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potere e società civile
- Subject: potere e società civile
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 17 Sep 2010 06:41:27 +0200
da repubblica.it
LUNEDÌ, 13 SETTEMBRE 2010 La buona politica e la società civile GUSTAVO ZAGREBELSKY "Politica" è una parola bastarda. Ha molti padri e madri. Non è sempre la stessa cosa. Dipende da chi la genera e per che cosa. Per chiarire, mi avvalgo d´una citazione di George Orwell. Nel 1948, scriveva (in Writers and Leviathan): «Questa è un´epoca politica. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». Se non si parlava di campi di sterminio e di genocidio, era per la diffusa ignoranza di ciò che era effettivamente accaduto nel cuore dell´Europa. Auschwitz sarebbe in seguito assurto a simbolo di una certa concezione della politica. Il che è certo molto imbarazzante per la politica stessa. Questa visione della politica è terrificante. Ha come madre la potenza sopraffattrice, nelle relazioni tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all´interno dei popoli. L´uso di categorie primordiali come, ad esempio, quelle di amore e odio, per dividere il campo dell´agone politico, sono il riflesso di questa concezione della politica basata sulla malevolenza tra gli esseri umani. La concezione opposta della politica è espressa in una frase di Aristotele.
Se là la politica è violenza e prepotenza, qui «compito della politica pare
essere soprattutto il creare amicizia» tra cittadini, cioè legame sociale (Etica
Eudemia, 1234 b).
Troppo scarsa l´attenzione alle forme di associazione spontanea e volontaria che si occupano della collettività. Cambiare la legge elettorale costituisce un´autentica emergenza Nella lezione tenuta alla Festa del Pd i rischi che sono di fronte
alle democrazie di oggi. I pericoli maggiori vengono dalle derive populistiche e
dalle chiusure di casta
Pubblichiamo ampi stralci della "Lezione sulla democrazia" che Gustavo Zagrebelsky ha tenuto sabato alla Festa del Partito Democratico a Torino Con le parole di Hannah Arendt (Was ist Politik? - inediti del 1950, pubblicati nel 1993, trad. it. Che cosa è la politica? Torino, Comunità 2001, pp. 5 ss.), ciò che è proprio di questa concezione della politica è l´essere collocata infra, in mezzo, tra le persone. La virtù politica è propria di coloro che amano stare "con" le altre persone, non "sopra", nemmeno "accanto" o, peggio, "altrove"; di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro insieme, fanno, di una semplice somma d´individui, una società. Chi disdegna stare con le persone comuni, credendosi diverso, e il suo cuore batte piuttosto per i salotti, le accademie, le fondazioni culturali, le tavole rotonde, gli studi televisivi, potrà certo essere un´ottima persona. Ma non è adatto alla politica in questo senso. Ciò è così vero che, proprio gli uomini politici più distanti dalla vita della gente comune, che disprezzano, fanno a gara nel dar prova di atteggiamenti populistici e volgari, per far mostra d´essere uguali agli altri, "uno di loro"; in realtà offendendoli e insultandoli, nel momento in cui le trattano non come cittadini ma come plebe. Forse non abbiamo mai pensato che tra tutti i regimi politici, la
democrazia è l´unico che presuppone amicizia tra governanti e governati. I
regimi autocratici o oligarchici, comportano separazione che, nel caso migliore,
si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Solo
la democrazia vive e si alimenta di un circuito di reciproca fiducia che può
esistere solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe
separata, solo a condizione che i cittadini comuni non li vedano come cosa
diversa da sé.
Che significa classe separata? Innanzitutto che, una volta entrati in uno
dei luoghi della politica, si sia acquisito il diritto di non uscirne mai più,
fino a quando provveda la natura. I ceti o le caste delle società premoderne
erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla nascita alla
morte. Oggi, al ceto politico di regola non si appartiene per diritto di
nascita, anche se non manca, anzi si moltiplicano i casi di nepotismo, di
familismo e di trasmissione ereditaria delle cariche politiche. In politica
oggi, di norma, "si entra", o, come si dice autorevolmente, "si scende" (una
volta si sarebbe detto "si sale" o si "ascende"), ma, una volta entrati non se
ne vuole più uscire. Se proprio occorre lasciare un posto, ce n´è sempre un
altro cui aspirare e che ci attende. Oggi quello che importa è entrare in un
giro di potere. A che "giro" appartiene? ci chiediamo, vedendo qualcuno che
"gira", per l´appunto, da un posto all´altro. Quando entri in un giro, non ne
esci più, a meno che tu abbia tradito le aspettative di chi ti ci ha messo.
Questa è la separazione: tra chi, in un giro del potere, c´è e chi non c´è.
E volete che chi non c´è non si senta mille miglia lontano da chi vi è dentro?
Che non si consideri appartenere a un altro mondo? E, all´opposto, possiamo
credere che chi è dentro non consideri chi è fuori un potenziale pericolo,
un´insidia per la propria posizione acquisita, e non faccia di tutto per
restarci aggrappato, impedendo accessi non graditi al proprio giro chiuso o,
almeno, per gestirli secondo propri criteri, in modo che gli equilibri acquisiti
non siano scossi? Ma questa è la sclerosi della politica. Quando si sente dire
che occorre promuovere il rinnovamento della classe dirigente e, per questo,
bisogna "allevare" nuove leve politiche, il linguaggio – l´allevamento -
tradisce perfettamente l´orizzonte culturale in cui si pensa debba avvenire il
cosiddetto "ricambio", quel ricambio che tutti a parole dicono necessario ma
che, secondo l´idea dell´allevamento, è perpetuazione dello status quo che
produce cloni.
Di quest´atteggiamento di separatezza e, in definitiva, di inimicizia,
testimonianza eloquente è l´atteggiamento del mondo politico nei confronti della
cosiddetta "società civile", un´espressione e un concetto che non ha mai goduto
di buona fama, soprattutto a sinistra. Questa è una lunga storia che sarebbe da
ricostruire interamente, a partire da quando, dopo la Liberazione,
effettivamente la pretesa dei partiti di rappresentare tutto ciò che di
"politico" vi era da rappresentare, era giustificata. Ma oggi?
Oggi, una società civile è difficile negare che esista. Dobbiamo capirci.
Assai spesso – per squalificarne il concetto stesso – la si intende come "i
salotti" dove s´incontrano persone disparate che presumono d´essere élite del
Paese e si auto-investono di chissà quale compito salvifico, o come lobby più o
meno segrete o gruppi d´interesse settoriale che curano i propri affari,
legalmente e talora anche illegalmente tramite corruzione o collusione. Da tutto
ciò, che ha niente a che fare con la democrazia, la politica dovrebbe guardarsi.
Da questa "società civile", piuttosto "incivile", chi si occupa di politica
dovrebbe cercare di stare lontano, il più possibile.
Ora, chi vuole difendere il circolo chiuso della politica e i suoi sistemi
di cooptazione demonizza la società civile identificandola con questi ambienti.
Ma è un´operazione che sa di diversivo, cioè di tentativo di spostare
l´attenzione su un falso obiettivo, effettivamente indifendibile.
La società civile esiste, ma è un´altra cosa: è l´insieme delle persone,
delle associazioni, dei gruppi di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se
solo ne intravedessero l´utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione
politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente e
gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune.
Quante sono le persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e
diverse esperienze, in tutti gli ambiti della vita sociale, a iniziare dai più
umili e a diretto contatto con i suoi drammi e le sue tragedie, sarebbero
disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato, ma per opere
di più ampio impegno che riguardano la qualità, per l´appunto civile, della
società in cui noi, i nostri figli e nipoti si trovano e troveranno a vivere?
Da quel che mi par di vedere, tantissime. Quando si parla di politica e di
sua crisi, perché l´attenzione non si rivolge a questo potenziale serbatoio di
energie? Non per colonizzarle, ma per trarne, rispettandone la libertà, gli
impulsi vitali. In fin dei conti, sono questi "servitori civili", quelli che più
di altri conoscono i problemi e le difficoltà reali della vita nella nostra
società. C´è più sapienza pratica lì che in tanti studi accademici, libri,
dossier che spesso si pagano fior di quattrini per rimanere a giacere impilati.
Perché c´è così poca attenzione e apertura, anzi spesso disprezzo, verso
questo mondo?
La risposta alla domanda formulata sopra è semplice: la scarsa attenzione,
se non l´ostilità, dipende dalla difesa di rendite di posizione politica che
sarebbero insidiate dall´apertura. Non c´è da fare tanti giri di parole: è la
sempiterna tendenza oligarchica del potere costituito. Viene in mente la frase
dell´abate Siéyès con la quale inizia il celebre libello "Che cos´è il terzo
stato", un testo che contribuì a creare autocoscienza in chi allora – la Francia
pre-rivoluzionaria – chiedeva riforme: "Che cos´è il terzo stato? Tutto. Che
cos´è stato finora nell´ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda?
Diventare qualcosa". Noi potremmo tradurre: "Che cos´è la società civile? Molto.
Che cosa è nell´ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi?
Qualcosa".
Sotto questo punto di vista, c´è oggi in Italia una specifica situazione
d´emergenza politica e democratica, rappresentata dalla legge elettorale
vigente, con la quale rischiamo di essere chiamati alle urne, nel momento in cui
– col favore dei sondaggi- piacerà a chi di dovere. Questa legge sembra, anzi è,
fatta apposta per garantire l´impermeabilità del ceto politico, la sua
auto-referenzialità, per munire la sua separatezza. È una legge, nella sua
essenza, dello stesso tipo di quelle vigenti nelle dittature di partito. Il
fatto che non vi sia "il" partito, ma vi siano "i" partiti, non cambia il
giudizio. La sua ratio, come direbbero i giuristi, può esprimersi così:
dall´alto discende il potere e dal basso sale, o si fa salire, il consenso. Ma
questa non è democrazia. E´, se si vuole," democratura", secondo la felice e, al
tempo stesso orrenda, espressione dell´esule bosniaco Predrag Matvejevic. Col
sistema elettorale attuale, i vertici dei partiti – tutti quanti – dispongono
dell´intero potere di definire chi formerà la rispettiva corte in Parlamento.
Non è poca cosa per loro e questo spiega il fatto che, a suo tempo, quando fu
approvato, non ci sia stata una reazione adeguata. Il potere si è capovolto e
cominciamo ad accorgercene. E ci accorgiamo di quanto ciò finisca per alimentare
sentimenti, risentimenti e atteggiamenti anti-politici, da cui tutti, meno i
demagoghi, hanno molto da perdere.
La ragione per non andare più a votare con questa legge elettorale non si
riduce alla pur rilevantissima stortura ch´essa comporta: il fatto cioè che
deputati e senatori siano nominati dall´alto, senza alcuna possibilità
d´influenza degli elettori, altro che nel distribuire il numero di "posti" che
spettano all´uno e all´altro partito, assegnati poi a questo o quello per
beneplacito altrui. La posta è assai più grande: per i partiti è il dilemma tra
l´apertura alla società o la chiusura; per i cittadini tra la politica e
l´antipolitica, tra la partecipazione e l´esclusione politica, tra la fiducia
nella democrazia e il risentimento contro la democrazia.
Quando parliamo di democrazia, però, non pensiamo solo a partiti, elezioni,
parlamenti, governi, e cose di questo genere. In una parola, non pensiamo solo a
forme e istituzioni politiche, cioè a tecniche di governo. Pensiamo anche a una
sostanza della società.
Ora, la domanda da porre è se ci può essere democrazia come forma in una
società non democratica.
La risposta è sì. Ci può essere. Ma che genere di democrazia? La democrazia
come tecnica di governo, innestata su una realtà sociale non democratica, non fa
che amplificarne e moltiplicarne i caratteri non democratici o antidemocratici,
rappresentandoli, generalizzandoli e, per così dire, rendendoli obbligatori per
tutti. Per esempio, noi non diremmo certo che una società a maggioranza razzista
e xenofoba è democratica. Questa società può senz´altro governarsi in forme
democratiche, cioè la maggioranza può imporre per legge la sua visione del mondo
razzista e xenofoba. Questo ci dice che la democrazia, intesa solo come forma di
reggimento politico, non è affatto più tranquillizzante di altre. Sotto certi
aspetti, anzi, fa più paura, perché ha dalla sua la forza del numero. Questo
spiega il fatto che la democrazia può essere, o diventare, odiosa al pari e
forse più di altre forme politiche. Ciò accade quando alla forma (democratica)
del potere corrisponde una sostanza non democratica della società.
Ma che cosa è una società non democratica? In breve: una società in cui
esistono discriminazioni e disuguaglianze, tali che una parte, per così dire,
viva bene sopra un´altra che vive male e questa differenza alimenta odio e
violenza. Usciamo dal generico: è una società dove qualcuno possa dire: "questa
è casa mia" e tu sei un intruso ch´io posso escludere e respingere a mio
piacimento; dove, se non ti "integri", cioè non ti rendi irriconoscibile nella
tua identità, non hai diritto di cittadinanza; dove la povertà e il disagio
sociale sono abbandonati a se stessi, nella solitudine; dove il lavoro non è
considerato un diritto, ma solo un fattore dell´impresa subordinato alla sua
logica e dove i disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un
"sistema" e non un problema per tutti; dove l´istruzione e la cultura sono
riservati ai figli di coloro che possono; dove la salute è il privilegio di chi
può permettersi d´affrontare le spese che la sua cura comporta. Noi avvertiamo
queste discriminazioni in modo sempre più acuto. La povertà, l´insicurezza e la
solitudine aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene
sanno coloro che operano nei servizi sociali, pubblici e privati. Il divario tra
chi può curare la propria formazione culturale e chi non può aumenta, e spesso
si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il nostro Paese: chi può
manda i suoi figli fuori dell´Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i
corpi, divide quelli bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei
denti è diventato, anzi ri-diventato qual era un tempo, segno di condizione
sociale.
E noi vorremmo che tutto ciò non ingeneri inimicizia sociale? Sarebbe
ingenuo sperarlo. E vorremmo che chi sta dall´altra parte della società, quella
che dal basso guarda a quella che sta in alto, non nutra diffidenza, per non
dire di più, verso una democrazia che accetta questa loro condizione? Una
condizione che non giustifica certo, ma spiega il carattere violento dei
rapporti anche quotidiani tra le persone, di chi si sente più forte sul più
debole e del debole come reazione al forte, nelle infinte situazioni in cui quel
divario può essere fatto valere, nelle famiglie, nella strada, nelle scuole,
nelle fabbriche, nei rapporti tra uomo e donna, tra "normale" e "diverso",
eccetera. È all´opera l´incultura della sopraffazione che è l´esatto opposto
dell´ethos necessario alla democrazia.
Qui, nella denuncia della mentalità dilagante, nella difesa e promozione di
una cultura della convivenza e nell´azione per contrastare l´incultura della
violenza, c´è un compito che ci riguarda tutti, in quanto questa società non ci
piaccia affatto. Ci riguarda come cittadini cui la democrazia sta a cuore come
un bene cui non vogliamo rinunciare. Ma riguarda anche i cittadini che militano
in partiti politici che hanno la parola democrazia nelle proprie ragioni
fondative o addirittura nel proprio simbolo. Ecco un´altra buona ragione per
abbandonare l´idea che la politica si faccia principalmente nelle stanze dei
palazzi del potere o negli uffici delle burocrazie di partito, che il buon
politico sia quello esperto di "scenari", alchimie, tattiche e strategie. Tutto
questo è importante, ma non basta. Siccome non basta, abbiamo il dovere di
chiederci: dove siamo quando nel nostro Paese si avvelenano i rapporti tra le
persone, nelle tragedie dell´immigrazione come in quelle delle famiglie di
senza-lavoro e nei drammi del lavoro senza sicurezza; nelle proteste per una
scuola che affonda come nella tragedia di chi è colpito dalla forza scatenata
della natura: nei nostri uffici o tra chi ha bisogno di solidarietà? Ecco perché
è necessario stringere i rapporti tra partiti e società, abbandonare l´idea e le
pratiche che fanno pensare che gli uni possano fare a meno dell´altra, e
viceversa. |
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