manuale della sostenibilità



da ambiente italia gennaio 2006
 
Manuale della sostenibilità
Idee, concetti, nuove discipline capaci di futuro
Gianfranco Bologna
2005 - pagine 336 - euro 20,00 - ISBN 88-89014-20-2

Che cos’è la Sustainability Science? Questa formula definisce lo
straordinario laboratorio di idee, indagini e teorie innovative che sono
confluite in una nuova scienza transdisciplinare che sta trasformando la
nostra visione del mondo.
La sostenibilità è un approccio radicalmente diverso da quello che ha
guidato la scienza e la politica fino a pochi anni fa. È un modello di
pensiero che cerca di integrare la civiltà contemporanea con la complessità
della natura e propone un’idea credibile di “sviluppo”, in opposizione al
mito della “crescita” a tutti i costi.
Per affrontare questa sfida e indicare soluzioni concrete, studiosi di
tutto il mondo analizzano i processi naturali insieme a quelli sociali,
economici e produttivi, alla luce della complessa rete di relazioni
reciproche che caratterizza il “sistema chiuso” del nostro pianeta.
Il loro lavoro rinnova alcuni paradigmi scientifici, ma soprattutto rimette
in discussione l’attuale uso indiscriminato delle risorse, i modelli di
scambio economico, gli stili di vita, l’organizzazione della società e
delle istituzioni, le formule della governance.
L’autore ricostruisce il significato che il termine “sostenibilità” ha
assunto negli anni più recenti, partendo dalle idee e dai concetti che ne
hanno tracciato la storia per arrivare alle nuove discipline scientifiche
che ne disegnano la prospettiva. Il percorso si sviluppa attraverso
argomenti disciplinari diversi, citazioni, esempi, in un mosaico ampio e
documentato che restituisce tutta la ricchezza del dibattito in corso.
A chiusura del volume, l’approfondimento di due casi di portata globale: il
cambiamento climatico e il progressivo impoverimento della diversità
biologica.
Gianfranco Bologna è direttore scientifico e culturale del WWF Italia e
segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, sezione italiana del
Club di Roma. Dal 1999 è docente alla Scuola di Specializzazione in
gestione dell’ambiente naturale e delle aree protette (oggi laurea
specialistica) all’Università di Camerino dove insegna gestione delle
risorse naturali e sostenibilità dello sviluppo. Ha scritto diversi libri
sulla natura e sullo sviluppo sostenibile e dal 1988 è curatore dell’edizione
italiana del famoso rapporto State of the World del Worldwatch Institute.
Esperto non governativo del governo italiano alla Conferenza ONU su
ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro (1992) e del Summit mondiale ONU
sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg (2002).

L'uomo, una nuova forza geofisica

Nel 1957, in un lavoro apparso sulla rivista scientifica Tellus, due
esperti di geofisica, Roger Revelle e Hans Suess, per esprimere la portata
dei grandi cambiamenti prodotti dalla nostra specie si servirono di una
frase poi diventata famosa: “Così gli uomini stanno compiendo un
esperimento di geofisica su larga scala, di un tipo quale non avrebbe mai
potuto effettuarsi in passato, né potrebbe essere ripetuto in avvenire”.
(…)
Edward Wilson ha affermato che “poche persone osano dubitare che il genere
umano si sia creato un problema di dimensioni planetarie. Anche se nessuno
lo desiderava, siamo la prima specie a essere diventata una forza geofisica
in grado di alterare il clima della Terra, ruolo precedentemente riservato
alla tettonica, alle reazioni cromosferiche e ai cicli glaciali. Dopo il
meteorite di dieci chilometri di diametro che 65 milioni di anni fa
precipitò nello Yucatan ponendo fine all’era dei rettili, i più grandi
distruttori della vita siamo noi. Con la sovrappopolazione ci siamo creati
il pericolo di finire il cibo e l’acqua. Ci attende dunque una scelta
tipicamente faustiana: accettare il nostro comportamento corrosivo e
rischioso come prezzo inevitabile della crescita demografica ed economica,
oppure rianalizzare noi stessi e andare alla ricerca di una nuova etica
ambientale”.
Anche John McNeill, storico alla Georgetown University, scrive nella sua
lucida analisi della storia dell’ambiente del XX secolo:
“Inconsapevolmente, il genere umano ha sottoposto la Terra a un esperimento
non controllato di dimensioni gigantesche. Penso che, con il passare del
tempo, questo si rivelerà l’aspetto più importante della storia del XX
secolo: più della Seconda guerra mondiale, dell’avvento del comunismo, dell’alfabetizzazione
di massa, della diffusione della democrazia, della progressiva
emancipazione delle donne”.
La testimonianza del biologo Stephen Palumbi, dell’Università di Stanford,
mostra con numerosi esempi eloquenti come l’intervento della nostra specie
stia accelerando i ritmi dell’evoluzione biologica, soprattutto tra le
specie con cui viviamo a più stretto contatto: quelle che costituiscono i
nostri alimenti e i nostri parassiti. Palumbi scrive: “Il nostro impatto
sull’evoluzione è aumentato con i farmaci, con il controllo chimico dei
parassiti e la capacità di plasmare l’ambiente fisico e biologico per
soddisfare i nostri bisogni. Così, siamo diventati la forza evolutiva più
potente della Terra. A parte forse il meteorite che si ritiene abbia
provocato l’estinzione dei dinosauri, siamo i migliori candidati a vincere
la medaglia d’oro per lo sconquasso planetario, il giorno che sarà
considerato ufficialmente uno sport da Olimpiadi”. (...)
La questione centrale per il nostro presente e l’immediato futuro è questa:
come riuscire a vivere sulla Terra con una quantità di esseri umani che ha
già superato i sei miliardi di individui (e che potrebbe superare i dieci
miliardi entro questo secolo), in maniera dignitosa ed equa per tutti,
senza distruggere irrimediabilmente i sistemi naturali da cui traiamo le
risorse per vivere e senza oltrepassare la capacità di questi stessi
sistemi di sopportare gli scarti e i rifiuti provenienti dalle nostre
attività produttive.
Non sembrano esservi dubbi sul ritenere questo l’aspetto centrale da
risolvere per l’immediato futuro di tutte le società umane del pianeta,
ormai completamente interconnesse nella globalizzazione economica e
culturale. Nonostante ciò, la stragrande maggioranza dei politici, degli
economisti, dei pianificatori e degli imprenditori continua a concentrare
la propria attenzione, e l’agenda delle priorità, sulla corsa alla crescita
economica, materiale e quantitativa, che, nonostante gli avanzamenti della
tecnologia, continua a erodere la base dei sistemi naturali, a modificarli,
a distruggerli e inquinarli e, nell’ambito dei sistemi sociali, ad
aggravare l’iniquità sociale e a incrementare le differenze tra i ricchi e
i poveri del pianeta.
Si sono moltiplicati i vertici internazionali sul tema, si sta creando una
vera e propria normativa sovranazionale di carattere ambientale fatta di
convenzioni, trattati, protocolli e direttive, ma manca ancora la
consapevolezza che questi problemi possono essere risolti solo con una vera
e propria “rivoluzione culturale” rispetto ai nostri modi obsoleti di
concepire i sistemi economici, quelli sociali e quelli naturali.
Una rivoluzione che, come ha più volte ricordato Lester Brown, dovrebbe
avere una portata paragonabile alle due grandi precedenti rivoluzioni dell’umanità,
quella agricola e quella industriale.

Sviluppo sostenibile

Negli ultimi anni si è ormai diffusa una formula che, al solo utilizzarla
verbalmente, sembra poter fornire la soluzione ai tanti e gravi problemi
esistenti nel rapporto tra i sistemi naturali e la nostra specie: si tratta
per l’appunto di “sviluppo sostenibile”.
È una espressione ormai abbondantemente abusata in ogni contesto,
soprattutto in ambito politico ed economico. A volte dichiaratamente con
funzioni di copertura: come se, parlando di “sviluppo sostenibile” o
citando il termine “sostenibilità”, fosse automaticamente possibile
azzerare o assolvere gli impatti di qualunque attività contrassegnata da
questo attributo.
Mantenere nella vaghezza i pur difficilissimi contorni concettuali di
questa formula e non confrontarsi con i problemi concreti che derivano dall’attuazione
della sostenibilità nei nostri processi di sviluppo significa procedere a
un’azione ingiustificata dal punto di vista scientifico e scorretta dal
punto di vista sociale, economico e politico.
Pertanto diventa sempre più indispensabile un’azione profonda e critica di
analisi del concetto di sostenibilità dello sviluppo, alla luce di tutti i
limiti emersi nel dibattito degli anni più recenti.
Innanzitutto è evidente che i sistemi produttivi e di consumo di una
società futura - la cui necessità e desiderabilità si impone alla luce dell’attuale
situazione ambientale, economica e sociale - saranno diversi da quelli che
sino a oggi abbiamo conosciuto.
La prospettiva della sostenibilità mette inevitabilmente in seria
discussione il nostro attuale modello di sviluppo socioeconomico. Nei
prossimi decenni dovremo essere capaci di passare da una società in cui il
benessere e la salute economica sono misurati in termini di crescita della
produzione e dei consumi materiali a una società in cui si sia capaci di
vivere meglio consumando molto meno, evitando la dilapidazione dei sistemi
naturali, e quindi del capitale naturale, e sviluppando l’economia
riducendo gli attuali input di energia e materie prime. (…)
Il termine sostenibilità - perlopiù riassunto impropriamente nella formula
“sviluppo sostenibile” - si è andato diffondendo negli anni Ottanta perché
nell’ambito della comunità internazionale, in particolare nelle Nazioni
Unite, appariva sempre più evidente che il concetto di sviluppo, così
strettamente legato a quello di crescita (soprattutto crescita economica,
intesa come incremento del prodotto pro capite), aveva causato una
situazione di profonda incompatibilità con gli equilibri dinamici dei
sistemi naturali. Lo sviluppo economico non è sostenibile perché ha
profondamente minato i processi ecologici di base, compromettendo, di
fatto, la base essenziale per la sopravvivenza della popolazione umana.
La crescita economica ha promesso di creare abbondanza, benessere e
rimozione dei fattori di povertà, ma aggredendo le risorse naturali e gli
equilibri dinamici degli ecosistemi ne ha profondamente minato le basi
rigenerative e le capacità assimilative e, soprattutto nei paesi poveri, è
diventata sempre più causa di povertà e scarsità.
Ogni azione umana determina, da un lato, un’acquisizione/sottrazione di
risorse dall’ambiente e dall’altro l’emissione/rilascio di vari agenti di
scarto dovuti all’azione stessa (sostanze liquide, solide, gassose, rumori
ecc.). È un dato di fatto che il nostro sistema economico e produttivo
determina un utilizzo delle cosiddette “sources” (sorgenti) e dei
cosiddetti “sinks” (serbatoi) dei sistemi naturali che, per quanto emerge
dalla più recente documentazione scientifica, risulta insostenibile.
Nessuna persona di buon senso può ritenere di procedere sulla strada del
modello di sviluppo socioeconomico sin qui perseguito, immaginando di
garantire un livello di consumi equivalente a quello statunitense o europeo
a tutti gli attuali oltre 6 miliardi di abitanti del pianeta o agli 8-9
miliardi previsti entro i prossimi cinquant’anni.
È assolutamente inevitabile - e vorrei dire obbligatorio - trovare
soluzioni differenti dalle attuali, percorsi alternativi, un’altra e
diversa cultura dello sviluppo; pena la nostra stessa sopravvivenza come
specie. E in quest’ambito il concetto di sostenibilità può essere
certamente la base per delineare le nuove strade possibili.
La comprensione del dibattito sulla sostenibilità, e la sua stessa
praticabilità, ruotano attorno ad alcuni principi fondamentali:
• forte interdisciplinarietà, che certamente costituisce una sfida
difficile quanto indispensabile per arrivare a modificare lo stato attuale
delle cose;
• ampia flessibilità del concetto, che necessita tuttavia di precisi
“paletti” entro i quali cercare di definire i percorsi di sostenibilità;
• grande apertura a tutta la gamma di conoscenze e tradizioni umane, nella
straordinaria ricchezza delle culture presenti sulla nostra Terra, da cui
poter attingere per individuare i percorsi alternativi possibili;
• riferimento continuo ai migliori avanzamenti scientifici disponibili, per
aiutare a individuare le strade alternative concretamente praticabili;
• approccio sistemico integrato, che tiene in conto la consapevolezza che
il tutto è qualcosa di più rispetto alle singole parti che lo compongono.

Nel laboratorio della Sustainability Science

Sustainability Science indica una convergenza transdisciplinare di
riflessioni e ricerche derivanti da discipline diverse, che cercano di
analizzare le interazioni dinamiche tra i sistemi naturali, sociali ed
economici e di comprendere i modi migliori per “gestirle”. La sua forza
innovativa risiede in un cambiamento radicale della visione del mondo: da
un lato promuovere forme di conoscenza compatibili con un’irriducibile
incertezza; dall’altro individuare nuovi principi, metodologie e strumenti
per intervenire concretamente nei sistemi complessi senza comprometterne il
delicato equilibrio. (…)
Le discipline che costituiscono la base necessaria per questo approccio
sono quelle delle scienze ecologiche (ma anche fisiche e naturali in senso
più ampio come, ad esempio, la fisica dei sistemi complessi), delle scienze
economiche e delle scienze sociali.
In particolare si fa riferimento alla biologia della conservazione
(Conservation Biology), all’economia ecologica (Ecological Economics), all’ecologia
del paesaggio (Landscape Ecology), all’ecologia del ripristino (Restoration
Ecology) e all’ecologia industriale (Industrial Ecology). Anche i progressi
nelle scienze sociali relativi all’apprendimento (Learning) e all’adattamento
(Adaptive Management) rientrano efficacemente in questo campo.
Questa contaminazione disciplinare si adatta bene a un concetto di
sostenibilità che coinvolge gli aspetti ambientali, economici e sociali
dell’interazione dei vari sistemi. Una sostenibilità che valuta i limiti di
popolazione e pressione umana nell’utilizzo delle risorse e nella
produzione di rifiuti rispetto alle capacità rigenerative e assimilative
dei sistemi naturali, per promuovere le migliori capacità di apprendimento,
di adattamento e flessibilità dei nostri sistemi sociali nel farvi fronte.
Le definizioni di sviluppo sostenibile e di sostenibilità, come abbiamo
visto nel secondo capitolo, sono numerose e presentano priorità e
sottolineature differenti; ma, come ricorda l’economista Richard Norgaard,
“è impossibile definire lo sviluppo sostenibile in un modo operativo, in
dettaglio e con un livello di controllo presunto dalla logica della
modernità”.
Ciò nonostante la Sustainability Science - con le sue convergenze
multidisciplinari in una prospettiva di totale innovazione - sta creando
progressivamente i principali “punti fermi” che definiscono questo concetto
e la sua operatività.(...)
Uno degli aspetti più innovativi delle contaminazioni disciplinari prodotte
nel laboratorio della Sustainability Science riguarda le scienze
economiche. Riconsiderare le risorse, il loro limite, il loro delicato
equilibrio, la loro possibile distribuzione in rapporto alle esigenze degli
ecosistemi e dei sistemi sociali comporta la necessità di ridiscutere alla
radice le formule e i principi che regolano l’attuale economia di libero
mercato.
Nasce così l’economia ecologica, una branca di studi che trae le sue
origini da alcuni decenni di analisi e riflessioni, e che oggi sta
assumendo i caratteri di una nuova disciplina in grado di promuovere svolte
importanti nel nostro modo di produrre e di vivere. (…)
L’economia ecologica pone chiaramente tra i suoi obiettivi il problema di
come misurare, in modo più completo ed esauriente dell’attuale, il
benessere e la ricchezza delle nostre società.
Vi è una convinzione diffusa negli ambienti economici che se il mercato va
bene la gente automaticamente ne risulta beneficiata. L’indicatore più
significativo per tutti i paesi, anche dal punto di vista dell’immaginario
collettivo, è il cosiddetto prodotto interno lordo, il PIL. Il potere
simbolico del PIL è enorme; la maggioranza degli economisti classici e dei
governi vede nella crescita del PIL un segno di benessere del mercato e,
quindi, un segno di benessere dell’intera economia di un paese. Sul fatto,
invece, che il PIL non sia affatto sinonimo di ricchezza e di benessere vi
è ormai una potente letteratura ed esistono analisi approfondite e proposte
concrete di azione destinate ad ampliare il set di indicatori sui quali si
dovrebbe prendere in considerazione la ricchezza e il benessere di una
nazione, di una regione, di una comunità, di una città. Tra questi, ad
esempio, il Measure of Economic Welfare (MEW) e l’Index of Sustainable
Economic Welfare (ISEW).
Ma ormai esiste un’eccezionale varietà di indicatori che mirano non solo a
monitorare lo status dei sistemi naturali e di quelli sociali, ma anche a
fornire indicazioni su quelli che dovrebbero essere gli obiettivi da
raggiungere nei singoli settori analizzati; così come esistono proposte per
indicatori aggregati che cercano di dare conto, in maniera più articolata e
comprensiva, dello stato di salute reale dell’economia di un paese, senza
dimenticare il valore, sinora non considerato, della natura. (…)
Le riflessioni e le ricerche dell’economia ecologica, incrociate con quelle
di altre discipline, hanno consentito di giungere a definire alcuni criteri
guida per la sostenibilità della nostra azione.
Herman Daly riassume i principi fondamentali nel modo seguente:
1. La scala dell’intervento umano sui sistemi naturali dovrebbe essere
limitata a un livello che rientra nella capacità di carico dei sistemi
stessi.
2. Il progresso tecnologico per lo sviluppo sostenibile dovrebbe essere
basato sull’incremento dell’efficienza e non sull’incremento dell’input di
materie prime e di energia nel processo economico.
3. I tassi di utilizzo dei sistemi naturali non dovrebbero eccedere i tassi
di rigenerazione degli stessi.
4. Le emissioni degli scarti non dovrebbero eccedere la capacità
assimilativa dei sistemi naturali.
5. Le risorse non rinnovabili non dovrebbero essere utilizzate se non a un
tasso equivalente alla creazione di sostituti rinnovabili.

L'"emissione" del Protocollo di Kyoto

Gli scienziati evidenziano il rischio concreto di una sorta di “salto”
improvviso del sistema climatico nel giro di pochi anni. Tali salti hanno
luogo da sempre per cause naturali, ma con maggiore probabilità sono oggi
riconducibili alle pressioni che il riscaldamento globale impone all’intero
sistema climatico. (…)
La Convenzione quadro sui cambiamenti climatici e il dibattito che ne è
seguito nelle annuali Conferenze delle Parti hanno portato all’elaborazione
del Protocollo di Kyoto, un protocollo attuativo della Convenzione che
prevede una modesta percentuale complessiva di riduzione delle emissioni:
il 5,2% rispetto alla quota di emissioni prodotta nel 1990, da raggiungere
entro il 2008-2012, con impegni articolati di riduzione dell’8% per l’Unione
europea, del 7% per gli Stati Uniti, del 6% per Giappone e Canada. Altri
ventun paesi industrializzati hanno obiettivi simili; ma mentre Russia,
Ucraina e Nuova Zelanda possono limitarsi a stabilizzare le proprie
emissioni, altri paesi sono addirittura autorizzati a incrementarle (la
Norvegia, con un +1%, e l’Australia, con un +8%). Paesi di nuova
industrializzazione, che stanno incrementando le loro emissioni - come
Cina, India, Brasile - sono esclusi dai vincoli di riduzione previsti dal
Protocollo. (…)
Scrive Paul Crutzen: “Questo protocollo è il primo tentativo serio di
cominciare a controllare le emissioni di gas serra e di porre le basi di
uno sviluppo sostenibile che non turbi il clima. Nonostante ciò, è più che
altro un gesto simbolico. Una riduzione del 5% dei gas serra è
insufficiente, e secondo alcuni economisti il suo costo elevato ostacolerà
lo sviluppo di nuove tecnologie più adatte a raggiungere lo stesso scopo.
Credo che sia un primo accordo importante, al quale farne seguire uno
migliore che riduca di più le emissioni inquinanti e dia maggiore spazio
alla ricerca in campo tecnologico. Sarebbe anche l’occasione per rivedere
le procedure che portano alla stesura di questo genere di documenti, per
attribuire maggior peso ai paesi più inquinanti, come Stati Uniti e Russia,
e al parere degli scienziati. Per stabilizzare la concentrazione di
anidride carbonica nell’atmosfera bisognerebbe ridurne le emissioni del
70%, ben oltre gli obiettivi del Protocollo, e sembra che l’Unione europea
se ne renda conto”. (...)
Delineare un progetto di procedura per il dopo 2012 richiede l’accordo su
un calendario, sui successivi passi verso il negoziato e su alcuni principi
che costituiranno i punti di riferimento del dibattito. Un piano di questo
tipo non può non essere basato sui principi di precauzione, di equità e di
responsabilità comuni ma differenziati per tutti i paesi. Il tema cardine
sembra essere quello di adottare un sistema di emissioni di anidride
carbonica che impedisca un surriscaldamento di 2 gradi, obiettivo finale
della procedura per il dopo 2012.
I suggerimenti per il piano del dopo 2012 possono essere sintetizzati in
tre punti fondamentali:
• come già avvenuto nel Protocollo di Kyoto, sono assolutamente necessari
limiti assoluti di emissione più stretti per i paesi dell’Allegato I;
• alcuni tra i più importanti paesi in via di sviluppo devono adottare un
sistema di riduzione delle emissioni di anidride carbonica adatto a uno
sviluppo sostenibile e in grado di soddisfare gli obiettivi del cambiamento
climatico, della povertà, della sicurezza energetica e del progresso. Gli
impegni, basati su una serie di criteri equi e rispettati in tappe
successive, non dovrebbero essere invece richiesti ai paesi meno
sviluppati;
• i paesi più esposti al cambiamento climatico ricevono il sostegno
necessario per potersi adattare alle conseguenze del riscaldamento già in
atto.

La risorsa della biodiversità

Se l’umanità dipende strettamente dai processi, dalle funzioni e dai
servizi che i sistemi naturali offrono alla nostra esistenza, a loro volta
questi servizi dipendono in larga misura dalla ricchezza della vita sulla
Terra, dalla cosiddetta diversità biologica o biodiversità.
La salute dell’umanità si lega quindi strettamente alla salute della
biodiversità.
Pensiamo, ad esempio, allo straordinario ruolo che esercita la vegetazione
presente sulla Terra nell’influenzare i continui scambi di calore e umidità
fra la superficie terrestre e l’atmosfera, agendo così sulla dinamica del
sistema climatico. Questi scambi infatti determinano le caratteristiche
climatiche di una determinata area, dalle temperature, alle precipitazioni,
ai venti. I trasferimenti di calore e umidità influenzano ovviamente il
clima anche su scala più ampia. (…)
I biologi della conservazione che hanno lavorato all’elaborazione dei
Global 200 hanno anche provato ad applicare allo stato di salute degli
habitat le categorie che già si utilizzano per indicare lo stato di salute
delle singole specie viventi (…), e che sono frutto di un’ampia riflessione
della comunità scientifica. (…)
L’approccio ecoregionale e i Global 200 ampliano gli obiettivi della
conservazione della biodiversità spostando l’attenzione dalla conservazione
della diversità delle specie a un’azione più complessiva sulla diversità
degli habitat, dei processi ecologici e dei fenomeni evolutivi.
Come tutti gli studi e gli approcci operativi alla conservazione della
biodiversità mirati a stabilire classificazioni e priorità, i Global 200
non possono avere e non hanno la presunzione di essere riusciti a prendere
in considerazione tutti gli aspetti della conservazione della biodiversità,
ma possono essere considerati un ulteriore passo in avanti nell’individuazione
delle priorità della conservazione.
L’approccio ecoregionale non si ferma all’identificazione delle ecoregioni
prioritarie a livello planetario ma si dota di uno strumento complessivo di
approccio concreto alla pratica della conservazione che viene definito
“approccio di conservazione ecoregionale”. (...)
Negli anni più recenti si sono moltiplicate le ricerche che indagano le
valenze economiche, produttive e funzionali degli ecosistemi. Risale al
2002, giusto poco prima del Summit di Johannesburg, la pubblicazione sulla
rivista scientifica Science di un interessante articolo, elaborato da
studiosi di biodiversità ed ecologi, in cui si ricorda l’enorme importanza
del ruolo economico degli ambienti naturali e si fa presente che, sulla
base di tutte le ricerche sin qui realizzate, i benefici rispetto ai costi
di un programma effettivo e globale di conservazione di ciò che resta degli
ambienti naturali presentano un rapporto di almeno 100:1.
Anche il Millennium Ecosystem Assessment, il grande rapporto internazionale
del 2005, è fondamentalmente basato sull’attenta analisi scientifica del
valore dei servizi degli ecosistemi, il loro stato attuale, le eventuali
previsioni di dinamica future, le risposte politiche ed economiche che
sarebbe necessario articolare in questo senso. (...)
Così il Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile tenutosi a Johannesburg
nel 2002 ha indicato esplicitamente la necessità, entro il 2010, di ridurre
in modo significativo il tasso di progressiva perdita della biodiversità
sul nostro pianeta. A sua volta l’Unione europea, nelle riunioni di
Consiglio e di Parlamento europeo, si è data un target più ambizioso,
ovvero quello di fermare entro il 2010 il tasso di perdita della
biodiversità.
Uno dei meccanismi più proficui - certamente non l’unico - per raggiungere
questo obiettivo è di realizzare un significativo sistema di aree protette,
possibilmente connesse fra di loro, per promuovere un vero e proprio
network ecologico che permetta alla natura di mantenere le sue potenzialità
evolutive. (...)

Bioprospecting

Il bioprospecting, che potremmo definire in italiano “bioprospezione”, è l’esplorazione
della biodiversità al fine di individuare le risorse biologiche da
utilizzare per le attività e le industrie umane (come quella farmaceutica,
della medicina botanica, della protezione delle colture, della cosmesi,
dell’orticoltura, dei semi per l’agricoltura, del monitoraggio ambientale
ecc.) oltre che per una varietà di settori manifatturieri.
Questo termine, che è preso a prestito dalla prospezione dell’oro e del
petrolio, riguarda comunque l’esplorazione di risorse biochimiche e
genetiche che abbiano un valore di mercato. (...)
Uno dei più promettenti scenari di applicazione del bioprospecting riguarda
il settore dell’industria chimica. Qui in particolare si punta all’“invenzione”
di una chimica bioimitatrice che, impiegando al meglio le conoscenze sulla
straordinaria rete della vita esistente sulla Terra e imitando la natura,
sia il meno dannosa possibile per la natura stessa e per tutte le specie
viventi, esseri umani compresi. I vantaggi immediati di una tale
prospettiva sarebbero quelli di evitare la produzione di un’enorme quantità
di sostanze chimiche tossiche non metabolizzabili dai sistemi naturali.