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auto, se si ferma il motore del 900
- Subject: auto, se si ferma il motore del 900
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 25 Nov 2008 06:37:52 +0100
da Eddyburg
Se si ferma il motore del ‘900 Data di pubblicazione: 18.11.2008 Autore: Gallino, Luciano Due storie parallele: i modi della produzione di merci, settore automobile, e i modi dello sfruttamento del lavoron ella fabbrica. La Repubblica, 18 novembre 2008 Più di ogni altro prodotto dell’industria, l’automobile ha rivoluzionato oltre la nostra vita l’organizzazione del lavoro e il modo di produrre. La prima è stata trasformata dallo studio metodico dei movimenti che un lavoratore deve compiere per raggiungere la massima produttività, e dei tempi in cui deve compierli. In effetti esso ebbe inizio in un altro settore, l’industria siderurgica americana. A partire degli anni ‘80 del XIX secolo vi contribuirono un tecnico della Midvale Steel Company, Frederick W. Taylor, poi una coppia di ingegneri, Frank B. e Lilian M. Gilbreth, che lo avrebbero perfezionato utilizzando fin dall’inizio del nuovo secolo anche la nascente tecnica cinematografica. Ma fu nell’industria automobilistica che la "organizzazione scientifica del lavoro", sigla universale Osl, trovò poco dopo la sua massima diffusione. Da capofila operò la Ford. Un’automobile è formata da migliaia di pezzi. Bisogna fabbricarli uno ad uno, quindi assemblarli in modo che alla fine il veicolo funzioni senza problemi, e si possa venderlo a un prezzo accessibile. Molto tempo dopo Gianni Agnelli avrebbe definito il costruire auto "un mestiere da giganti". Lo era già nei primi lustri del Novecento. Con un problema in più: gli operai adatti per svolgere quell’inedito tipo di lavoro non esistevano. C’erano contadini espulsi dai campi a causa dell’agricoltura meccanizzata, manovali disoccupati che avevano lavorato alle ferrovie, immigrati dai mille mestieri e dozzine di lingue diverse. La Osl era brutale, alienante perché vietava di pensare, istupidente per l’obbligo di ripetere centinaia di volte al giorno gli stessi movimenti. Però consentiva di avviare al lavoro in pochi giorni masse di persone che avrebbero avuto bisogno di mesi o anni per apprendere una professione. Consentiva anche di erogare buoni salari: negli anni ‘10 Ford cominciò a pagare gli operai 5 dollari al giorno, il doppio delle altre industrie. Non solo per amor di giustizia sociale: i dipendenti ben retribuiti potevano comprare le auto che producevano. Anche in Europa la Osl arrivò presto nelle fabbriche automobilistiche, tramite ingegneri addestrati presso la United Steel. Con essa arrivarono anche i primi scioperi degli operai che la contestavano per la povera qualità del lavoro che imponeva, e anche perché a confronto degli Usa erano pagati poco. Risonante fu, nel 1912, lo sciopero svoltosi negli stabilimenti Renault di Billancourt, allora pulsante periferia di Parigi, oggi smemorato parco urbano, al pari del parco Citroën. In Italia una variante della Osl chiamata "sistema Bedaux" sarebbe stata introdotta alle officine Fiat del Lingotto nel 1928. Il paese e l’epoca, tuttavia, non erano propizi per le proteste operaie. In Usa, sul finire del 1913 Henry Ford faceva compiere all’organizzazione del lavoro e al modo di produrre un altro salto storico. Aveva saputo che nell’officina di Dearborn l’impiego d’un nastro trasportatore semovente aveva ridotto i tempi di produzione d’un magnete per auto da 18 minuti a 5. Decise allora di impiegare lo stesso dispositivo a motori e carrozzerie. Nel maggio 1914 in uno stabilimento di Detroit era così avviata la prima "linea di asssemblaggio": l’operaio stava fermo sulle gambe, ma doveva compiere un determinato insieme di operazioni per montare alcuni componenti entro i minuti o i secondi che il nastro in moto gli concedeva. Con tale innovazione i tempi di produzione del famoso Modello T venivano tagliati di parecchie ore, sì da poterlo mettere in vendita a soli 500 dollari. Tutti gli altri costruttori, inclusa la General Motors nata nel 1908 dalla fusione di altri marchi, e quelli europei sorti nel frattempo, adottarono la stessa tecnica produttiva. Masse di auto avrebbero presto invaso le strade d’America e d’Europa. Nel 1938 gli autoveicoli in circolazione sarebbero stati 25 milioni in Usa, 2 milioni in Francia e Gran Bretagna, 1,3 milioni in Germania. Mentre in Italia erano appena 370.000, di cui soltanto 280.000 autovetture. Cifra che dà un’idea sia della nostra arretratezza industriale di allora, sia del rapidissimo sviluppo degli anni ‘60 e successivi, quando anche la Fiat avrebbe contato a milioni le vetture prodotte. Se l’industria americana dell’auto ha inventato la Osl e la linea di montaggio, che con varie modifiche e una certo alleggerimento della fatica fisica reso possibile dall’automazione esistono tal quali ancora oggi, l’industria europea e quella giapponese hanno introdotto anch’esse sostanziali innovazioni nel modo di produrre. La prima è consistita nel far costruire l’auto per la maggior parte da qualcun altro. La Ford degli anni ‘20 e ‘30 era un mostro di integrazione verticale. Possedeva in diversi paesi numerosi impianti che producevano tutto ciò che serviva per fabbricare un’auto, dal carbone all’acciaio, dalla gomma al vetro. Sebbene si fossero mossi in modo simile - la Fiat, ad esempio, fino agli anni ‘70 aveva a Torino le sue Ferriere - i costruttori europei imboccarono presto una strada diversa. Cominciarono a chiedere a piccole e medie imprese (Pmi) la fornitura di ammortizzatori e fari, sedili e carburatori, valvole e spinterogeni, ruote e sospensioni. Ai giorni nostri oltre due terzi dei componenti di un’auto, in valore, che esce da uno stabilimento Ue sono stati costruiti da Pmi, e si va verso il 75%. Ciò significa che ogni 1000 addetti alle linee finali d’un costruttore di automobili, da qualche parte ve ne sono altri 2000 la cui occupazione è legata ai primi. Con singolari eccezioni: il 90% di una Porsche, sportiva di lusso, è costruito in Germania da Pmi. La seconda innovazione è stata la produzione "giusto in tempo", applicata su larga scala dalla Toyota fin dagli anni ‘70, benchè l’idea fosse nata negli Stati Uniti vent’anni prima. Le foto e i cinegiornali d’epoca ci fanno vedere, quando riguardano case automobilistiche, sterminati piazzali dove son parcheggiate, pochi centimetri tra un parafango e l’altro, decine di migliaia d’auto in attesa di essere trasportare dai concessionari. Quei piazzali non esistono più, o sono stati ridotti ai minimi termini. Al presente, grazie alle tecnologie infotelematiche, ogni singola auto viene prodotta soltanto se un cliente ne ha già firmato l’ordine d’acquisto; dopodichè ogni suo componente deve arrivare sulla linea di montaggio soltanto nel momento in cui serve. Prodotti in un raggio di centinaia, talora migliaia di chilometri, quei componenti effettuano lunghi viaggi su strada per arrivare giusto in tempo. Questo modello produttivo ha trasformato tangenziali e autostrade in reparti delle fabbriche d’auto; milioni di autoveicoli concorrono a fabbricare altri veicoli. L’età dell’automobile quale mezzo privato di trasporto pubblico, nonché mezzo di produzione, è forse prossima alla fine. Almeno nei nostri paesi. Nella fabbricazione come nell’uso consuma troppo di tutto: energia, materie prime, acqua, spazi naturali e spazi urbani, terreni agricoli, tempo. Nondimeno è giunta a occupare tali e tanti luoghi nelle nostre società che la transizione verso differenti forme di mobilità, e perché no forme di minor mobilità, sarà complicata e lunga. |
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