cittadinanza, quel diritto che ci rende più uguali



da repubblica.it di martedi 15 agosto 2006
 
CITTADINANZA, QUEL DIRITTO CHE CI RENDE PIU' EGUALI
di stefano rodotà

“Cittadini del mondo”, si diceva
in un tempo neppure
troppo lontano. Erano
le persone che avevano abbandonato
le chiusure territoriali, si
proiettavano oltre i confini dello
Stato nazione, non coltivavano legami
esclusivi con culture autoctone.
Una élite, certamente. Che tuttavia
metteva in discussione una
cittadinanza tutta risolta nel legame
di sangue o nel nascere in un
luogo determinato, lo jus sanguinis
o lo jus soli, che imprigionavano ciascuno
nella identità che lo faceva
cittadino francese o italiano o tedesco
e costituivano la condizione necessaria
per il godimento dei diritti.
Quando oggi parliamo di cittadinanza,
e dei diritti che l’accompagnano,
è piuttosto a quella logica più
aperta e comprensiva che facciamo
riferimento. La cittadinanza diventa
così un’idea unificante, non lo
strumento che distingue e divide le
persone. Individua un patrimonio
comune che appartiene a ciascun
essere umano, «un crocevia di suggestioni
variegate e complesse che
coinvolgono l’identità politico-giuridica
del soggetto, le modalità della
sua partecipazione politica, l’intero
corredo dei suoi diritti e dei suoi doveri
Vi sono diritti
che si radicano nell’umanità
stessa, e che mai debbono essere negati.
Si possono rifiutare le cure solo
perché è straniero chi le richiede? Si
può escludere dal diritto all’istruzione
un bambino solo perché figlio
di immigrati illegali? Si può ammettere
che al clandestino non sia assicurata
la giusta retribuzione o l’essenziale
sicurezza sul lavoro?
Ecco, allora, che la cittadinanza si
proietta al di là degli schemi formali,
ne mostra l’inadeguatezza. La
vecchia idea di cittadinanza non
scompare, mantiene una funzione,
ma sempre più spesso si presenta
come un ostacolo proprio per la realizzazione
di quei diritti della persona
che aveva voluto fondare. Per
uscire da questa strettoia, ricompare
l’idea (l’utopia?) di una cittadinanza
“universale”, che ci riporta al
212 dopo Cristo, quando Caracalla,
con un suo editto, estese la cittadinanza
romana a tutti gli abitanti
dell’Impero (con qualche limitata
eccezione). Intanto, però, assistiamo
a tentativi di avvicinare su scala
nazionale la nuova cittadinanza sostanziale,
attributiva a tutti di un
nucleo duro e incomprimibile di diritti,
e l’antica cittadinanza formale,
estendendo quest’ultima a un numero
crescente di persone. È la
mossa fatta con la recentissima proposta
del Governo, che vuol rendere
più agevole l’acquisizione della
cittadinanza italiana, legandola all’accertamento
di una integrazione.
Questa, tuttavia, non dev’essere
considerata come un risultato già
pienamente realizzato, ma piuttosto
come un processo che proprio
l’acquisto della cittadinanza può
agevolare e portare a compimento.
Un processo, però che dev’essere
costantemente guidato da una lungimiranza
politica che impedisca il
formarsi di ghetti etnici e culturali,
che producono conflitti come quelli
che sono emersi in Gran Bretagna.
Scontata una necessaria continuità
con la nozione del passato,
l’attenzione prospettica va sempre
più rivolta a quell’insieme di diritti,
non a caso detti “di cittadinanza”,
che accompagnano il cittadino indipendentemente
dalla relazione
che intrattiene con un territorio o
con un gruppo. Questo è ormai un
dato di realtà, e ci consente di guardare
in modo nuovo anche al tema,
sempre controverso, dell’universaantidoto
alla violenza di tradizioni
che vogliono continuare a cancellarli.
Le persone si muovono nel mondo
in modo sempre più incessante,
praticando in primo luogo la più antica
forma di ricerca trasnazionale di
diritti, l’emigrazione, per assicurarsi
condizioni minime di sopravvivenza.
Ma il “turismo dei diritti” si
manifesta, e non da oggi, nelle forme
più varie: abbiamo conosciuto il turismo
dei divorzi e quello abortivo, si
pratica quello procreativo, si difende
la libertà sessuale con la richiesta
di asilo politico, si cercano i luoghi
della “buona morte” o, più semplicemente,
quelli dove sono leciti i rave
party. Il patrimonio dei diritti di
ciascuno non è solo quello, limitato,
che gli viene messo a disposizione
della cittadinanza nazionale. Si arricchisce
grazie alla possibilità di
realizzare altrove diritti negati nel
proprio paese. Così la cittadinanza si
dilata, è il frutto dell’agire libero delle
persone. Si diventa cittadini del
mondo grazie ad un accesso ai diritti
che scavalca le frontiere.
Nella dimensione globale la continua
circolazione delle persone
porta con sé anche una circolazione
di valori e di modelli di comportamento,
che favorisce la lenta creazione
di riferimenti comuni. L’universalità
dei diritti può così liberarsi
dal dubbio dell’imposizione. Una
produzione “dal basso” di diritti
fondamentali rende plausibile e
concreta l’emergere di una cittadinanza
universale. Non è certo un
caso che, criticando la globalizzazione
attraverso i mercati, si sia passati
dal suo rifiuto radicale alla diversa
logica della globalizzazione
attraverso i diritti.
Ma quale deve essere, in concreto,
lo spessore della cittadinanza? Ci
si può appagare di una cittadinanza
minima, “sottile”, che consiste nell’attribuzione
di una quota ridotta
di diritti, circoscritta magari a quelli
civili e politici, con una riduzione
radicale di quelli sociali? O, viceversa,
si deve accettare che al miglioramento
delle condizioni materiali di
vita continui a corrispondere la negazione
di libertà fondamentali, secondo
uno schema di scambio tipico
dei regimi autoritari e dittatoriali,
che continua a prosperare nel
mondo d’oggi?
La nuova cittadinanza muove da
una considerazione integrale della
persona, e la proietta al di là delle distinzioni
tradizionali tra diritti civili,
politici, sociali e diritti tipici dell’età
tecnologica. Se si guarda alla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, ci si avvede come
essa abbia fatto cadere la barriera
tra le diverse categorie di diritti, affermandone
l’indivisibilità, facendole
tutte partecipi della medesima
e forte natura di diritti fondamentali,
e attribuendo così alla cittadinanza
uno spessore che li comprende
tutti. Ma la cittadinanza”sottile”,
impoverita di alcune sue componenti
essenziali, ricompare quando
al riconoscimento formale di un diritto
corrisponde nella realtà una
sua negazione. Che cosa diventa, ad
esempio, il diritto fondamentale alla
salute quando viene affidato integralmente
o prevalentemente alla
logica privatistica, sì che io ho tanta
salute quanta le mie risorse consentono
di comprarne nel mercato?
Questo far dipendere la dotazione
dei diritti dalle disponibilità finanziarie
ha fatto pesantemente ricomparire
nel mondo la cittadinanza
“censitaria”, che attenta alla dignità
stessa della persona e costituisce
l’insidia vera per vecchia e nuova
cittadinanza.
La nuova cittadinanza
non scende dal cielo, non è figlia
d’un editto imperiale o dell’intelligenza
d’un buon legislatore. Si rivela
sempre più nettamente come una
costruzione edificata sul modo concreto
in cui le persone avvertono il
bisogno di diritti, ne cercano il riconoscimento,
ne praticano la realizzazione.
E così cittadinanza e diritti
possono anche liberarsi dal sospetto,
o dall’accusa, che vede in essi
una imposizione dall’alto di valori
estranei o comunque non condivisi,
o addirittura l’antico vizio del colonialismo,
questa volta affidato insidiosamente
a una forma che parla di
estensione delle libertà. La pretesa
di affermare diritti universali avrebbe
la stessa radice violenta dell’esportazione
della democrazia?
In realtà, proprio l’universalità
dei diritti di cittadinanza può mettere
al riparo dalle trappole d’un malinteso
multicuralismo. Negli Stati
Uniti è stato concesso asilo politico
a una ragazza perché, qualora fosse
tornata nel suo paese, non avrebbe
potuto sottrarsi alla pratica terribile
dell’infibulazione. La libertà sessuale,
dunque, fa corpo con la nuova
cittadinanza e mette radicalmente
in discussione i condizionamenti
culturali che vogliono limitarla. Lo
stesso deve dirsi della libertà di sposarsi,
appena negata in Italia addirittura
con l’omicidio a una ragazza
pachistana, che ha tragicamente
confermato il persistere di un costume
che cronaca, cinema, letteratura
ci hanno ripetutamente descritto in
questi anni. La cultura dei diritti
universali della persona esige una
faticosa maturazione, ma è il vero
OGGI, nel momento
in cui lo
stato-nazione si
trova minacciato all’interno dall’esplosione del multiculturalismo
e all’esterno dai problemi della globalizzazione, ci
chiediamo se esista ancora - in ordine alla possibilità di coniugare
“nazione dei cittadini” e “nazione etnica”, ordine
giuridico e cultura popolare - un equivalente altrettanto
funzionale. All’inizio, l’unità suggestiva di un popolo più o
meno omogeneo era stata sufficiente per integrare culturalmente
una cittadinanza definita in termini giuridici. In
questo contesto la cittadinanza democratica poté fungere
da “punto di raccordo” per responsabilità reciproche.
Oggi invece constatiamo quotidianamente come le società
pluralistiche si allontanino sempre più dal vecchio
modello dello stato-nazione con popolazione culturalmente
omogenea. Cresce continuamente la diversità tra
forme di vita culturali, gruppi etnici, confessioni religiose,
e immagini del mondo. Non esistono alternative
a questo processo se non al prezzo - normativamente
insostenibile - delle pulizie etniche. “