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gino strada: metà del pianeta vive in schiavitù
- Subject: gino strada: metà del pianeta vive in schiavitù
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 11 Feb 2006 06:27:12 +0100
da unità giovedi 9 febbraio 2006
Intervista
a cura di Marina Mastroluca 08.02.2006 «Metà del pianeta vive in schiavitù» «Metà dell'umanità vive in condizioni di schiavitù, è questa la vera emergenza». Le infila una dietro l’altra, parole asciutte e dure, senza fronzoli, senza vie traverse che lascino una scappatoia a chi non vuol sentire. Gino Strada si imbarca in una nuova impresa, che si declina al futuro e ha tutti gli ingredienti per sembrare un’eresia: un centro di cardiochirurgia nel cuore nero dell’Africa, un ospedale d’eccellenza che servirà dieci paesi dove oggi non c’è che una sanità di risulta: quella che i paesi ricchi pensano che basti ai paesi poveri, «quattro medicinali, anche scaduti» e via andare. Un’eresia, quella di Emergency, di provare ad innestare «il meglio del meglio della nostra medicina» dove si muore per molto meno che una cardiopatia. «Diritto al cuore» è lo slogan della campagna, che si è portata dietro nomi importanti di specialisti italiani, come Ennio Mazzera, che ha lasciato il suo posto di primario dell’ospedale Bambino Gesù di Roma per andare a Khartoum. «Lo faccio per me - dice Mazzera - un’esperienza così ti dà tanto. È così che si costruisce la pace». Allora Gino Strada, Emergency prima a Kabul e Baghdad, oggi in Sudan. Dov’è la vera emergenza umanitaria ora? «L’emergenza oggi coinvolge dalla metà ai due terzi del pianeta. Siamo in un mondo in cui metà della popolazione vive in schiavitù, perché non si può chiamare altrimenti la condizione di chi vive con uno o due dollari al giorno e non ha accesso a nulla, nemmeno al cibo sufficiente per campare. L’emergenza poi si allarga a macchia d’olio anche nei cosiddetti paesi ricchi, dove le diseguaglianze tra classi sociali - io le chiamo ancora così - si fanno sempre più marcate. C’è poi un terzo livello, meno evidente, ed è quello della guerra: ormai sempre più spesso si parla dell’uso di armi nucleari come di una possibilità concreta, dichiarata, come ha fatto Bush. È tutto il pianeta che è a rischio». Una visione catastrofista. «Non è la mia, le previsioni catastrofiche le hanno fatte prima di me fior di scienziati nucleari. Quello che vedo io è che a fronte di questo rischio sempre più grave, ci si dimentica di certe parole come disarmo, come denuclearizzazione: nessuno ne parla più, né a destra né a sinistra, come se fossero state abolite dal vocabolario. Oggi si preferisce parlare di democrazia e libertà. Con un bel po’ di confusione in proposito». Emergency non ha nascosto la sua ostilità alla guerra preventiva o
umanitaria che fosse, attirandosi anche critiche di radicalismo. Ci sono state
ricadute negative?
«Fino al 2001 ci siamo limitati a curare le vittime dei conflitti. Poi abbiamo cominciato a dire no alla guerra, che produceva quelle vittime. E questo ci ha attirato critiche e censure bipartizan, che ci sono costate in termini di una minore visibilità. Di noi si dice che siamo sinistra radicale - un’espressione che io non so neanche che cosa significhi - e non che in tutti questi anni abbiamo curato 1.800.000 persone. Una goccia, è vero, ma bella grossa». Che mondo è quello visto attraverso una sala operatoria? Che cosa è
cambiato a Kabul o a Baghdad in questi anni?
«È l’altra faccia della guerra, che non è mai finita né in Afghanistan, né tanto meno in Iraq. Se penso a Kabul io vedo una città disastrata e militarizzata, con reticolati e barriere da per tutto. E fuori dalla capitale, lo stesso di sempre. Il presidente Karzai in Afghanistan è chiamato il sindaco di Kabul». Perché la decisione di passare dalla chirurgia d’emergenza ad un centro
d’eccellenza cardio-chirurgico?
«Il fatto è che o i diritti umani vengono costruiti e spartiti tra tutti gli uomini o ci sarà sempre guerra. Perciò non possiamo più accettare l’idea di una medicina sofisticata destinata ai soli ricchi, mentre agli altri non restano che gli avanzi: che si accontentino di curarsi la diarrea, la febbre, le cure avanzate non sono per loro. Che è come dire che non consideriamo queste persone come noi, persone con i nostri stessi diritti». Come è maturato questo salto?
«Avevamo bisogno di staccarci dall’emergenza, per dare un segnale di rottura. È un percorso derivato da ciò che abbiamo visto. In tutti i paesi in guerra la sanità è sempre privata: ti curi solo se hai soldi per farlo. Noi di Emergency crediamo invece che la sanità debba essere per definizione d’alto livello, pubblica e gratuita, estranea alla logica del profitto che crea l’assurdo del medico che produce malattie, anziché curarle. Ecco, io vorrei andarmene un giorno sapendo che ho salvato quante più vite possibile». Perché questa scelta di vita?
«Non c’è un perché. Le cose si fanno perché devono essere fatte». |
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