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Mi pare che l'articolo sotto sia chiaro e ben fatto. L'ottica è quella dell'economista classico che non fa accenno alla prossima crisi ecologia e climatica. Altrove trovo interessanti analisi sulla necessità della decrescita per attenuare il disastro ambientale a venire. Mi pare che non ci sia ancora un'analisi capace di legare questi due problemi. Mi spiego: la decrescita senza una fortissima redistribuzione della ricchezza sarà catastrofe per le classi più povere ben prima del collasso ecologico e in molti paesi già accade. Perché chi si occupa di sociale spera ancora in un rilancio della produzione e chi si occupa dell'ambiente non capisce che un lavoratore per sopravvivere accetta anche di distruggere il ramo su cui vive? Uomini e pianeta si salveranno assieme o non si salveranno per niente. Mi pare che potremmo dire ancora "o socialismo o barbarie". Resta da dirci quale socialismo vogliamo, ma non sento voci in giro che lo raccontino.
Un saluto
TC

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http://www.repubblica.it/supplementi/af/2009/10/12/copertina/001salmone.html

Se l’industria produce troppo L’ANALISI


MARCO PANARA

Il governo cinese, che è abituato a guardare lontano e che può permettersi di dire all’economia cosa fare e cosa non fare, ha affrontato la situazione già all’inizio dello scorso agosto, bloccando per tre anni nuovi investimenti nel settore dell’alluminio e annunciando limiti alla crescita per la produzione di acciaio, cemento, vetro e alcuni prodotti a base di silicone. La ragione sta in poche parole che domineranno la vita politica, economica e sociale nei mesi a venire. Quelle parole sono "eccesso di capacità produttiva". Dopo la tempesta perfetta della finanza dell’autunno del 2008 è questo il nuovo spettro che si aggira per il pianeta. Eccesso di capacità produttiva vuol dire che ci sono in giro troppe fabbriche capaci di produrre troppe merci, più di quanto il mercato mondiale sarà nei prossimi anni in grado di assorbire. E quando l’offerta è troppo elevata rispetto alla domanda succedono in genere tre cose, la prima è che scendono i margini delle imprese, la seconda è che molte imprese chiudono le fabbriche di cui non hanno più bisogno oppure chiudono i battenti esse stesse, la terza è che un gran numero di lavoratori, che siano essi colletti blu o colletti bianchi, perdono il lavoro. C’entra la crisi, ma c’entrano anche una serie di problemi che esistevano anche prima e che non sono stati affrontati quando la vivacità dell’economia avrebbe forse reso meno difficile risolverli. La crisi ha frenato i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese, nei momenti di maggior panico dell’autunno scorso gli ordini si sono addirittura bloccati e per molti mesi si è andati avanti con il solo magazzino. I lievi segni di ripresa che vediamo in queste settimane sono dovuti essenzialmente ad una prudente ricostituzione delle scorte. Il problema però è che banchieri centrali e istituzioni internazionali, analisti ed economisti ci dicono che prima che la domanda globale torni ai livelli del 2007 dovremo aspettare anni. Chi dice quattro, chi cinque, chi sette, troppi comunque perché possa restare in piedi nella sua interezza un apparato produttivo che cammina solo al 60 o al 70 per cento della sua capacità. Ma non è tutto. In che mondo ci troveremo a vivere di qui a tre o cinque anni? la crescita dei consumi degli ultimi anni è stata costruita soprattutto sul debito dei cittadini americani, britannici, spagnoli. Dopo la "sbornia" e il brusco risveglio si metteranno di nuovo a fare debiti per comprare frigoriferi o pacchetti viaggio? C’è già chi intravede il formarsi di una nuova tendenza fatta di consumi meno esasperati, di uno spostamento della spesa dal comprare al fare. Se così fosse, e in attesa che anche i popoli dei paesi emergenti diventino consumatori (prima o poi avverrà, ma i tempi saranno lunghi), la capacità produttiva attuale si rivelerebbe eccessiva anche quando gli effetti congiunturali della crisi fossero stati digeriti. E c’è ancora dell’altro. Ci sono settori importanti che avevano un eccesso di capacità produttiva già prima che la crisi scoppiasse. L’automobile è uno di questi, la petrolchimica ne è un altro, la raffinazione e la cantieristica altri ancora. C’è un rapporto della multinazionale della consulenza Kpmg del 2005 che già parlava di troppe fabbriche di auto in giro per il mondo, ed erano anni in cui la domanda cresceva. Le case automobilistiche avevano costruito nuovi stabilimenti più efficienti ed avanzati oppure dove il lavoro costa meno, ma non erano riuscite a chiudere quelli vecchi. Si calcola che nella sola Europa l’eccesso di capacità produttiva del settore sia di 7 milioni di unità, il 30 per cento del totale, il che vuol dire che hanno una ragione economica per stare in piedi solo due stabilimenti su tre e il terzo dovrebbe essere chiuso. Negli Stati Uniti l’eccesso era di 6 milioni di unità e, dopo le crisi di GM, Ford e Chrysler, si calcola che l’eccesso sarà ridotto a 3,5 milioni di veicoli. Troppe fabbriche di auto ci sono anche in Cina, dove il mercato è ancora enormemente promettente. Ma una fabbrica di auto segna un territorio, la sua struttura economica e sociale, chiuderla è difficilissimo. Un altro settore è la raffinazione. Si calcola che nei prossimi mesi debbano chiudere nel mondo un centinaio di raffinerie per una capacità totale di 8 milioni di barili al giorno. Alcune chiusure, per 2 milioni di barili al giorno, sono state già avviate o annunciate. Non è solo il crollo della domanda ad aver determinato questa situazione, sono entrati in produzione nuovi impianti, più moderni ed efficienti, e quelli marginali prima o poi dovranno gettare la spugna. Il problema è che finché non lo faranno tutto il settore andrà avanti con margini bassissimi e spesso in perdita. Il problema anche qui è che chiudere una raffineria è difficile e costoso, c’è un impatto occupazionale e c’è la bonifica del territorio da fare prima che altre attività possano impiantarvisi. Il dramma non riguarda solo la manifattura ma anche i servizi: quante compagnie aeree, per fare solo un esempio, saranno in grado di reggere mentre gli aerei con le loro livree viaggiano mezzi vuoti? Tra l’eccesso di capacità strutturale in alcuni settori e quello che deriva dalla crisi, in ballo ci sono migliaia di imprese, di fabbriche, di uffici, e soprattutto milioni di persone. Nei consigli di amministrazione si ragiona su come muoversi. I più forti arrivano a pensare che più la crisi allungherà i suoi tempi, o più la ripresa sarà lenta, più rapida sarà l’uscita dal mercato delle imprese marginali e prima le sopravvissute potranno ricostruire i propri margini. Per converso se la distruzione di capacità produttiva fosse troppo rapida, l'impatto sociale e anche quello economico sarebbe tale da allungare ancora i tempi di un ritorno alla normalità. Comunque la si prenda la questione è lì, è reale. Ed è la sfida più difficile, più ancora del contenimento della tempesta perfetta della finanza, perché ancora più di quella entra nelle fabbriche, negli uffici, nei negozi, nelle case, stravolge progetti di vita e potrebbe stravolgere anche assetti politici. E’ difficile perché richiede che si riconosca il problema e lo si affronti con un progetto che metta insieme politica sociale, politica economica e politica industriale, e che presupponga una visione del mondo che verrà. E’ un problema che non riguarda solo l’Italia e che sarà difficile affrontare ciascuno per conto proprio. Sarebbe il caso che a Bruxelles ci si sedesse intorno a un tavolo e si cominciasse a ragionare. In fretta.