la strategia del saccheggio nell'urbanistica



La strategia del saccheggio nell'urbanistica di Berlusconi
Data di pubblicazione: 05.12.2010

Autore: Salzano, Edoardo

Analisi del progetto berlusconiano e dell'ideologia che alimenta la
devastazione urbanistica. COMetA, trimestrale di critica della
comunicazione, n. 5, dicembre 2010

Un progetto, a suo modo coerente, di sostituzione del privato al pubblico ha
caratterizzato la politica urbanistica di Berlusconi. Ne sono esempi
principali il cosiddetto piano-casa e gli interventi per il post terremoto
all'Aquila. Linea comune è stata l'abbandono delle regole pubbliche, utili a
costruire nel territorio un insieme sistemico, e il privilegio dato ad una
visione individualistica dello spazio. Dimenticando che città e società sono
due aspetti della stessa realtà: una non vive senza l'altra. Il consenso a
questa politica l'ha trovato cambiando gli strumenti della formazione: non
più scuola, parrocchia e casa del popolo, ma televisione commerciale.

Uomo di poche letture e pochi pensieri Berlusconi doveva affidarsi, anche
per la sua politica urbanistica, alle pulsioni individuali e alle esperienze
personali. Ecco allora i suoi due principi: ognuno è proprietario a casa
sua, e fa della sua terra ciò che vuole; i problemi delle città si risolvono
costruendo attorno a ciascuna di quelle esistenti una Citta Due, come ha
fatto lui a Milano. Questi due principi non sono rimasti mere dichiarazioni.
Si sono tradotti in coerenti politiche.

Il pilastro della visione urbanistica

Il pilastro dell'azione del Cavaliere è costituito dalla distruzione del
primato dell'autorità pubblica nel governo del territorio.

É da alcuni secoli che le democrazie liberali hanno compreso che non tutti i
problemi della società sono risolti dal mercato e che alcune dinamiche, come
la crescita e le trasformazioni delle città e dei territorio, dovevano
essere governate da un potere esterno al mercato: un potere pubblico. Il
territorio è un insieme sistemico, in cui la modifica di un elemento
comporta modifiche in tutti gli altri: non si possono sistemare le fabbriche
se si trascura l'inquinamento che producono e le infrastrutture che devono
alimentarle; non si possono localizzare le abitazioni e le scuole se non si
organizzano in loro funzione ferrovie e strade; non si possono localizzare
le urbanizzazioni senza sapere che risorse naturali ci sono sotto la
superficie. Ecco che allora, già agli albori del XIX secolo, le democrazie
borghesi inventarono la pianificazione urbanistica (poi estesa al
territorio): un insieme di metodi e strumenti anch'esso, appunto, di
carattere sistemico.

La pianificazione urbanistica, in un regime democratico, consente anche
trasparenza (maggiore o minore) nella regolazione dei conflitti che nascono
tra le diverse utilizzazioni possibili del suolo: conflitti inevitabili nel
regime economico e patrimoniale attuale nel mondo capitalistico. Quali che
siano comunque gli interessi che si vogliono privilegiare, le leggi delle
borghesie liberali disponevano comunque che, in caso di contrasto tra
interesse pubblico e interesse privato nell'uso del territorio, fosse il
primo a prevalere. Ed è esattamente in questo spirito che le prime leggi
urbanistiche del XIX secolo (e in Italia, dal 1865 fino alla legge
urbanistica del 1942) determinavano l'esproprio per pubblica utilità, il
pagamento di indennità che non remuneravano il maggior valore derivante
dalle opere e le decisioni pubbliche, il prelievo fiscale di una quota dei
plusvalori derivanti da queste. E adottavano, come quadro prescrittivo di
tutte le trasformazioni della città (poi del territorio) la pianificazione.

La demolizione della pianificazione urbanistica è al fondo della visione
urbanistica del Cavaliere proprio per le stesse ragioni che ne hanno
storicamente motivato nascita e consolidamento. Lo è perché la
pianificazione esprime un insieme di regole dettate dal potere pubblico, e
lo è perché esprime una visione olistica della politica (quindi antagonista
rispetto alla pratica discrezionale del caso per caso e del "quando voglio
faccio"). L'odio per la pianificazione urbanistica si esprime in numerosi
atti di governo, e in dichiarazioni pubbliche che hanno, nella società
attuale, altrettanto valore di una norma.

La continua riproposizione dei condoni dell'abusivismo edilizio e
urbanistico ha costituito un invito quasi esplicito a disprezzare piani e
regole, "tanto prima o poi ogni abuso sarà condonato". L'allentamento dei
controlli edilizi (dalla concessione edilizia, via via, fino all'autocertificazione
dell'intervento) ha significato passare gradualmente dal principio "il
potere pubblico stabilisce che cosa si può fare e che cosa si può fare sul
territorio e poi il privato agisce e viene penalizzato se contravviene", al
principio "fai quello che vuoi e se violi qualche legge poi, se ho tempo e
voglia, provvederò eventualmente a penalizzarti". Il trasferimento della
potestà deliberativa su scelte rilevanti per l'organizzazione del territorio
dagli organi elettivi collegiali agli organi di maggioranza e a quelli
monocratici (dai consigli alle giunte e ai sindaci e presidenti), hanno
vanificato la capacità di controllo da parte delle minoranze e di conoscenza
da parte dei cittadini, sacrificando la democrazia al mito della
governabilità. L'impoverimento degli strumenti della funzione pubblica,
obbligati a ridurre la quantità e la qualità del personale e delle
strutture, a cominciare da quelle addette alla pianificazione del territorio
e alla vigilanza su di esso ha reso via via impossibile governare
efficacemente anche quelle amministrazioni (e non sono molte) che hanno
cercato di andare controcorrente. Si è addirittura giunti ad attribuire
funzioni rilevantissime, geloso appannaggio dell'amministrazione pubblica, a
soggetti ( commissari) scelti in ragione della loro fedeltà al gruppo di
potere dominante, con pieno potere di sostituzione agli organi democratici e
di deroga dalle procedure di legge. La privatizzazione e commercializzazione
dei beni pubblici è stata la conseguenza patrimoniale di quelle azioni sui
dispositivi [1].

"Piano-casa" e dopo-terremoto

I casi più rappresentativi della visione urbanistica berlusconiana sono
rappresentati da due avvenimenti: il famoso "piano-casa", la gestione del
dopo terremoto in Abruzzo.

Chiamare "piano-casa" quel singolare provvedimento, più mediatico che
strutturale, lanciato da Berlusconi nel marzo 2009 è stato già di per sé un
bluff. Il provvedimento annunciato con quel titolo non è un programma
finalizzato alla realizzazione di alloggi per quelle fasce di abitanti della
Repubblica che non riescono a trovare soddisfazione rivolgendosi al mercato
privato (come fu per tutti i provvedimenti che si sono susseguiti dalla
Liberazione a Prodi), ma semplicemente l'incentivo a chi possedeva già un'abitazione,
o comunque un volume edificato, di ampliare la sua proprietà immobiliare e
trasformarla nelle sue utilizzazioni, derogando esplicitamente da tutti i
regolamenti e i piani nonché (almeno in una prima fase) dalle stesse norme
di prevenzione dai rischi o di tutela dei beni culturali e del paesaggio.

Era facile comprendere che aumentare le cubature e le superfici delle
costruzioni esistenti in deroga a piani (per di più già spesso
sovradimensionati) avrebbe significato compromettere tutte le condizioni
della vivibilità: peggiorare le condizioni del traffico, il carico delle
reti dell'acqua e delle fogne, ridurre l'efficienza delle scuole, del verde,
dei servizi sociali, peggiorare le condizioni dell'aria e dell'acqua,
ridurre gli spazi pubblici, rendere più difficile la convivenza. E avrebbe
significato privilegiare, nell'economia, le componenti parassitarie
rappresentate dalla speculazione immobiliare rispetto a quelle della
ricerca, dell'innovazione dei sistemi produttivi, dell'utilizzazione delle
risorse peculiari della nostra terra.

Tutti sono caduti nella trappola. Dimenticando la realtà (cioè l'esistenza
di un vero "problema della casa", che quel provvedimento non affrontava
neppure marginalmente), trascurando l'impatto che quella linea d'azione
avrebbe avuto sulle condizioni delle città, ignorando perfino la sua
evidente incostituzionalità [2], tutti accettarono per moneta sonante il
"piano-casa"; tranne pochissime eccezioni. Fu addirittura una "regione
 rossa", la Toscana, ad adeguare per prima la sua normativa al dictat
berlusconiano. Certo, limandone le punte più aspre, ma accettando comunque
quel tema: arricchire l'edilizia privata, consolidare il "blocco edilizio",
premiando gli immobiliaristi piccoli e grandi invece di affrontare il
problema di chi la casa non ce l'ha.

La "ricostruzione" dei luoghi colpiti dal terremoto in Abruzzo (l'altra
scelta emblematica del regime berlusconiano) è una sintesi dell'immaginario
urbanistico del Cavaliere. Già nei primi giorni del dopo-terremoto aveva
colpito il modo in cui il premier aveva afferrato l'occasione del terremoto
per farsi propaganda. Ha colpito gli osservatori più attenti il divario tra
la sicumera delle promesse sui tempi e sull'ampiezza della ricostruzione e i
tempi e le deficienze quantitative delle realizzazioni. Hanno preoccupato le
voci delle infiltrazioni mafiose negli "affari" della ricostruzione,
agevolati dalla logica discrezionale dell'emergenza straordinaria e del
ricorso al commissariamento. Hanno colpito le condizioni di vita nelle
tendopoli: una vita più simile a quella di un campo di concentramento che al
riparo provvisorio d'una comunità di cittadini.

Ma la vera tragedia è stata nel modo adottato dal governo (e sostanzialmente
accettato dall'opposizione) di procedere alla ricostruzione in riferimento
soprattutto a due scelte, tra loro strettamente collegate: l'affidamento
della responsabilità esclusiva al commissario del premier, e la
ricostruzione "altrove" delle case distrutte.

Con la prima scelta si è colpita la democrazia, e quindi la dimensione
stessa della politica. I poteri locali sono stati emarginati fin dal primo
giorno, e il loro allontanamento dal luogo delle decisioni ha proseguito e
si è rafforzato nel tempo. Invece di allargare l'area della partecipazione
popolare (una necessità che l'emergenza rendeva particolarmente stringente)
la si è annullata mortificando le istituzioni che la rappresentano.

Con la seconda scelta si è deciso sostituire, alla ricostruzione della città
danneggiata dal sisma, un paio di decine di lottizzazioni su aree scelte
casualmente senza nessuna logica territoriale e sociale. Lottizzazioni per
di più senza attrezzature sociali, senza luoghi di aggregazione: "con una
cura maniacale dell'interno degli alloggi", come scrivono gli autori del
rapporto che per primo ha rotto il velo roseo che avvolgeva l'operazione
[3], che rivela come per l'ideologia di Berlusconi (le esigenze dell'uomo si
riducono a quello dell'individuo: la società cui appartiene non esiste e non
interessa. Anzi, può essere minacciosa. Che ciascuno sia solo nel suo
guscio, naturalmente alimentato da un televisore.

Le scelte del dopo-terremoto hanno colpito direttamente la società. Città e
società sono due aspetti d'una medesima realtà: l'una non vive senza l'altra.
Una città svuotata della società che l'ha costruita e trasformata nei secoli
e negli anni, che l'abita e la vive, non è una città più di quanto lo siano
le splendide rovine d'una Leptis Magna disseppellita dalle sabbie o d'una
Pompei liberata dai lapilli. E una società i cui membri siano dispersi sul
territorio e trasferiti in siti costruiti ex novo (per di più senza la loro
partecipazione) privati dei loro luoghi, degli scenari della vita quotidiana
e degli eventi comuni, delle loro istituzioni, è ridotta un insieme di
individui dispersi.

Questa, del resto, è la direzione di marcia dell'attuale maggioranza,
debolmente e inefficacemente contrastata dall'opposizione. L'impiego del
ricorso al commissario per qualsiasi opera o azione che si vuol fare
calpestando ogni possibile obiezione o dissenso: l'apoteosi della
governabilità del monarca contrapposta alla democrazia di tutti. La
costruzione di nuove città invece di recuperare, riusare, riqualificare,
rendere vivibili per tutti le città che già esistono, che hanno una storia,
che sono abitate da una società viva. Non aveva promesso Berlusconi una "new
city" per ogni capoluogo di provincia?

Come per il "piano-casa" anche per la cosidetta "ricostruzione" in Abruzzo l'opposizione
è caduta in pieno nella trappola mediatica. Per molti mesi, quando i
progetti erano chiarissimi nella loro impostazione e nel loro svolgimento,
perfino la stampa più ostile esprimeva lodi per il comportamento della
coppia Berlusconi-Bertolaso. Il fatto è che entrambi i versanti dello
schieramento politico e culturale condividono le stesse preferenze:
privilegiare la governabilità sulla democrazia, scegliere la tempestività
dell'intervento trascurando ricerca laboriosa della soluzione più idonea,
cancellare la storia e dimenticare così gli ammaestramenti del passato.

L'urbanistica di Berlusconi esprime, in larghissima misura, una strategia
che non può che definirsi bipartisan. Una strategia che assume una certa
idea di "sviluppo" come l'obiettivo generale cui tendere e cui ispirare l'intera
dinamica della società, che vede nel mercato lo strumento capace di
misurare, meglio d'ogni altro, non solo il "valore di scambio" delle merci,
ma ogni valore che abbia un senso, e che infine nega, o nasconde, o riduce
al massimo, la dimensione pubblica privilegiando al massimo quella privata.
Ma Berlusconi innesta una marcia in più: assume privatisticamente i poteri
pubblici, utilizzando per gestirli i suoi commissari. Les jeux sont faits;
il mito del mercato è stato utilizzato per sostituire a quest'ultimo il
potere monopolistico di un monarca assoluto.

La strategia del saccheggio


Nella concezione berlusconiana dell'uso del territorio (e più in generale
dei beni comuni) l'obiettivo si specifica con chiarezza, esprimendosi in
quella che si può definire la strategia del saccheggio[4]. Bisogna far sì
che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere oggetto di
lucro, sia trasferito dall'appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a
quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne
impossessa. Bisogna negare l'esistenza di beni non riducibili a merci,
perchè se ogni cosa è "merce", ogni cosa è soggetta al calcolo economico e
il mercato diventa la dimensione esclusiva delle scelte. Bisogna abolire
qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse
da quelle che il mercato compie.

Ecco allora che il suolo deve avere quale unica utilizzazione quella più
lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, nè
rischio): l'edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le
prime saranno trasformate anch'esse in edilizia) devono diventare privati ed
essere adibiti a funzioni lucrose. Devono essere privatizzati gli elementi
del paesaggio la cui "valorizzazione" può arricchire i proprietari, come le
coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i
lasciti della storia, dall'Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino
l'acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in
possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.

Naturalmente, come abbiamo visto, si devono distruggere le regole. Ma farlo
non si può senza ottenere il consenso necessario, poiché (e finché) si opera
in un contesto nel quale bisogna rispettare le forme della democrazia.
Allora bisogna cambiare la testa della gente. Via lo spirito critico, via la
conoscenza, via il sapere diffuso. Via la memoria, se il passato recente
ricorda ai più anziani che cosa era stato conquistato e che cosa ci stanno
togliendo. E via la storia, magistra vitae e testimonianza del fatto che non
tutto è già scritto e che il futuro non è necessariamente appiattito sul
presente (non è vero che "There Is No Alternatives").

Per cambiare le teste basta cambiare gli strumenti della formazione: non più
la scuola, la parrocchia, la casa del popolo, è la televisione commerciale
che foggia le teste e le coscienze della gente da almeno trent'anni. E
allora, disponendo di questo strumento si può far diventare pensiero
corrente gli slogan utili alla strategia del saccheggio ("meno stato più
mercato", "privato è bello", "padrone a casa mia", "meno tasse per tutti") e
far credere alla "gente" che benessere significa modernizzazione, sviluppo
significa crescita, democrazia significa votare una volta tanto, privato è
meglio che pubblico, Io è meglio che Noi.

[1]A proposito delle iniziative di Berlusconi nel settore immobiliare
(quindi nel campo del territorio e dell'urbanistica), Walter Tocci osserva
che «l'insieme di questi provvedimenti configura una coerente politica
nazionale, forse l'unica che può fregiarsi di questo titolo, poiché in
nessun altro settore si è realizzata una tale concordia di obiettivi e di
realizzazioni. Innanzitutto, sul piano politico con una relativa sintonia
tra destra e sinistra». "L'insostenibile ascesa della rendita urbana",
Democrazia e Diritto, n 1/2009, p. 27.

[2]Vincenzo Cerulli Irelli, Luca De Lucia, "Il secondo 'piano casa': una
incostituzionale depianificazione del territorio", Democrazia e Diritto, n
1/2009, p. 106-116.

[3]Comitatus Aquilanus, L'Aquila. Non si uccide così anche una città?, a
cura di Georg Frisch, Clen, Napoli 2009

[4]Questi temi sono affrontati più ampiamente nel sito web eddyburg.it. Vedi
in particolare l'"eddytoriale" n. 143.