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biocombustibile a rischio inquinamento
- Subject: biocombustibile a rischio inquinamento
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 4 Jul 2006 06:19:36 +0200
da liberazione di domenica 2 luglio
2006
BIOCOMBUSTIBILE A RISCHIO
INQUINAMENTO
Quanta energia serve per produrre un barile
di carburante alternativo? Se i frutti della tera diventano benzina, da dove
arriva il cibo, e con quali costi ambientali? E come si blocca il rischio
ogm?
di sabina morandi
Alla fine degli anni Novanta impazzava la "genomania" :
ogni giornospuntavano nuove compagnie biotech che andavano a gonfiare la bolla
speculativa improvvisamente scoppiata a cavallo del nuovo millenio. Oggi,
assicura il Financial Times, a Wall Street si respira la stessa frenesia, solo
che a causarla stavolta non sono i geni, ma l'etanolo e biocombustibili affini
che potrebbero, parola di bush, liberare gli Stati Uniti dal ricatto del
petrolio straniero. Insomma, basta fondare una compagnia che ha qualche
connessione con i combustibili "verdi" per venire sommersi da una pioggia di
soldi, sotto forma di esenzioni fiscali, contributi alla ricerca e via dicendo.
Però se ci si riesce a sottrarre all'ebbrezza da etanolo e derivati, i supposti
benefici per l'ambiente e per il settore energetico appaiono di molto
sovrastimati anche perchè la maggior parte dei fondi vengono riversati in
tecnologie già vecchie di un decennio. Senza contare che una transizione
completa verso l'impiego dei biocombustibili nelle zone temperate richiederebbe
la riconversione di buona parte delle culture alimentari, creando una dipendenza
dalle importazioni di cibo che potrebbe avere conseguenze ancor più pesanti di
quella dal petrolio.
I trucchi del Bush "ambientalista"
A prima vista l'idea di produrre combustibili dalle piante
sembra davvero buona. Da anni si parla di ricavare energia dalle biomasse e i
biocombustibili sembrano soltanto un'estensione di questa tecnologia. La
differenza è però fondamentale: le biomasse sono scarti e rifiuti organici, non
produzioni apposite. Tuttavia i politici d'Oltreoceano e, in parte anche quelli
europei, non sembrano interessati a queste sottigliezze e si sono tuffati
entusiasticamente nella partita dei biofuel. Non tanto perchè sperano di
utilizzarli per affrontare l'epocale transizione al di fuori dei combustibili
fossili senza cambiare di una virgola le nostre abitudini di consumo, quanto
perchè risolvono alcuni problemi contingenti come ad esempio il sostegno
all'agricoltura che americani ed europei continuano a dare malgrado sia
considerato contrario alle leggi del mercato ( e infatti è proibito a tutti,
tranne che a loro). Da qualche mese basta far balenare i combustibili verdi per
ottenere esenzioni fiscali ( negli States ) o importanti deroghe al rigido
sistema delle quote di produzione agricole ( in Europa ). Nel frattempo sia la
Commissione Europea che l'amministrazione statunitense si danno da fare per
rendere, come si dice, l'ambiente il più favorevole possibile agli affari: in
entrambi i paesi sono stati decisi sostanziosi aumenti nella proporzione fra
etanolo e petrolio contenuti nella benzina d'uso comune. Bush, in accordo con i
produttori di auto e con le industrie dell'etanolo, utilizza ogni microfono per
sponsorizzare l'impiego dell'E85, una mistura dove l'etanolo è presente all'85
per cento e utilizzabile solo per alimentare il motore di alcune macchine
opportunamente modificate. In Europa attualmente è la Svezia a premere
sull'acceleratore con esenzioni fiscali e forti contributi governativi, ma sono
molti i paesi ( compresa l'Italia ) in cui vengono prese misure in tal
senso.
Secondo la Renewable Fuels Association di Washington, un
gruppo che fa lobbyng per la diffusione dei biocombustibili, negli Stati Uniti
sono in costruzione 32 raffinerie per etanolo mentre 8 delle 102 già costruite
vengono ampliate. La capacità produttiva statunitense dovrebbe raddoppiare
entro l'anno, dopo essere aumentata già di un terzo negli ultimi due, arrivando
a coprire il 2 per cento del combustibile da trasporto con il
biofuel. Quanto è ragionevole questo passaggio? Dal punto di vista
dell'effetto serra - che però non è quello della Casa bianca ancora impegnata a
contestarne la legittimità scientifica - l'impiego dei biocombustibili può
effettivamente ridurre le amissioni da trasporto, che costituiscono circa un
quarto delle emissioni globali di gas serra, anche perchè crescendo le piante
assorbono un pò del biossido di carbonio che emetteranno una volta trasformate
in combustibile. Ma quel che non si dice è che si tratta di un risparmio
molto ridotto perchè, alle latitudini di Europa e Stati Uniti, per coltivare la
benzina verde serve un sacco di terra. In realtà convertire mais, grano,
barbabietole da zucchero o girasoli in combustibile richiede una lavorazione
abbastanza complessa e dispendiosa in termini energetici ( per far funzionare
una raffineria occorre pur sempre dell'energia ) cosa che rende l'operazione
decisamente costosa. Ora, sebbene gli incentivi possano rendere tali costi molto
leggeri in termini monetari, dal punto di vista energetico è tutta un'altra
questione. Insomma, se per trasformare il raccolto di un campo in un barile di
combustibile ne occorrono due, forse la cosa può convenire nell'immediato -
specie se il governo ti paga per farlo - ma alla lunga non può che essere
controproducente.
Quando poi si cerca di capire con precisione quanto sia
davvero "verde" il biocombustibile, ci possono essere spiacevoli sorprese.
Secondo uno studio condotto da Alexander Farrell della University of California
e pubblicato su Science, ad esempio, l'impiego massiccio dei biocombustibili con
i processi produttivi odierni potrebbe ridurre le emissioni appena del 13 per
cento, una riduzione che anche la Commissione Europea giudica " modesta "
soprattutto comparata con le misure di efficienza e di risparmio che potrebbero
abbattere le emissioni del 25-30 per cento ( ma c'è chi dice di più ) a costi
molto più contenuti. Cercare insomma di risolvere il problema del riscaldamento globale riconvertendo alcune colture
alla produzione dell'energia potrebbe risultare decisamente antieconomico: " le
emissioni di gas serra possono essere ridotte di più investendo gli stessi soldi
in altri settori ", come si può leggere nel rapporto presentato il 12 giugno da
Stavros Dimas, Comissario Europeo per l'ambiente. Ovviamente per gli Stati Uniti
, dove l'evidenza del cambiamento climatico è ancora fortemente
contestata, l'accento cade come al solito sul problema della dipendenza dal
petrolio mediorientale. In questo caso, visto che il biocombustibile può essere
sintetizzato impiegando anche il gas e il carbone di cui il paese è ricco,
l'etanolo può davvero aiutare a ridurre le importazioni di petrolio che, in
prospettiva, sono destinate ad aumentare visto il progressivo declino della
produzione americana che ha raggiunto il suo picco massimo negli anni settanta).
Ma gli stessi impianti potrebbero venire utilizzati direttamente per produrre
energia da riscaldamento e rimpiazzare i derivati del petrolio attualmente in
uso, con lo stesso beneficio, costi più bassi e un analogo tasso di
inquinamento. Inoltre è da dimostrare che l'impiego di biofuel possa davvero
convenire agli automobilisti come sostiene Bush visto che l'etanolo contiene
meno energia del petrolio e quindi, per percorrere la stessa distanza, alla fine
sono necessari più litri.
Iveri beneficiari?
La lobby dell'agrobusiness
Quando fa il suo esordio una nuova strabiliante trovata
tecnologica è buona regola cercare di individuare gli interessi economici che la
sostengono. Di sicuro la sbronza da etanolo di Wall Sttreet è molto gradita ai
produttori statunitensi di automobili da sempre impegnati in un feroce braccio
di ferro con il governo federale per non farsi imporre standard di efficienza
che farebbero fuori una vasta gamma di veicoli di lusso ( e spazzerebbero via
quella nuova forma di suicidio energetico che sono i Suv). Relativamente nuova è
invece l'alleanza delle case automobilistiche con le imprese agroindustriali
alle quali viene garatita la produzione di auto più efficienti
nell'impiego di benzine derivate dai raccolti delle grandi piantagioni. Il
problema, fanno notare gli ambientalisti, è che queste tecnologie sono lontane
almeno 15 o 20 anni mentre le alternative sarebbero disponibili fin da ora se si
volesse imboccare la strada che ha fatto la fortuna delle efficienti macchine
giapponesi o europeee. Inoltre, visto che lo schema di esenzioni fiscali voluto
da Bush è ben poco articolato, si rischia di rimanere incastrati nella vecchia
tecnologia e nelle sue versioni meno efficaci. Ci sono anche casi in cui la
riconversione affrettata di alcuni impianti a carbone per la produzione di
etanolo alla fine risulta più inquinante della normale benzina come è accaduto
con una raffineria del North Dakota. Ovviamente se gli incentivi fiscali non
sono collegati con i metodi produttivi - premiando quelli meno inquinanti invece
di una distribuzione " a pioggia " - i produttori saranno spinti soltanto a
ridurre i costi e non le emissioni di gas serra o il consumo di petrolio. In
realtà la prima esigenza di Bush il petroliere, alle prese con un drammatico
calo di consensi in un anno elettorale, non riguarda tanto i consumi energetici
quanto la montagna di soldi pubblici che ogni anno vanno a finire nelle casse
delle grandi compagnie dell'agrobusiness. Abitudine bacchettata dal WTO che
chiede, da anni, di riformare il sistema statunitense di sussidi all'agricoltura
come richiede il dogma del liberismo globale. Certo, una riforma articolata
dell'agricoltura intensiva attualmente basata sul petrolio e sul gas sia per la
meccanizzazione che per gli additivi chimici, potrebbe davvero ridurre emissioni
e consumi in modo consistente, ma è un'idea che non sembra nemmeno sfiorare il
presidente nella sua versione " verde ".
Gli europei, dal canto loro , sono più cauti anche se,
singolarmente, molti paesi stanno attuando la stessa strategia - vedi ad esempio
la Germania - più o meno con le stesse motivazioni dell'amministrazione USA.
Anche in questo caso gli incentivi al biocombustibile possono essere utilizzati
dai singoli paesi per aggirare i paletti posti dalla Politica agricola
comunitaria ( da poco riformata su richiesta del WTO ) e continuare a
sovvenzionare i propri agricoltori. Secondo Peter Tajan, segretario generale
della European Petroleum Industry Association, si starebbe addirittura
profilando " la creazione di una Pac parallela con un nuovo sistema di sussidi
". Il pericolo è di rendere alquanto difficile abbandonare la coltivazione della
prima generazione di combustibili quando, in un prossimo futuro, si dovessero
presentare delle alternative più avanzate alle tecnologie e alle colture di
oggi. Senza parlare del fatto che, con il prevedibile aumento dei combustibili
fossili all'orizzonte, sarebbe più sensato invece provare a "disintossicare"
l'agricoltura dalla sua dipendenza dall'oro nero, magari cominciando a
recuperare quel ciclo corto - produrre più vicino a dove si consuma - che
consentirebbe un abbattimento significativo della bolletta energetica dei
singoli paesi. Al contrario la diffusione delle coltivazioni energetiche, per
ottenere risultati significativi, è destinata a monopolizzare la superfice
coltivata costringendo i paesi europei a dipendere sempre più dalle importazioni
per l'approvigionamento alimentare, con ulteriore dispendio di energia per il
trasporto delle merci.
I dubbi degli europei
In sostanza, se viene privilegiato l'obbiettivo di
abbattere le emissioni inquinanti più che gli interessi della lobby agrochimica,
gli unici biocombustibili davvero efficienti provengono dal sud del mondo dove
le coltivazioni di canna da zucchero o di olio di palma asiatico godono dei
vantaggi del clima. Peccato che le importazioni dell'etanolo brasiliano o
dell'olio asiatico siano penalizzate dalle alte tariffe doganali pretese dai
produttori locali. Il problema è che, con la tecnologia corrente, le
coltivazioni energetiche nei paesi temperati sono così inefficienti da
richiedere grandi estensioni agricole. Secondo il già citato studio della
Commissione europea, per conseguire l'obbiettivo di rimpiazzare il 5,75 per
cento del petrolio e del diesel con i biocombustibili che Bruxelles si è data
bisogna riconvertire almeno il 19 per cento della terra utilizzata per produrre
cibo. Se poi gli americani riuscissero davvero a far andare una macchina su
dieci a biocombustibile dovrebbero riservare, secondo l'Ocse, un terzo della
terra coltivabile a questa produzione.
Anche i produttori di automobili non sono troppo convinti.
La Volkswagen ad esempio ha fatto sapere che non considera affatto conveniente
promuovere la produzione di auto " flessibili ", in grado cioè di marciare con
una quantità maggiore di biofuel. La casa tedesca mette in guardia sugli alti
costi della ristrutturazione dell'infrastruttura necessaria a distribuire
combustibili come l'E85, costi tutto sommato inutili visto che le macchine
attualmente in circolazione possono marciare con il 10 per cento di etanolo nel
motore, il che già corrisponde a più di cinque volte la domanda attuale di
etanolo. Volkswagen spinge invece per i bio-combustibili di seconda generazione
e lavora alacremente con un'azienda biotecnologica, la canadese Iogen, per
studiare la possibilità di impiegare gli scarti della lavorazione della
cellulosa. La cosa sarebbe anche sensata se non fosse la premessa per un ritorno
in grande stile degli ogm, cacciati dalla diffidenza dei consumatori e rientrati
dalla finestra delle buone intenzioni "verdi". Va ricordato che il principale
problema delle colture transgeniche non è legato al consumo alimentare ( a
proposito del quale comunque sarebbero necessari opportuni studi ) quanto
all'impatto della loro diffusione sulla biodiversità e sulle altre coltivazioni,
per non parlare dell'ecosistema nel suo complesso. La possibilità che gli ogm
vengano reintrodotti per motivazioni virtuose come l'abbattimento dei gas serra
va attentamente valutata, soprattutto quando, dati alla mano, l'effettiva
riduzione delle emissioni, così come del petrolio, non appare così
significativa.
Meglio forse cominciare a fare quello che già sappiamo
fare - cioè consumare di meno e in modo più efficiente con tecnologie già
disponibili - prima di inseguire la nuova fantasmagorica invenzione su cui
riversare soldi e speranze. Ai fan di questa nuova tecnologia consigliamo
insomma di farsi bene due conti prima di dichiarare, come ha fatto qualche mese
fa il nuovo vicedirettore generale della Fao per il Dipartimento dello sviluppo
sostenibile, Alexander Muller: " Nei prossimi 15-20 anni è probabile che
assisteremo a un maggiore impiego di biocombustibili, che potrebbero arrivare a
coprire sino a un buon 25 per cento del fabbisogno energetico mondiale". Se ciò
dovesse avvenire forse gli africani potrebbero scorrazzare allegramente in auto
su e giù per la savana, ma di certo non avrebbero risolto l'annoso problema
della denutrizione dovendo dedicare ampie estensioni di terra coltivabile alla
produzione di benzina vegetale. E che dire della Cina, già alle prese con un
drammatico problema di riduzione dei terreni coltivabili per via della
diversificazione e del supersfruttamento degli anni passati? La connessione fra
coltivazioni energetiche e sicurezza alimentare è qualcosa che, forse, un alto
funzionario della Fao dovrebbe saper fare.
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