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riforma delle leggi sul lavoro in italia
- Subject: riforma delle leggi sul lavoro in italia
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 13 May 2006 06:37:45 +0200
Lavoro
da lavoceinfo.it 08-05-2006 Come superare il dualismo del mercato del lavoro Pietro Ichino La scelta compiuta dalla Cgil con il congresso di marzo, sul terreno della riforma dei rapporti di lavoro, è difficilmente contestabile nel suo assunto di fondo: la protezione offerta dal diritto del lavoro, quale che ne sia il contenuto, deve essere estesa a tutti i lavoratori in posizione di dipendenza economica; va superata la distinzione, in larga misura artificiosa, tra "subordinazione" e "parasubordinazione", tra "lavoratori" e "collaboratori continuativi"; va disboscata la giungla dei rapporti di lavoro "atipici", che genera distorsioni e disparità di trattamento ingiustificate e che, oltretutto, con la sua complessità non giova neppure alle imprese; è ora di superare il dualismo che (non in conseguenza della legge Biagi del 2003, ma in misura crescente ormai da molti anni) caratterizza fortemente il diritto e il mercato del lavoro italiani, scaricando tutto il peso della flessibilità di cui imprese ed enti pubblici hanno bisogno soprattutto sulle nuove generazioni. Un nuovo assetto del lavoro tipico
Questa opzione, tuttavia, pone bruscamente la stessa Cgil e l’intero movimento riformatore di fronte a un dilemma cruciale. Estendere a tutti i lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza lo Statuto dei lavoratori, così com’è, non è possibile senza imporre al sistema un’ingessatura insopportabile e senza mandare a casa centinaia di migliaia, se non milioni, di persone. Se la parola d’ordine della riunificazione del diritto e del mercato del lavoro non vuole restare uno slogan vuoto, se vuole portare a una riforma effettiva e incisiva, essa comporta l’ideazione di una nuova "rete di sicurezza" davvero suscettibile di applicazione universale: un nuovo assetto del rapporto di lavoro tipico, capace di sostituire l’intera giungla attuale di tipi contrattuali. Voltar pagina rispetto a vent’anni di crescente dualismo del mercato del lavoro italiano è il solo significato positivo che la politica del lavoro del nuovo Governo può attribuire alla propria scelta programmatica del "superamento" della legge Biagi. Un significato che sarebbe certamente piaciuto allo stesso Marco Biagi (posso dirlo, per averne lungamente discusso con lui negli ultimi anni della sua vita) e che aiuterebbe a trovare un punto di intesa su questo tema non solo tra le diverse anime del centrosinistra, ma anche con alcuni settori dell’opposizione interessati a evitare il "muro contro muro" su quella legge. Se questo è l’obiettivo, il nuovo assetto del rapporto di lavoro tipico dovrà, sì, estendere a tutti i lavoratori, fin dal loro primo ingresso nel tessuto produttivo, oltre alle assicurazioni sociali fondamentali per malattia, maternità/paternità, invalidità e disoccupazione, anche una protezione piena e forte contro le discriminazioni e contro l’uso arbitrario o comunque infondato del potere disciplinare. Ma, per il resto, nella prima fase della vita lavorativa i rapporti di lavoro dovranno necessariamente avere un grado di stabilità minore rispetto alle fasi ulteriori. Questo è necessario, innanzitutto, per consentire la migliore allocazione delle risorse umane nel tessuto produttivo: ciò che può richiedere talvolta più di un tentativo di inserimento aziendale della stessa persona, in funzione del suo stesso interesse alla migliore valorizzazione delle sue capacità. Ma è necessario, inoltre, per evitare un drastico effetto depressivo sulle possibilità dei giovani di accesso al lavoro regolare: in un sistema nel quale la prima assunzione fosse consentita soltanto con un rapporto di lavoro ad alto grado di stabilità, i più giovani sarebbero fortemente penalizzati rispetto a chi già lavora e ha quindi già alle spalle una storia professionale che fornisce informazioni sulle sue qualità specifiche (non va dimenticato che proprio per questo, nella seconda metà degli anni Settanta, fu il sindacato – sulla scorta soprattutto di un’idea di Bruno Trentin - a chiedere l’introduzione del contratto di formazione e lavoro: cioè, in sostanza, un contratto a termine di ingresso con retribuzione ridotta, in funzione dell’inserimento professionale dei più giovani). Le tre proposte
I tre progetti che vengono presentati qui di seguito costituiscono un contributo a questa riforma. L’idea che li accomuna è quella di delineare un dispositivo di accesso graduale al regime di stabilità piena del rapporto di lavoro, suscettibile di sostituirsi integralmente all’insieme eterogeneo dei rapporti di lavoro "fuori standard" che caratterizzano il regime attuale. Il primo (Boeri-Garibaldi) prevede un rapporto di
lavoro unico a tempo
indeterminato, assistito fin dall’inizio da protezione forte (articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) contro discriminazioni e licenziamento disciplinare ingiustificato, e, per quel che riguarda il licenziamento per motivi economico-organizzativi, caratterizzato da un primo periodo di tre anni di protezione soltanto indennitaria. Il secondo (Leonardi-Pallini) si
caratterizza rispetto al primo per una flessibilizzazione più limitata della tutela contro il licenziamento per motivi economico-organizzativi: un periodo di franchigia allungato fino al massimo di un anno, seguito da un regime di mera incentivazione dell’accordo economico tra le parti per la cessazione del rapporto in alternativa all’applicazione della vecchia disciplina protettiva, sul modello della legge tedesca Hartz del 2003. Il terzo (Andrea Ichino) si distingue invece dai
primi due per la previsione,
in alternativa al contratto da tempo indeterminato con protezione piena fin dall’inizio, della possibilità di prima assunzione con un contratto a termine di durata non inferiore a tre anni, non rinnovabile presso la stessa impresa, fruibile dallo stesso lavoratore fino a un massimo di tre volte presso imprese diverse, e con costi di transazione ridotti al minimo; in altre parole: libertà di sperimentare con il lavoratore a termine, purché sia un esperimento serio, con un orizzonte temporale sufficientemente ampio, sul quale l’ente o impresa che assume investe almeno tre anni di retribuzione (una soluzione che presenta un interesse particolare per il settore pubblico). Sono solo tre possibili assetti di un nuovo regime
unitario del rapporto di
lavoro tipico, suscettibili anche di combinazione tra loro, o di diverse modulazioni dei parametri di protezione. Suscettibili, peraltro, di favorire l’ingresso o il rientro nel mercato del lavoro non solo dei giovani, ma anche delle donne dopo la maternità, nonché di qualsiasi lavoratore maturo o anziano, per il quale l’alternativa secca tra disoccupazione e stabilità integrale costituisce sovente un ostacolo grave al reimpiego. Sono tre possibili riforme della materia a costo zero per le casse dello Stato. E sono tre possibili riforme politicamente più facili, per la prudenza e moderazione cui sono ispirate, rispetto ad altre di cui si è discusso di recente in Europa (tutte e tre meno radicali, per esempio, rispetto a quella proposta da Blanchard e Tirole, che pure merita sempre di essere tenuta presente nel dibattito, per la logica stringente cui essa si ispira). Ma ciò che più conta è che, per un verso, il superamento del dualismo attuale tra lavoro "di serie A" e "di serie B" non è ragionevolmente pensabile se non attraverso una rimodulazione delle protezioni almeno nella prima fase della carriera lavorativa di tutte le persone. Per altro verso, esso è politicamente proponibile - nel quadro di una riforma concertata tra le parti e il Governo sul modello dell’accordo tripartito spagnolo di questi giorni - proprio in quanto la rimodulazione riguarda soltanto quella prima fase, non intaccando pertanto l’assetto del rapporto né nella fase intermedia né in quella finale. Un sentiero verso la stabilità Tito Boeri Pietro Garibaldi I problemi strutturali del nostro mercato del lavoro sono tutti legati all’ingresso. Difficile entrare nel mercato del lavoro formale per giovani in cerca del loro primo impiego e per donne dopo la maternità o lunghi periodi passati a lavorare a casa. Ma è difficile rientrare anche per chi è costretto a uscirne durante una fase di una vita che diventa sempre più lunga. Il rientro è difficile anche per chi sceglie di stare per un po’ fuori dal mercato, cosa che avverrà in modo sempre più frequente. Per non fare deprezzare il nostro capitale umano in un percorso lavorativo che non può che allungarsi assieme alla vita vissuta, si può avere bisogno di prendere, ogni tanto, dei "periodi sabbatici". Deve essere possibile entrare prima, uscire e poi rientrare, senza trovarsi ogni volta di fronte a ostacoli pressoché insormontabili. I problemi Queste difficoltà di ingresso sono particolarmente acute al Sud e durante condizioni congiunturali difficili. Ma sono presenti comunque. È un problema strutturale del nostro mercato. Anche la questione del precariato è in parte legata all’ingresso. Le riforme del mercato del lavoro che si sono succedute in questi anni hanno certamente reso più facile il primo ingresso nel mercato, come dimostrato dal calo strutturale della disoccupazione giovanile (circa 6 punti percentuali nel periodo 1998-2005). Ma queste riforme hanno creato un canale parallelo, una specie di mercato del lavoro secondario. E il passaggio dal mercato del lavoro secondario a quello primario è terribilmente incerto, senza sentieri e percorsi stabiliti. Inoltre, ci sono problemi di sostenibilità di lungo periodo: in assenza di correttivi, ce ne accorgeremo fra venti-trenta anni quando le prime generazioni di lavoratori temporanei arriveranno all’età di pensionamento con contributi insufficienti ad alimentare una pensione superiore ai minimi sociali. Nel nuovo regime previdenziale, i contributi pagati dai co.co.co, uniti a salari di ingresso che sono spesso al di sotto della soglia di povertà (secondo i dati di Banca d’Italia, c’è quasi un 10 per cento di lavoratori atipici che riceve meno di 4 euro all’ora e a frequenti periodi di disoccupazione non coperti da assicurazioni-ammortizzatori sociali e contribuzioni figurative, sono infatti insufficienti a garantire una pensione adeguata. (1) A questi problemi bisogna pensare quando si ragiona sui programmi da realizzare nella nuova legislatura. Bisogna definire un percorso che funzioni indipendentemente dall’età, non solo per entrare, ma anche per rientrare nel mercato del lavoro. E deve essere un percorso ben definito, senza salti nel vuoto. Infine, dati i vincoli di finanza pubblica, meglio concepire un percorso che non implichi l’utilizzo di risorse pubbliche aggiuntive. Non vorremmo che, domani, esigenze di quadratura dei bilanci imponessero di cambiare il percorso, come ad esempio avvenuto con il taglio al bonus assunzioni introdotto nel 2000. Il percorso di ingresso deve valere per tutti ed essere sempre aperto. Le soluzioni proposte
Ecco dunque le nostre proposte. Bisogna cercare di attuarle simultaneamente perché fanno parte dello stesso disegno, volto ad assicurare un ingresso sostenibile nel mercato del lavoro. Il sentiero a tappe verso la stabilità. Il canale principale di entrata nel mercato del lavoro deve prevedere un sentiero di lungo periodo per i lavoratori, e al tempo stesso permettere alle imprese un assunzione "flessibile". Nella nostra proposta, il sentiero ha tre fasi: la prova, l’inserimento e la stabilità. Chi viene assunto con un contratto a tempo indeterminato, dovrebbe essere soggetto a un periodo di prova di sei mesi, come oggi avviene per alcune categorie e per il personale direttivo. Serve a non scoraggiare il datore di lavoro che vuole essere garantito circa le qualità del lavoratore. Successivamente, dal sesto mese al terzo anno dopo l’assunzione, il lavoratore è coinvolto in un periodo di inserimento in cui viene tutelato dall’articolo 18 per quanto riguarda il licenziamento disciplinare e discriminatorio e dalla protezione indennitaria (da due a sei mesi di salario) nel caso di licenziamento economico. È questo il periodo in cui datore di lavoro e lavoratore investono in capitale umano specifico all’azienda. Al termine del terzo anno, la cosiddetta tutela reale (reintegra) viene estesa anche ai licenziamenti economici. A questo punto per l’azienda che ha già investito nel capitale umano del lavoratore sarebbe comunque molto costoso separarsi da lui. Quindi, questa forte protezione dell’impiego non è tale da dissuadere il datore di lavoro dall’assumere il lavoratore. Al contempo, riteniamo che la durata massima del contratto a tempo determinato (Ctd) debba essere ridotta a due anni, mentre si dovrebbero aumentare i contributi per l’assicurazione contro la disoccupazione versati da chi assume con Ctd, per coprire i costi scaricati sulla collettività in termini di sussidi di disoccupazione pagati ai propri ex-dipendenti il cui contratto non sia stato rinnovato alla scadenza . Un’impresa che trasforma un contratto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato non potrà comunque fruire del periodo di prova. In questo modo, si scoraggerà l’abuso di queste figure contrattuali. I contratti temporanei saranno indirizzati soltanto a prestazioni lavorative veramente a termine, mentre il periodo di prova lungo permetterà alle imprese di decidere con maggior flessibilità l’assunzione a tempo indeterminato. Salario minimo. Coprirebbe i lavoratori oggi lasciati fuori dalla contrattazione. Rimediando a una situazione in cui i datori di lavoro hanno un potere di mercato eccessivo, potrebbe finire per creare più occupazione. Come mostrato dall’esperienza dei paesi latino-americani, non è affatto ovvio che crei lavoro nero. Contributo previdenziale uniforme. Qualunque prestazione lavorativa deve avere la stessa copertura previdenziale, indipendentemente dal tipo di contratto di lavoro, il che significa uniformare le aliquote contributive tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, a partire dai contratti a progetto. Questi standard devono garantire un’adeguata copertura previdenziale. Il legame fra contributi e pensioni future va reso più trasparente mandando a tutti i lavoratori rendiconti che documentino l’evoluzione dei propri diritti previdenziali, così come avviene in Svezia. Questo permette che contributi più alti non vengano percepiti come tasse, ma come risparmi, accantonamenti obbligatori per garantirsi una pensione adeguata. (1) Rosolia e Torrini (Rosolia, A. e Torrini, R., "Il divario generazionale", mimeo, Banca d’Italia, giugno 2005) documentano inoltre come la forbice fra salari di ingresso e salari medi, fra retribuzioni dei giovani e degli anziani si sia fortemente ampliata nell’ultimo decennio. Quale riforma per la legge Biagi Massimo Pallini Marco Leonardi I contratti "a tempo determinato" rispondono a esigenze organizzative e funzionali reali delle imprese e hanno contribuito a un effettivo aumento dell’occupazione. Un progetto di legge di riforma, quindi, non può solo limitarsi a cancellare o riorganizzare le tipologie di lavoro a tempo determinato, ma deve preoccuparsi di come soddisfare la necessaria flessibilità nell’organizzazione d’impresa. D’altra parte, questi contratti hanno scaricato tutti i costi della flessibilità e della precarietà su una minoranza di lavoratori "al margine", approssimativamente due milioni, per lo più giovani, lasciando totalmente inalterate le prerogative e i diritti di altri venti milioni circa di persone impiegate a tempo indeterminato. In questo modo, l’introduzione dei contratti a tempo determinato ha creato una sostanziale differenza di condizioni di lavoro tra lavoratori di diverse età. Tali differenze vanno eliminate. Oggi in Italia
In Italia, dal 1997 a oggi i contratti a tempo determinato di varia natura hanno dato occupazione a circa due milioni di lavoratori, il 10 per cento dell'occupazione totale e circa il 30 per cento delle nuove assunzioni. Tra i giovani dai 15 ai 29 anni, il 25 per cento degli occupati è a tempo determinato e il 50 per cento dei nuovi assunti lo scorso anno hanno un contratto a tempo determinato. Quel che è più importante, nonostante le difficoltà di valutazione dell’esatto contributo occupazionale del lavoro a tempo determinato, la maggior parte degli economisti pensa che la buona performance dell’occupazione dal 1997 ad oggi (con Governi di centrosinistra e di centrodestra) non sarebbe stata possibile in loro assenza. Vogliamo qui proporre una riforma del contratto di lavoro a tempo indeterminato. E lo facciamo partendo da un commento del progetto di legge di iniziativa popolare "contro il lavoro precario" promosso da parte dello schieramento di centrosinistra. (1) Il progetto di legge "contro il lavoro
precario"
Il progetto di legge di iniziativa popolare propone: 1) di estendere le tutele legali del lavoratore subordinato al "lavoratore economicamente dipendente", cioè a chi, pur senza essere eterodiretto nella esecuzione della prestazione della propria attività manuale o intellettuale, si obblighi a prestarla "in via continuativa all’impresa, con destinazione esclusiva del risultato al datore di lavoro"; 2) di limitare il ricorso del lavoro subordinato a termine a ipotesi oggettive per rispondere a esigenze predeterminate nel tempo e di carattere straordinario od occasionale; 3) l’abrogazione dei nuovi tipi contrattuali del lavoro intermittente, del lavoro ripartito, del lavoro a progetto e del lavoro accessorio. A nostro avviso queste proposte sono pienamente condivisibili. Si deve abbandonare la strada della flessibilità "marginale" per superare le forme di lavoro subordinato "precario". Si deve abrogare quindi la disciplina di cui al decreto legislativo 368/2001 di contratti di lavoro subordinato a termine con requisiti causali indeterminati e senza limiti di durata massima e di rinnovazione, che è stata anche fonte di incertezza per le stesse imprese, per tornare a un sistema di requisiti causali oggettivi, giustificati da esigenze aziendali predeterminate nel tempo. È opportuno altresì abrogare i nuovi tipi contrattuali che "parcellizzano" la prestazione del lavoratore senza neppure rispondere efficacemente alle esigenze di flessibilità dimensionale dell’impresa. È inoltre condivisibile adottare una nuova nozione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato "standard", che permetta di attribuire le tutele legali sinora destinate al solo lavoro subordinato anche a quei rapporti – ora tecnicamente qualificati di lavoro autonomo – che legano in modo continuativo il prestatore all’impresa quale parte necessaria della sua organizzazione, che non è semplicemente destinataria della loro prestazione, ma la internalizza nel proprio processo di produzione di beni o servizi. Ne consegue il superamento della disciplina del lavoro a progetto a causa della sostanziale impossibilità di adottare una definizione effettivamente selettiva di "progetto" e la riconduzione delle collaborazioni coordinate e continuative svolte e inserite organicamente nell’organizzazione produttiva (di beni o servizi) aziendali in modo stabile e duraturo alla disciplina legale del lavoro subordinato. In sostanza, proponiamo una nuova e più chiara ripartizione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, in coerenza con le indicazioni della Corte di giustizia europea che li distingue non in relazione al tipo di vincolo rispetto al committente (se subordinazione e coordinamento), ma rispetto alla loro posizione sul mercato, identificando sostanzialmente il lavoratore autonomo con una "impresa individuale" capace di vendere a terzi un bene o un servizio (anche professionale o consulenziale). (2) Tuttavia, a fronte dell’ampliamento dei destinatari della tutela legale del lavoro subordinato e alla riduzione delle possibilità di ricorrere a tipologie contrattuali di rapporti "a termine", rileviamo che è necessario importare margini ragionevoli di flessibilità nel nuovo tipo di lavoro a tempo indeterminato "standard", sia in entrata sia in uscita. Ripensare il contratto a tempo indeterminato
I contratti a tempo determinato hanno risposto a due esigenze delle imprese che meritano di essere ricomprese nel contratto di lavoro subordinato standard. La prima è di avere periodi di prova più lunghi per valutare i lavoratori. L’economia moderna richiede mansioni più varie e complesse di venti anni fa e di conseguenza la valutazione dei lavoratori è una attività molto più importante, lunga e costosa. La seconda è l’esigenza di avere maggiori margini di flessibilità per ridurre i costi nel caso di condizioni di domanda debole. L’economia moderna è sottoposta a cambiamenti delle condizioni di domanda molto più frequenti di un tempo, e i risultati di impresa sono di conseguenza molto più variabili. La flessibilità in entrata può ottenersi in misura ragionevole attraverso periodi di prova più lunghi al momento dell’assunzione, disciplinati liberamente dai contratti collettivi (modificando il disposto dell’articolo 10 della legge n. 604/66) e – in difetto di accordo – graduati per legge da un minimo di tre mesi per le mansioni esecutive, di sei mesi per le mansioni cosiddette d’ordine, dodici mesi per mansioni cosiddette di concetto o di collaborazione con la direzione aziendale. (3) Nel caso in cui il datore di lavoro abbia interrotto il rapporto prima del termine del periodo di prova, il successivo rapporto di lavoro stipulato da quel datore con il medesimo lavoratore dovrà ritenersi immediatamente a tempo indeterminato. La flessibilità in uscita può agevolarsi attraverso l’attribuzione al lavoratore alle dipendenze di un’impresa con più di quindici dipendenti di una "indennità economica di licenziamento", che si aggiunge al periodo di preavviso. Questa indennità si applicherebbe solo in caso di licenziamenti individuali (e non collettivi) per giustificato motivo oggettivo (e non disciplinari). L’importo dell’indennità sarebbe predeterminato per legge (ad esempio tre mensilità di retribuzione lorda più una mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità di servizio) a carico del datore di lavoro nel caso in cui il lavoratore accetti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il medesimo meccanismo di indennità è stato previsto in Germania dalla riforma Hartz del Governo social-democratico . Con l’indennità di licenziamento, il lavoratore godrebbe di una tutela economica aggiuntiva per far fronte alla carenza di reddito nel tempo necessario alla ricerca di un nuovo lavoro e l’azienda avrebbe la certezza della definitiva risoluzione del rapporto. Qualora invece il lavoratore intenda contestare la legittimità del licenziamento, sarebbe comunque libero di impugnarlo giudizialmente, rimanendo inalterato rispetto alla disciplina attuale sia l’onere della prova della giustificatezza del licenziamento a carico del datore, sia il regime di reintegrazione e risarcimento del danno in caso di annullamento del licenziamento. Ciò significa che la disciplina sanzionatoria dettata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non viene modificata, si interviene invece in una fase anteriore prevedendo un’opzione prevista per legge di indennizzo monetario per evitare il contenzioso. Rimarrebbe invece del tutto invariato il regime di impugnativa e di tutela dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo (disciplinare) e dei licenziamenti collettivi. Il meccanismo funzionerebbe in questo modo: all’atto del licenziamento per motivo oggettivo il datore di lavoro deve offrire al lavoratore l’indennità prevista per legge. Il lavoratore può non accettarla e impugnare davanti al giudice il licenziamento, ma in questo caso perde il diritto all’immediata erogazione dell’indennizzo, potendo invece ottenere in caso di accoglimento del suo ricorso in sede giudiziale la condanna del datore alla reintegra e al risarcimento del danno. (4) Infine, occorre sottolineare che, sebbene condividiamo l’obiettivo di estendere le tutele legali del lavoro subordinato anche alle forme di collaborazione coordinata e continuativa, ciò non deve necessariamente significare l’automatica estensione a quest’ultime delle previsioni dei contratti collettivi sottoscritti per i lavoratori subordinati, soprattutto in materia di retribuzione minima, orario di lavoro, fruizione di permessi e ferie. Nel caso della nuova tipologia di lavoratori "coordinati", cui si applicherebbe la disciplina legale del lavoro subordinato, il datore di lavoro rinuncia totalmente o parzialmente ad avvalersi dei poteri di eterodirezione e di variazione dei tempi, dei modi e del luogo della prestazione individuale. Ma questo non deve inibire per legge, come invece prevede la proposta sul lavoro precario, la possibilità della contrattazione collettiva di dettare una disciplina negoziale differenziata per i "coordinati" rispetto ai lavoratori subordinati in senso stretto. Ad esempio, tale disciplina negoziale deve poter prevedere minimi retributivi differenziati per i "coordinati", anche in senso peggiorativo per compensare i minori obblighi e restrizioni cui sono soggetti nell’esecuzione della prestazione di lavoro. Ciò in analogia a quanto già oggi è previsto dal Ccnl dei giornalisti professionisti che differenzia la retribuzione tra coloro che lavorano stabilmente nella redazione e i collaboratori non vincolati all’osservanza di un orario di lavoro e alla presenza quotidiana in redazione, i quali a fronte di maggior autonomia personale accettano un sistema retributivo meno generoso. Questa riforma non comporta alcun onere aggiuntivo per il bilancio pubblico e ci pare possa garantire una sostanziale semplificazione: il lavoro oggi considerato precario verrebbe ricondotto nell’ambito del lavoro subordinato e quest’ultimo reso un po’ più flessibile. Il sindacato potrebbe allargare la sfera di rappresentanza e di contrattazione anche ai lavoratori oggi esclusi. Il lavoro a tempo determinato rimarrebbe solo per requisiti causali determinati e giustificati da esigenze limitate nel tempo. (1) Il progetto di legge di iniziativa popolare "contro il lavoro precario", primo firmatario Stefano Rodotà, è sostenuto dalla "sinistra" dei Democratici di sinistra. http://www.precariarestanca.it/proposta-di-legge/ (2) Vedi. M.Pallini (a cura), Il lavoro a progetto in Italia e in Europa, Mulino, 2006, di prossima uscita. (3) Vedi T. Boeri- P. Garibaldi in lavoce.info (4) L’accettazione dell’indennizzo dovrà essere sottoscritta dal lavoratore nelle forme rituali di cui all’art. 410 e 411 c.p.c. così che sia garantita l’assistenza di un rappresentante sindacale aziendale o del collegio di conciliazione che possano accertare la piena conoscenza del lavoratore dei propri diritti e delle conseguenze della sua scelta. Dagli slogan all'agenda politica Paolo Sestito Il programma politico di chi ha vinto le elezioni parlava di superamento della legge Biagi. (1) Il superamento, come hanno ormai più volte dichiarato anche i maggiori critici di quella legge, non significa abrogazione e quindi puro e semplice ripristino della situazione pregressa: un indirizzo legislativo reso oggettivamente problematico dalla miriade di accordi, contratti e accadimenti nel mercato del lavoro che già avevano fatto uso di quella legge, e comunque più simbolico che effettivo, a fronte dei problemi della precarietà in buona parte preesistenti rispetto a quella legge. Pur volendosi distinguere dal completamento della legge Biagi – che era lo slogan della parte che le elezioni ha perso, forse anche perché quel completamento a mezzo di più decorosi ammortizzatori sociali aveva sempre rimandato – il superamento sembra perciò qualificarsi, in positivo, come un’agenda di policy che voglia affrontare la questione della precarietà nel mercato del lavoro, un problema che è oggettivo, predata la legge Biagi e che è forse però stato ingigantito, nella percezione degli interessati, dalla scarsa attenzione che vi ha prestato il policy maker. Anche se questo graduale uscire dalla pura polemica elettorale è di per sé positivo, rimane però ancora da capire come, al di là del titolo e dell’obiettivo generale, quell’agenda possa essere affrontata. La tesi di chi scrive è che il punto non sia tanto quello di abbinare al completamento della legge Biagi l’eliminazione di quelli che taluni ritengono essere i suoi "eccessi", ridimensionando le flessibilità consentite dal legislatore alle imprese. I veri nodi sono sul come potenziare gli ammortizzatori sociali e sul come regolare le flessibilità. Come potenziare gli ammortizzatori
sociali
Veniamo al primo punto. Estendere l’esistente regime degli ammortizzatori sarebbe costoso e inefficiente. Forse anche per questo i Governi passati hanno sempre rimandato il potenziamento degli ammortizzatori sociali, perché ai rinvii dell’ultima legislatura fanno da pendant le vicende della penultima, quando si arenarono gli indirizzi della Commissione Onofri e i Governi di centrosinistra non utilizzarono una apposita delega conferita dal Parlamento nel 1999. Occorre quindi ridisegnare gli strumenti, accrescendo l’equità – assente nell’attuale regime, segmentato oltre che sottodimensionato – evitando di far esplodere la spesa (oggi si spende lo 0,6 per cento del Pil a fronte di una media dell’ Unione europea di circa il 2 per cento) e le distorsioni nel mercato del lavoro. Ridisegnare richiede perciò di definire sussidi, e schemi di finanziamento degli stessi, che ne scoraggino l’uso prolungato e ripetuto nel tempo, da parte delle imprese (quando licenziano o quando vengono meno dei contratti a termine) e da parte dei lavoratori. Ridisegnare significa anche "attivare" i beneficiari dei sussidi – sostenendoli e controllandoli nella ricerca di un nuovo lavoro - indirizzando in tal senso quei servizi pubblici per l’impiego che, a dieci anni dall’avvio di un assieme di riforme che hanno aperto il campo agli operatori privati e passato parte prevalente delle competenze pubbliche al livello regionale (e provinciale), sono ancora in mezzo ad un guado e privi di una mission pregnante. (2) Nonostante la continuità sostanziale delle direttrici di riforma in tutto il decennio si è infatti ancora molto indietro: permangono ambiguità nelle interazioni tra privati e pubblico, le cui specificità sono trascurate tanto in quelle realtà regionali che immaginano di legittimare i primi solo nell’ambito di quanto programmato dal secondo, quanto in quelle dove si immagina che non vi siano affatto distinzioni tra gli uni e l’altro. Rischia così di essere trascurata la difesa della contendibilità del mercato degli intermediari privati e di non svilupparsi quella mission specifica dell’operatore pubblico di gestione, controllo e attivazione dei beneficiari di sussidi, una mission che tra l’altro, pur dovendo adattarsi ai diversi territori e potendo prevedere meccanismi di outsourcing sulla falsariga di quanto sperimentato in altri paesi, ad esempio Australia e Olanda, è intrinsecamente nazionale. Regolare la flessibilità
Rilevante è però anche il secondo punto. La legge Biagi è una legge complessa, il dettaglio dei cui effetti colpevolmente non è stato a sufficienza monitorato ed esaminato, come invece sarebbe necessario, per individuare gli eventuali eccessi e le parti che, più banalmente, hanno girato ben poco e quindi non hanno prodotto miracoli ma neppure guasti. Il vero punto generale, strategico, non è però il giudizio sui singoli istituti contrattuali introdotti o toccati dal legislatore (o sul loro mero numero), ma quello sull’opportunità di regolare nel dettaglio, più avverso la flessibilità o più a favore di questa e quindi consentendo poche o tante deroghe al contratto standard. Questa è stata la modalità tradizionale per introdurre quelle flessibilità richieste dalle imprese, e che pur con indubbi meriti storici, specie al suo avvio, è stata portata ai suoi estremi con la legge Biagi. Si sono così ampliate le flessibilità, ma anche i rischi insiti in quell’approccio, in termini di segmentazioni nel mercato del lavoro, di distorsioni nella scelta dei moduli organizzativi da parte delle imprese, di "complessificazione" delle regole, a beneficio dei consulenti ancor più che delle imprese. Al di là di pregi e difetti delle singole previsioni della legge Biagi, la questione strategica è se quell’approccio non abbia fatto il suo tempo. Da questo punto di vista, non si tratta tanto di discutere se e quanto ridurre le singole flessibilità introdotte, quanto di stabilire come regolare il sistema. Più proficuo ed atto a evitare i problemi prima detti sarebbe i consentire la flessibilità, ma calmierandone l’uso con un costo aggiuntivo, ad esempio tenendo conto, in una logica assicurativa, del maggior ricorso ad ammortizzatori sociali che è insito nel lavoro a termine. O per venire ad un altro esempio, quello delle collaborazioni coordinate e continuative (che la legge Biagi ha cercato di comprimere e non ha certo ampliato), il quesito è se sia più proficuo dettagliare le condizioni di esperibilità delle stesse, più o meno restrittivamente, o allineare i costi contributivi delle diverse modalità organizzative del lavoro, evitando un ricorso distorsivo alle collaborazioni e altre fattispecie, così affrontando anche la questione dell’inadeguatezza dei futuri trattamenti previdenziali dei cosiddetti parasubordinati. * Le opinioni qui espresse sono esclusivamente personali. (1) Per l’esattezza della legge 30, detta anche legge Maroni, il rifiuto dell’attribuzione a Marco Biagi della paternità di quella legge essendo anch’esso parte dello scontro semantico tra le opposte coalizioni politiche. Se devo esprimere un parere, la polemica sul nome mi pare futile – perché la paternità di Marco Biagi né migliora e né peggiora la qualità della legge e questo era un concetto ben presente a un pragmatico come Marco Biagi – e pretestuoso – perché fattualmente molto della legge risale a proposte abbozzate da Marco Biagi, che però non ha potuto vedere quei dettagli finali che sono sempre decisivi. (2) La tematica in questione è meglio trattata in S. Pirrone e P. Sestito, Disoccupati in Italia. Tra Stato, Regioni e cacciatori di teste, il Mulino, dedicato proprio all’interazione tra politiche attive e passive del lavoro ed alla trasformazione ed al ruolo dei servizi per l’impiego e che però contiene anche un capitolo dedicato alle tante fattispecie contrattuali toccate dalla legge Biagi. Ragioniamo sui dati Sandro Trento Anita Guelfi La legge 30/2003 di riforma del mercato del lavoro ("legge Biagi") è stata ritenuta da parte di alcuni la principale responsabile della presunta precarizzazione dei rapporti di lavoro in Italia. La verità è che, ad oltre tre anni dalla sua approvazione, non esistono ancora informazioni sufficientemente adeguate e dettagliate per poter valutare i suoi effetti sul mercato del lavoro. L’indagine Confindustria
Consapevole di questa lacuna, nel 2005 Confindustria ha promosso un’indagine presso le proprie imprese associate per raccogliere informazioni sul primo anno di utilizzo degli strumenti della nuova legge. All’indagine, riferita al 2004, hanno partecipato oltre duemila imprese con circa 560mila lavoratori alle dipendenze. Pur essendo rivolta prevalentemente al settore industriale, la rilevazione ha coinvolto anche alcune importanti realtà del terziario: 217 imprese con circa 131mila addetti. Obiettivi principali dell’indagine sono stati: a) verificare se e in quale misura le aziende intervistate hanno utilizzato le forme contrattuali previste dalla legge Biagi; b) valutare l’esistenza e l’entità dei rapporti di lavoro di natura precaria chiedendo alle imprese non solo il numero e la tipologia contrattuale delle assunzioni effettuate nell’anno, ma anche il numero di trasformazioni a tempo indeterminato di precedenti contratti di diversa natura. L’utilizzo delle forme di flessibilità contrattuale dopo la legge Biagi L’indagine Confindustria ha raccolto informazioni sulla propensione delle imprese sia verso le forme contrattuali introdotte ex novo dalla legge - lavoro condiviso, lavoro a chiamata, staff leasing, contratto d’inserimento) - sia verso quelle tipologie che, già esistenti nel nostro ordinamento, sono state modificate o ridefinite dalla nuova normativa - part-time, collaborazioni a progetto, somministrazione a tempo determinato, apprendistato. (1) Le informazioni raccolte indicano, nel 2004, un utilizzo poco più che marginale di quelle forme contrattuali nuove, quali il lavoro a chiamata, lo staff leasing e il lavoro condiviso. (2) Anche il ricorso al contratto d’inserimento è stato molto contenuto: 1,3 per cento del totale addetti. Nel 2004, naturalmente, l’utilizzo di queste tipologie è stato limitato da un lato dalla scarsa conoscenza delle innovazioni contrattuali da parte delle imprese, dall’altro dall’assenza della necessaria disciplina di dettaglio. (3) Un problema analogo riguarda i rapporti di apprendistato: grazie alle novità introdotte dalla legge 30, rappresentano uno dei principali punti di forza della riforma dal punto di vista dell’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro e il mancato decollo nel 2004 (0,4 per cento sul totale addetti) va principalmente imputato ai ritardi nella emanazione delle disposizioni applicative da parte delle Regioni. Maggiore è risultata invece l’adozione di quegli strumenti normativi che, pur ridefiniti dalla nuova disciplina, erano già noti e utilizzati da tempo. Si tratta innanzitutto dei contratti di somministrazione a termine (ex lavoro interinale) che, nel 2004, hanno riguardato un numero di ore lavorate corrispondenti, in termini di lavoratori equivalenti a tempo pieno, all’1,4 per cento degli addetti. Rilevante appare anche l’utilizzo dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa e della nuova forma dei contratti a progetto, il cui ricorso (circa 7.600 persone nel 2004) risulta guidato principalmente dall’esigenza di disporre di risorse qualificate da dedicare ad attività specialistiche ad alto contenuto professionale: il 59 cento dei collaboratori ha infatti più di 50 anni d’età, mentre il 73 per cento risulta in possesso di un titolo di studio superiore (46,1 per cento diplomati; 27,4 per cento laureati). Struttura dell’occupazione e comportamenti di assunzione delle imprese I dati raccolti indicano una struttura occupazionale stabilmente ancorata ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato (oltre il 90 per cento dell’organico aziendale), che rappresentano la forma contrattuale di gran lunga prevalente. Riguardo ai flussi di assunzione, su un totale di circa 50mila assunzioni effettuate, nel 50 per cento dei casi si tratta di contratti a tempo indeterminato, seguiti da quelli a tempo determinato (39 per cento), formazione-lavoro/inserimento (9 per cento) e apprendistato (2 per cento). Poco meno della metà delle persone assunte come lavoratori dipendenti cominciano quindi a lavorare con un contratto di tipo flessibile; il dato appare sostanzialmente coerente con i risultati diffusi a marzo dalla Banca d’Italia sulla base delle informazioni tratte dall’indagine Istat sulle forze di lavoro. (4) L’analisi della Banca d’Italia è stata malamente interpretata e utilizzata da alcuni osservatori come prova inconfutabile delle condizioni di precarietà del mercato del lavoro italiano. In realtà, per poter parlare di precarizzazione dei rapporti di lavoro non è sufficiente guardare alla quota di persone che iniziano a lavorare con un contratto a termine, ma occorre anche sapere se, alla scadenza del contratto, si procederà o meno ad una trasformazione a tempo indeterminato. I dati Istat pubblicati dalla Banca d’Italia non affrontano direttamente questo secondo punto e non consenteno quindi di trarre conclusioni. Qualche informazione in tal senso può invece desumersi dall’indagine Confindustria: poco meno della metà dei contratti a termine è stata trasformata in contratti a tempo indeterminato nel corso dell’anno. (5) Ciò significa che mediamente un lavoratore assunto a termine ha la prospettiva di diventare a tempo indeterminato entro due anni. L’indagine mostra inoltre che le imprese fanno ampio ricorso ai contratti a termine come bacino da cui selezionare i futuri contratti a tempo indeterminato: oltre la metà (53 per cento) delle assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel 2004 è infatti in realtà una trasformazione di un precedente contratto di natura temporanea. In particolare, le conversioni hanno riguardato prevalentemente i lavoratori inizialmente assunti con contratto a tempo determinato (48 per cento) e di formazione-lavoro/inserimento (37 per cento ), ma anche ex lavoratori interinali (10 per cento), ex apprendisti (3 per cento) ed ex collaboratori autonomi (2 per cento). L’indagine indica anche che il 54 per cento delle trasformazioni riguarda lavoratori in possesso di un titolo di studio superiore (40 per cento diplomati; 14 per cento laureati). La percentuale di lavoratori con titolo di studio superiore diventa nettamente più elevata (38 per cento con laurea) nel caso di assunzioni a tempo pieno e indeterminato di lavoratori che entrano invece per la prima volta in azienda. Le imprese esaminate, quindi, preferiscono assumere a tempo indeterminato persone che, in qualche misura, risultano già formate o che comunque possono essere "sperimentate" per un adeguato periodo di tempo prima di essere assunte definitivamente. Si tratta di un risultato che conferma precedenti evidenze empiriche. (6) In conclusione, i dati raccolti dall’indagine Confindustria sembrano smentire la tesi che identifica i lavori a termine con i lavori precari, almeno per quanto riguarda il settore industriale che è quello prevalentemente coperto dall’indagine. Inoltre, come ha sottolineato recentemente Pietro Ichino sul Corriere della Sera, non è corretto accusare la legge di aver dato vita all’utilizzo di forme contrattuali flessibili per l’ingresso di nuovi lavoratori in azienda. (7) Qualche passo avanti nella valutazione degli effetti della riforma del 2003 potrà comunque essere fatto nei prossimi mesi, quando saranno resi noti i risultati della seconda edizione dell’indagine Confindustria sull’utilizzo della legge Biagi nel 2005. * Centro Studi Confindustria. Le opinioni qui espresse non impegnano necessariamente Confindustria. (1) Per i dettagli si veda Centro Studi Confindustria, "L’utilizzo nel 2004 degli strumenti normativi introdotti dalla legge 30/2003", gennaio 2006, http://www.confindustria.it/AreeAtt/DocUfPub.nsf/All/43. (2) Solo il 2,2 per cento delle aziende intervistate afferma di aver fatto ricorso ad almeno una di queste tipologie lavorative nel corso dell’anno. (3) È il caso, ad esempio, dello staff leasing che è divenuto operativo solo nel corso del 2004. Il 2004 è stato inoltre un anno di rallentamento dell’economia ed ha condizionato negativamente la dinamica occupazionale di molte imprese. (4) Vedi Banca d’Italia, Bollettino economico, marzo 2006. (5) Va in ogni caso ricordato che l’indagine Confindustria non è, per sua natura, rappresentativa dell’intera realtà nazionale essendo il frutto della partecipazione (su base volontaria) delle sole imprese associate. (6) Vedi Cipollone-Guelfi (2003), "Tax Credit Policy and Firms’Behaviour: The Case of Subsidies to Open-end Labour Contracts in Italy", Banca d’Italia, Temi di discussione n.471, March. (7) Vedi Ichino P., "Ma i precari non crescono", Corriere della Sera, 26 aprile 2006. |
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