare il nostro stile di vita, ma questo non è necessariamente un elemento negativo anzi può essere un enorme passo avanti». Vittorio Prodi, una laurea in fisica in tasca ed una qualifica di parlamentare europeo storicamente impegnato per la sostenibilità - nonché quella di membro della Sottocommissione sui diritti umani e dell'Envi (Commissione parlamentare per l'ambiente, la sanità e la sicurezza alimentare) - col suo libro "Il mondo a una svolta", gratuitamente fruibile anche sul suo sito internet, in un tempo dove la parola più pronunciata è "crisi", rimarca la presenza di uno spiraglio che parla di nuove possibilità, anziché insormontabili difficoltà, e non aspetta altro di essere conquistato. Prodi, contattato da greenreport.it, nell'ottica della sua esperienza europeista, offre una propria visione di tale spiraglio. Parla di un mondo pronto a svoltare: cosa ci aspetti dietro l'angolo, però, 
ancora non è dato vedere.  «La svolta che dobbiamo attuare è quella da un mondo basato esclusivamente 
sulla produzione ed il consumo di beni materiali ad un mondo che dovrà dedicare 
una sostanziale attenzione a suoi elementi immateriali, legati al concetto di 
beni comuni. Si tratta di una svolta complessa, che comprende in sé molteplici 
aspetti, a partire da un aspetto che ho particolarmente a cuore, quello della 
transizione energetica, dalle fonti fossili a quelle rinnovabili, con 
l'obiettivo di una comunità europea decarbonizzata al 2050. Un obiettivo 
possibile, che comprende l'esigenza di una nuova infrastruttura energetica 
europea che renda possibile tale passaggio. L'ammodernamento della rete elettrica, ad esempio, deve affiancarsi all'obiettivo comune di costruire una dorsale in corrente continua che attraversi l'Europa, riducendo ad un terzo le perdite delle attuali linee in alternata e riducendo l'esigenza di immagazzinare energia. Una simile rete ad alta efficienza, ad esempio, permetterebbe di gestire fonti idroelettriche (concentrate su Alpi e Scandinavia) e campi eolici sparsi nei Paesi membri come un tutt'uno, rendendo molto più prevedibile e gestibile un approvvigionamento energetico basato su fonti rinnovabili. Tutto questo, senza dimenticare come la pressione del cambiamento climatico 
ci imponga un'accorta e costante manutenzione del territorio: una battaglia che 
porto avanti da 10 anni, ma che ancora certo non può dirsi vinta - basti vedere 
i recentissimi disastri in Toscana e Liguria. Un'adeguata manutenzione del 
territorio è si costosissima ma, oltre che indispensabile per diminuire il 
rischio di incendi e gestire le fitte precipitazioni, permetterebbe di 
raccogliere grandi risorse dai residui agricoli e forestali raccolti, tanto da 
sfruttare tale biomassa per ottenere qualcosa come una tonnellata equivalente di 
petrolio per ettaro, ogni anno. Data anche la nostra dipendenza dalle 
importazioni di gas, è dunque necessario pensare a costruire una filiera di 
raccolta e trattamento del gas ottenuto tramite pirolisi o trattamento 
anaerobico della biomassa, provvedendo anche al suo inserimento in rete, per poi 
e farne un uso ad altamente efficiente, in cogenerazione o 
rigenerazione». Di fronte a tali esigenze, però, la politica degli stati nazionali è sempre 
più debole di fronte alla globalizzazione economica e finanziaria. Come vede 
possibile, in questo contesto, riaffermare il primato della 
democrazia? «Ho cercato di dare una risposta a questo quesito considerando l'attuale, 
forte interdipendenza tra i vari stati e i suoi effetti sulla sovranità degli 
stessi. Sfide come il cambiamento climatico sono globali, e per superarle serve 
una risposta globale. Allo stato delle cose, tutti i paesi sono interdipendenti, 
e la loro sovranità non è più quella assoluta che gli stati nazionali si 
illudono di avere, e che hanno già in parte perso. L'unico modo per riacquisire 
sovranità è gestirla assieme: per quanto riguarda gli stati europei, esiste 
l'Unione. Abbiamo di fronte un problema politico, che contrappone speranza e paura. I 
conservatori fomentano quest'ultima, affermando che verremo macinati dalla 
globalizzazione, quando invece abbiamo la possibilità di gestirla in modo 
consensuale, insieme. Dobbiamo diffondere speranza affrontando gli spartiacque 
della sovranità, della sostenibilità e del conflitto tra capitale e lavoro: 
tramite una gestione globale e condivisa potremo approdare ad una più ampia 
diffusione di pace e sicurezza». L'attualità parla comunque di un tempo di crisi, e l'attenzione verso 
l'ecosistema non fa che calare, mentre sarebbe proprio il momento più opportuno 
per impostare una nuova idea di sviluppo.  «La ringrazio per questa domanda: sono infatti assolutamente convinto 
dell'esigenza di perseguire quegli obiettivi che sopra ho esposto, e li 
considero investimenti indispensabili per il nostro futuro e le infrastrutture 
che lo sosterranno. Proprio in tempo di crisi è necessario rilanciare una 
politica di stampo keynesiano, che possa ricostruire una base finanziaria e la 
capacità di passare gradualmente da una società basata sul Pil ad una società 
che ponga al centro la persona, rivalutando beni immateriali come solidarietà e 
conoscenza, creando una consapevolezza che permetta una maggiore inclusione e 
partecipazione nel sistema decisionale. Oltre una certa soglia di reddito, non è infatti il possedere che ci dà la 
felicità, ma l'appartenere ad una società inclusiva che sappia valorizzare ogni 
persona, passando dal concetto di tolleranza (che, pur importante, sottintende 
comunque una sorta di "concessione") ad un'aspettativa matura, consapevole delle 
capacità di arricchimento che ogni persona è in grado di apportare». Un passato esempio di collaborazione internazionale è l'accordo di Kyoto. 
Ormai è agli sgoccioli, e le emissioni di CO2 stanno ancora crescendo: cosa si 
aspetta dalla prossima riunione a Durban, sulla convenzione sul cambiamento 
climatico? «Da Durban mi aspetto molto poco. Ho sempre sostenuto praticamente da solo 
la necessità di dare un supporto politico alla dichiarazione di Bali, che parla 
di responsabilità comune ma differenziata tra paesi sviluppati e in via di 
sviluppo. Anche l'Europa non l'ha mai veramente applicata, a causa dei veti 
posti dai grandi consumatori d'energia e della paura delle 
delocalizzazioni. L'Unione europea ha proposto di offrire il 50% dei permessi di emissione 
gratuitamente, ma io sono convinto che un meccanismo di mercato così non può 
funzionare. Sarebbe invece necessario definire, a partire dall'entità della 
popolazione mondiale, una quota sostenibile di emissioni procapite da rendere 
gratuita: l'eccedenza, dev'essere onerosa in toto, sancendo così un principio di 
equità e giustizia nell'accesso alle risorse disponibili». La principale argomentazione proposta a favore di un nuovo modello di 
sviluppo rimane comunque il cambiamento climatico, nel quale l'uomo è coinvolto, 
ma non sappiamo con certezza in quale misura. Perché non incentrare invece 
l'esigenza del cambiamento sull'idee di reciprocità e di una vera giustizia 
intra ed intergenerazionale? «Il problema del cambiamento climatico, infatti, è solo il primo che ci si 
presenta. Ma, paradossalmente, uno dei più facili da affrontare, data 
l'abbondanza di energia solare che arriva sul nostro pianeta, e che possiamo 
sfruttare. Le attenzioni dedicate al cambiamento climatico è necessario 
traslarle alla carenza delle risorse naturali non energetiche, per le quali non 
possiamo contare su approvvigionamenti esterni al pianeta. Tali risorse non solo si stanno esaurendo, ma la Terra si trova anche a 
dover far fronte agli scarti dei nostri processi economici, che debbono essere 
ridotti. Dobbiamo assolutamente imparare a gestire le risorse in modo totalmente 
diverso, esercitando un diritto equo e sostenibile nell'accesso ad esse. La loro 
gestione deve puntare a prevenire le situazioni di scarsità, che inevitabilmente 
generano conflitti, e per far questo è necessario revisionare completamente il 
nostro modo di intendere il commercio internazionale, nonché la definizione 
stessa che si da del "rifiuto", che deve invece esser considerato come una 
risorsa». L'esigenza di andare oltre al Pil e di trovare nuovi indicatori del 
benessere ci pone davanti all'esigenza di creare nuove narrative con le quale 
interpretare un nuovo stile di vita. Chi o quale crede sarà il medium di questo 
cambiamento? «Parlando di narrativa, intendo uno sviluppo culturale: penso che sia un 
qualcosa di estremamente importante, e che in parte sta già vendendo fuori dalla 
nostra politica agricola comune, e che dev'essere fondato sul concetto di bene 
comune. La sensibilità culturale verso i beni comuni vale la pena di essere 
creata e conseguita. È infatti da una consapevolezza culturale che si può maturare una proposta 
politica che definisca istituzioni e momenti dove dare una risposta politica a 
questo desiderio di bene comune. È dunque chiaro che l'informazione e la 
comunicazione saranno centrali nella costruzione di questa nuova società, anche 
se corriamo sempre il rischio di avvitarci sulla tecnologia, anziché sui 
contenuti da diffondere tramite tale tecnologia, ma anche qui si tratta di una 
cultura da costruire». | 
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