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cittadinanza, quel diritto che ci rende più uguali
- Subject: cittadinanza, quel diritto che ci rende più uguali
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 7 Sep 2006 06:31:50 +0200
da repubblica.it di martedi 15 agosto
2006
CITTADINANZA, QUEL DIRITTO CHE CI RENDE
PIU' EGUALI
di stefano rodotà
“Cittadini del mondo”, si diceva in un tempo neppure troppo lontano. Erano le persone che avevano abbandonato le chiusure territoriali, si proiettavano oltre i confini dello Stato nazione, non coltivavano legami esclusivi con culture autoctone. Una élite, certamente. Che tuttavia metteva in discussione una cittadinanza tutta risolta nel legame di sangue o nel nascere in un luogo determinato, lo jus sanguinis o lo jus soli, che imprigionavano ciascuno nella identità che lo faceva cittadino francese o italiano o tedesco e costituivano la condizione necessaria per il godimento dei diritti. Quando oggi parliamo di cittadinanza, e dei diritti che l’accompagnano, è piuttosto a quella logica più aperta e comprensiva che facciamo riferimento. La cittadinanza diventa così un’idea unificante, non lo strumento che distingue e divide le persone. Individua un patrimonio comune che appartiene a ciascun essere umano, «un crocevia di suggestioni variegate e complesse che coinvolgono l’identità politico-giuridica del soggetto, le modalità della sua partecipazione politica, l’intero corredo dei suoi diritti e dei suoi doveri Vi sono diritti che si radicano nell’umanità stessa, e che mai debbono essere negati. Si possono rifiutare le cure solo perché è straniero chi le richiede? Si può escludere dal diritto all’istruzione un bambino solo perché figlio di immigrati illegali? Si può ammettere che al clandestino non sia assicurata la giusta retribuzione o l’essenziale sicurezza sul lavoro? Ecco, allora, che la cittadinanza si proietta al di là degli schemi formali, ne mostra l’inadeguatezza. La vecchia idea di cittadinanza non scompare, mantiene una funzione, ma sempre più spesso si presenta come un ostacolo proprio per la realizzazione di quei diritti della persona che aveva voluto fondare. Per uscire da questa strettoia, ricompare l’idea (l’utopia?) di una cittadinanza “universale”, che ci riporta al 212 dopo Cristo, quando Caracalla, con un suo editto, estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero (con qualche limitata eccezione). Intanto, però, assistiamo a tentativi di avvicinare su scala nazionale la nuova cittadinanza sostanziale, attributiva a tutti di un nucleo duro e incomprimibile di diritti, e l’antica cittadinanza formale, estendendo quest’ultima a un numero crescente di persone. È la mossa fatta con la recentissima proposta del Governo, che vuol rendere più agevole l’acquisizione della cittadinanza italiana, legandola all’accertamento di una integrazione. Questa, tuttavia, non dev’essere considerata come un risultato già pienamente realizzato, ma piuttosto come un processo che proprio l’acquisto della cittadinanza può agevolare e portare a compimento. Un processo, però che dev’essere costantemente guidato da una lungimiranza politica che impedisca il formarsi di ghetti etnici e culturali, che producono conflitti come quelli che sono emersi in Gran Bretagna. Scontata una necessaria continuità con la nozione del passato, l’attenzione prospettica va sempre più rivolta a quell’insieme di diritti, non a caso detti “di cittadinanza”, che accompagnano il cittadino indipendentemente dalla relazione che intrattiene con un territorio o con un gruppo. Questo è ormai un dato di realtà, e ci consente di guardare in modo nuovo anche al tema, sempre controverso, dell’universaantidoto alla violenza di tradizioni che vogliono continuare a cancellarli. Le persone si muovono nel mondo in modo sempre più incessante, praticando in primo luogo la più antica forma di ricerca trasnazionale di diritti, l’emigrazione, per assicurarsi condizioni minime di sopravvivenza. Ma il “turismo dei diritti” si manifesta, e non da oggi, nelle forme più varie: abbiamo conosciuto il turismo dei divorzi e quello abortivo, si pratica quello procreativo, si difende la libertà sessuale con la richiesta di asilo politico, si cercano i luoghi della “buona morte” o, più semplicemente, quelli dove sono leciti i rave party. Il patrimonio dei diritti di ciascuno non è solo quello, limitato, che gli viene messo a disposizione della cittadinanza nazionale. Si arricchisce grazie alla possibilità di realizzare altrove diritti negati nel proprio paese. Così la cittadinanza si dilata, è il frutto dell’agire libero delle persone. Si diventa cittadini del mondo grazie ad un accesso ai diritti che scavalca le frontiere. Nella dimensione globale la continua circolazione delle persone porta con sé anche una circolazione di valori e di modelli di comportamento, che favorisce la lenta creazione di riferimenti comuni. L’universalità dei diritti può così liberarsi dal dubbio dell’imposizione. Una produzione “dal basso” di diritti fondamentali rende plausibile e concreta l’emergere di una cittadinanza universale. Non è certo un caso che, criticando la globalizzazione attraverso i mercati, si sia passati dal suo rifiuto radicale alla diversa logica della globalizzazione attraverso i diritti. Ma quale deve essere, in concreto, lo spessore della cittadinanza? Ci si può appagare di una cittadinanza minima, “sottile”, che consiste nell’attribuzione di una quota ridotta di diritti, circoscritta magari a quelli civili e politici, con una riduzione radicale di quelli sociali? O, viceversa, si deve accettare che al miglioramento delle condizioni materiali di vita continui a corrispondere la negazione di libertà fondamentali, secondo uno schema di scambio tipico dei regimi autoritari e dittatoriali, che continua a prosperare nel mondo d’oggi? La nuova cittadinanza muove da una considerazione integrale della persona, e la proietta al di là delle distinzioni tradizionali tra diritti civili, politici, sociali e diritti tipici dell’età tecnologica. Se si guarda alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ci si avvede come essa abbia fatto cadere la barriera tra le diverse categorie di diritti, affermandone l’indivisibilità, facendole tutte partecipi della medesima e forte natura di diritti fondamentali, e attribuendo così alla cittadinanza uno spessore che li comprende tutti. Ma la cittadinanza”sottile”, impoverita di alcune sue componenti essenziali, ricompare quando al riconoscimento formale di un diritto corrisponde nella realtà una sua negazione. Che cosa diventa, ad esempio, il diritto fondamentale alla salute quando viene affidato integralmente o prevalentemente alla logica privatistica, sì che io ho tanta salute quanta le mie risorse consentono di comprarne nel mercato? Questo far dipendere la dotazione dei diritti dalle disponibilità finanziarie ha fatto pesantemente ricomparire nel mondo la cittadinanza “censitaria”, che attenta alla dignità stessa della persona e costituisce l’insidia vera per vecchia e nuova cittadinanza. La nuova cittadinanza non scende dal cielo, non è figlia d’un editto imperiale o dell’intelligenza d’un buon legislatore. Si rivela sempre più nettamente come una costruzione edificata sul modo concreto in cui le persone avvertono il bisogno di diritti, ne cercano il riconoscimento, ne praticano la realizzazione. E così cittadinanza e diritti possono anche liberarsi dal sospetto, o dall’accusa, che vede in essi una imposizione dall’alto di valori estranei o comunque non condivisi, o addirittura l’antico vizio del colonialismo, questa volta affidato insidiosamente a una forma che parla di estensione delle libertà. La pretesa di affermare diritti universali avrebbe la stessa radice violenta dell’esportazione della democrazia? In realtà, proprio l’universalità dei diritti di cittadinanza può mettere al riparo dalle trappole d’un malinteso multicuralismo. Negli Stati Uniti è stato concesso asilo politico a una ragazza perché, qualora fosse tornata nel suo paese, non avrebbe potuto sottrarsi alla pratica terribile dell’infibulazione. La libertà sessuale, dunque, fa corpo con la nuova cittadinanza e mette radicalmente in discussione i condizionamenti culturali che vogliono limitarla. Lo stesso deve dirsi della libertà di sposarsi, appena negata in Italia addirittura con l’omicidio a una ragazza pachistana, che ha tragicamente confermato il persistere di un costume che cronaca, cinema, letteratura ci hanno ripetutamente descritto in questi anni. La cultura dei diritti universali della persona esige una faticosa maturazione, ma è il vero OGGI, nel momento in cui lo stato-nazione si trova minacciato all’interno dall’esplosione del multiculturalismo e all’esterno dai problemi della globalizzazione, ci chiediamo se esista ancora - in ordine alla possibilità di coniugare “nazione dei cittadini” e “nazione etnica”, ordine giuridico e cultura popolare - un equivalente altrettanto funzionale. All’inizio, l’unità suggestiva di un popolo più o meno omogeneo era stata sufficiente per integrare culturalmente una cittadinanza definita in termini giuridici. In questo contesto la cittadinanza democratica poté fungere da “punto di raccordo” per responsabilità reciproche. Oggi invece constatiamo quotidianamente come le società pluralistiche si allontanino sempre più dal vecchio modello dello stato-nazione con popolazione culturalmente omogenea. Cresce continuamente la diversità tra forme di vita culturali, gruppi etnici, confessioni religiose, e immagini del mondo. Non esistono alternative a questo processo se non al prezzo - normativamente insostenibile - delle pulizie etniche. “ |
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