La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 9 novembre 2010.
Giorgio Nebbia
nebbia at quipo.it
Brutto mese
novembre: era novembre quando il Po, nel 1951, ha allagato il Polesine, la prima
grande tragedia nazionale, che riuscì a mobilitare emozione e solidarietà in
tutto il Paese, appena uscito dalla guerra, e impegni perché non succedesse più;
era il 4 novembre 1966, in pieno boom economico, quando le acque dell'Arno e le
fogne di Firenze hanno invaso quella straordinaria città, e le acque dell'Adige
hanno invaso Trento e il mare ha allagato Venezia; anche allora emozione e
solidarietà e anche allora impegni perché non succedesse più. Era novembre
quando ci sono state le grandi alluvioni del Piemonte nel 1994; ormai sempre
meno emozione e qualche soldo agli alluvionati in modo che ricostruissero
proprio dove le loro case e fabbriche erano state spazzate via. E' novembre
ancora adesso che stiamo soffrendo per il dolore di tante famiglie nel Veneto e
in Toscana e in Calabria e in Sicilia.
Se il mese di novembre è brutto
perché i meteorologi dicono che le piogge intense si formano dallo scontro di
masse di aria fredda e calda sulla nostra penisola, stesa là nel Mediterraneo
fra Europa e Africa, anche tutti gli altri mesi dell'anno sono cattivi per frane
e allagamenti: giugno Versilia (1996); luglio Ofanto e Manfredonia (1972),
Valtellina(1987); settembre Soverato in Calabria (2000); ottobre Salerno (1954)
e Genova (1970), e così via. "Calamità naturali", le chiamano, ma la natura non
è né buona né cattiva: fa il suo mestiere che è quello di far circolare aria e
acqua sugli oceani e sui continenti, così come il "mestiere" dell'acqua piovana
consiste nello scendere dalle montagne e dalle colline al mare lungo le strade
di minore resistenza, i torrenti, i fiumi i fossi, con maggiore o minore
velocità a seconda di quello che incontra sul terreno, cose ben note e
prevedibili.
I guasti vengono dal fatto che noi umani ci comportiamo sul
territorio come se queste leggi non esistessero, costruendo strade e case, ponti
e fabbriche e campi dove ci torna comodo, secondo piani che dovrebbero essere
"regolatori", cioè adatti a regolare le scelte sulla base delle leggi della
natura, ma che invece non tengono conto di tali leggi, anzi spesso operano
contro di loro. L'unico sistema per evitare allagamenti e frane consiste nel
predisporre sistemi per rallentare il moto delle acque con la vegetazione e i
boschi e nel lasciare libero lo spazio di scorrimento delle acque nel loro
cammino verso il mare. Purtroppo le valli sono spesso le zone più desiderabili
per le costruzioni; i fondovalle sono stati occupati da strade e città a spese
della vegetazione; sono state interrotte le strade naturali predisposte dalle
acque per la loro discesa.
E' uscito di recente un libro scritto
dall'economista Giovanni Ricoveri, intitolato "I beni comuni" (Jacabook, 2010)
in cui viene ricostruito il processo con cui si è formata la proprietà del
suolo; in tempi medievali la terra era "del principe", cioè dello Stato, che
stabiliva dove dovevano o non dovevano essere costruite le città e i villaggi,
come dovevano essere protetti o rinnovati i boschi, con leggi che sono arrivate
spesso abbastanza intatte fino allo stato unitario, addirittura fino alla metà
del Novecento. Queste leggi stabilivano che non si doveva costruire sulle rive
dei fiumi e dei laghi perché si doveva lasciare spazio alle acque di muoversi
nei periodi di piena che si manifestano in maniera abbastanza regolare e
prevedibile, m,a soprattutto perché erano di proprietà del principe cioè, dello
Stato (in termini più moderni erano "demanio statale"). Rive, boschi, fiumi
possono essere usati come beni comuni dal "popolo" ma sotto il controllo dello
Stato che ne è l'unico padrone nel nome del popolo stesso.
Le opere di
salvaguardia del territorio, di pulizia e controllo dei fiumi, sono venute meno;
lo stato, ormai ridotto con la lettera minuscola, per far soldi ha venduto e
ceduto i beni collettivi cioè la base per la salvaguardia dei cittadini da
alluvioni e frane, ha lasciato costruire secondo gli interessi dei proprietari
privati dei suoli. Sorprende che in nessuno dei molti programmi dei vari
"partiti" che si formano e disfano nell'attuale momento politico, figuri mai la
parola "riassetto del territorio", che significa, in primo luogo, difesa del
suolo contro l'erosione, almeno dove è ancora possibile farlo, regolazione e
sistemazione e pulizia dei corsi di acqua, dai torrenti di montagna ai fianchi
delle colline, ai grandi e piccoli fiumi, ai fossi di pianura, con l'unico
imperativo di assicurare che l'acqua scorra senza violenza e senza ostacoli
verso il mare, suo unico destino finale.
Ciò significa opere di
rimboschimento, edificazione secondo criteri che lascino libere le acque di
muoversi, dalle valli fino agli scarichi dei tombini urbani i cui intasamenti
riescono a paralizzare per ore molte città (e ne sappiamo qualcosa anche da noi
in Puglia). Purtroppo queste opere sono "competenza" si fa per dire, di
innumerevoli enti, dai piccoli comuni, alle metropoli, alle Regioni, ai
Ministeri, ciascuno dei quali opera per suo conto. Eppure una politica del
territorio e di "prevenzione civile", ben diversa dalla protezione civile che
appalta opere per riparare guasti già avvenuti ma che si sarebbero potuti
prevenire, creerebbe posti di lavoro, contribuirebbe alla soluzione di problemi
dell'energia e del traffico, offrirebbe occasioni produttive secondo i progetti
"ecologici" e sostenibili. Soprattutto stimolerebbe una ripresa della moralità
perché la moralità verso la natura è premessa per la moralità privata e
pubblica. Sembra che l'uomo abbia perso la capacità di prevedere e prevenire:
per questo finiamo così spesso
sott'acqua.