[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
manuale della sostenibilità
- Subject: manuale della sostenibilità
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 8 Feb 2006 06:43:11 +0100
da ambiente italia gennaio 2006
Manuale della
sostenibilità
Idee, concetti, nuove discipline capaci di futuro Gianfranco Bologna 2005 - pagine 336 - euro 20,00 - ISBN 88-89014-20-2 Che cos’è la Sustainability Science? Questa formula definisce lo straordinario laboratorio di idee, indagini e teorie innovative che sono confluite in una nuova scienza transdisciplinare che sta trasformando la nostra visione del mondo. La sostenibilità è un approccio radicalmente diverso da quello che ha guidato la scienza e la politica fino a pochi anni fa. È un modello di pensiero che cerca di integrare la civiltà contemporanea con la complessità della natura e propone un’idea credibile di “sviluppo”, in opposizione al mito della “crescita” a tutti i costi. Per affrontare questa sfida e indicare soluzioni concrete, studiosi di tutto il mondo analizzano i processi naturali insieme a quelli sociali, economici e produttivi, alla luce della complessa rete di relazioni reciproche che caratterizza il “sistema chiuso” del nostro pianeta. Il loro lavoro rinnova alcuni paradigmi scientifici, ma soprattutto rimette in discussione l’attuale uso indiscriminato delle risorse, i modelli di scambio economico, gli stili di vita, l’organizzazione della società e delle istituzioni, le formule della governance. L’autore ricostruisce il significato che il termine “sostenibilità” ha assunto negli anni più recenti, partendo dalle idee e dai concetti che ne hanno tracciato la storia per arrivare alle nuove discipline scientifiche che ne disegnano la prospettiva. Il percorso si sviluppa attraverso argomenti disciplinari diversi, citazioni, esempi, in un mosaico ampio e documentato che restituisce tutta la ricchezza del dibattito in corso. A chiusura del volume, l’approfondimento di due casi di portata globale: il cambiamento climatico e il progressivo impoverimento della diversità biologica. Gianfranco Bologna è direttore scientifico e culturale del WWF Italia e segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, sezione italiana del Club di Roma. Dal 1999 è docente alla Scuola di Specializzazione in gestione dell’ambiente naturale e delle aree protette (oggi laurea specialistica) all’Università di Camerino dove insegna gestione delle risorse naturali e sostenibilità dello sviluppo. Ha scritto diversi libri sulla natura e sullo sviluppo sostenibile e dal 1988 è curatore dell’edizione italiana del famoso rapporto State of the World del Worldwatch Institute. Esperto non governativo del governo italiano alla Conferenza ONU su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro (1992) e del Summit mondiale ONU sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg (2002). L'uomo, una nuova forza geofisica Nel 1957, in un lavoro apparso sulla rivista scientifica Tellus, due esperti di geofisica, Roger Revelle e Hans Suess, per esprimere la portata dei grandi cambiamenti prodotti dalla nostra specie si servirono di una frase poi diventata famosa: “Così gli uomini stanno compiendo un esperimento di geofisica su larga scala, di un tipo quale non avrebbe mai potuto effettuarsi in passato, né potrebbe essere ripetuto in avvenire”. (…) Edward Wilson ha affermato che “poche persone osano dubitare che il genere umano si sia creato un problema di dimensioni planetarie. Anche se nessuno lo desiderava, siamo la prima specie a essere diventata una forza geofisica in grado di alterare il clima della Terra, ruolo precedentemente riservato alla tettonica, alle reazioni cromosferiche e ai cicli glaciali. Dopo il meteorite di dieci chilometri di diametro che 65 milioni di anni fa precipitò nello Yucatan ponendo fine all’era dei rettili, i più grandi distruttori della vita siamo noi. Con la sovrappopolazione ci siamo creati il pericolo di finire il cibo e l’acqua. Ci attende dunque una scelta tipicamente faustiana: accettare il nostro comportamento corrosivo e rischioso come prezzo inevitabile della crescita demografica ed economica, oppure rianalizzare noi stessi e andare alla ricerca di una nuova etica ambientale”. Anche John McNeill, storico alla Georgetown University, scrive nella sua lucida analisi della storia dell’ambiente del XX secolo: “Inconsapevolmente, il genere umano ha sottoposto la Terra a un esperimento non controllato di dimensioni gigantesche. Penso che, con il passare del tempo, questo si rivelerà l’aspetto più importante della storia del XX secolo: più della Seconda guerra mondiale, dell’avvento del comunismo, dell’alfabetizzazione di massa, della diffusione della democrazia, della progressiva emancipazione delle donne”. La testimonianza del biologo Stephen Palumbi, dell’Università di Stanford, mostra con numerosi esempi eloquenti come l’intervento della nostra specie stia accelerando i ritmi dell’evoluzione biologica, soprattutto tra le specie con cui viviamo a più stretto contatto: quelle che costituiscono i nostri alimenti e i nostri parassiti. Palumbi scrive: “Il nostro impatto sull’evoluzione è aumentato con i farmaci, con il controllo chimico dei parassiti e la capacità di plasmare l’ambiente fisico e biologico per soddisfare i nostri bisogni. Così, siamo diventati la forza evolutiva più potente della Terra. A parte forse il meteorite che si ritiene abbia provocato l’estinzione dei dinosauri, siamo i migliori candidati a vincere la medaglia d’oro per lo sconquasso planetario, il giorno che sarà considerato ufficialmente uno sport da Olimpiadi”. (...) La questione centrale per il nostro presente e l’immediato futuro è questa: come riuscire a vivere sulla Terra con una quantità di esseri umani che ha già superato i sei miliardi di individui (e che potrebbe superare i dieci miliardi entro questo secolo), in maniera dignitosa ed equa per tutti, senza distruggere irrimediabilmente i sistemi naturali da cui traiamo le risorse per vivere e senza oltrepassare la capacità di questi stessi sistemi di sopportare gli scarti e i rifiuti provenienti dalle nostre attività produttive. Non sembrano esservi dubbi sul ritenere questo l’aspetto centrale da risolvere per l’immediato futuro di tutte le società umane del pianeta, ormai completamente interconnesse nella globalizzazione economica e culturale. Nonostante ciò, la stragrande maggioranza dei politici, degli economisti, dei pianificatori e degli imprenditori continua a concentrare la propria attenzione, e l’agenda delle priorità, sulla corsa alla crescita economica, materiale e quantitativa, che, nonostante gli avanzamenti della tecnologia, continua a erodere la base dei sistemi naturali, a modificarli, a distruggerli e inquinarli e, nell’ambito dei sistemi sociali, ad aggravare l’iniquità sociale e a incrementare le differenze tra i ricchi e i poveri del pianeta. Si sono moltiplicati i vertici internazionali sul tema, si sta creando una vera e propria normativa sovranazionale di carattere ambientale fatta di convenzioni, trattati, protocolli e direttive, ma manca ancora la consapevolezza che questi problemi possono essere risolti solo con una vera e propria “rivoluzione culturale” rispetto ai nostri modi obsoleti di concepire i sistemi economici, quelli sociali e quelli naturali. Una rivoluzione che, come ha più volte ricordato Lester Brown, dovrebbe avere una portata paragonabile alle due grandi precedenti rivoluzioni dell’umanità, quella agricola e quella industriale. Sviluppo sostenibile Negli ultimi anni si è ormai diffusa una formula che, al solo utilizzarla verbalmente, sembra poter fornire la soluzione ai tanti e gravi problemi esistenti nel rapporto tra i sistemi naturali e la nostra specie: si tratta per l’appunto di “sviluppo sostenibile”. È una espressione ormai abbondantemente abusata in ogni contesto, soprattutto in ambito politico ed economico. A volte dichiaratamente con funzioni di copertura: come se, parlando di “sviluppo sostenibile” o citando il termine “sostenibilità”, fosse automaticamente possibile azzerare o assolvere gli impatti di qualunque attività contrassegnata da questo attributo. Mantenere nella vaghezza i pur difficilissimi contorni concettuali di questa formula e non confrontarsi con i problemi concreti che derivano dall’attuazione della sostenibilità nei nostri processi di sviluppo significa procedere a un’azione ingiustificata dal punto di vista scientifico e scorretta dal punto di vista sociale, economico e politico. Pertanto diventa sempre più indispensabile un’azione profonda e critica di analisi del concetto di sostenibilità dello sviluppo, alla luce di tutti i limiti emersi nel dibattito degli anni più recenti. Innanzitutto è evidente che i sistemi produttivi e di consumo di una società futura - la cui necessità e desiderabilità si impone alla luce dell’attuale situazione ambientale, economica e sociale - saranno diversi da quelli che sino a oggi abbiamo conosciuto. La prospettiva della sostenibilità mette inevitabilmente in seria discussione il nostro attuale modello di sviluppo socioeconomico. Nei prossimi decenni dovremo essere capaci di passare da una società in cui il benessere e la salute economica sono misurati in termini di crescita della produzione e dei consumi materiali a una società in cui si sia capaci di vivere meglio consumando molto meno, evitando la dilapidazione dei sistemi naturali, e quindi del capitale naturale, e sviluppando l’economia riducendo gli attuali input di energia e materie prime. (…) Il termine sostenibilità - perlopiù riassunto impropriamente nella formula “sviluppo sostenibile” - si è andato diffondendo negli anni Ottanta perché nell’ambito della comunità internazionale, in particolare nelle Nazioni Unite, appariva sempre più evidente che il concetto di sviluppo, così strettamente legato a quello di crescita (soprattutto crescita economica, intesa come incremento del prodotto pro capite), aveva causato una situazione di profonda incompatibilità con gli equilibri dinamici dei sistemi naturali. Lo sviluppo economico non è sostenibile perché ha profondamente minato i processi ecologici di base, compromettendo, di fatto, la base essenziale per la sopravvivenza della popolazione umana. La crescita economica ha promesso di creare abbondanza, benessere e rimozione dei fattori di povertà, ma aggredendo le risorse naturali e gli equilibri dinamici degli ecosistemi ne ha profondamente minato le basi rigenerative e le capacità assimilative e, soprattutto nei paesi poveri, è diventata sempre più causa di povertà e scarsità. Ogni azione umana determina, da un lato, un’acquisizione/sottrazione di risorse dall’ambiente e dall’altro l’emissione/rilascio di vari agenti di scarto dovuti all’azione stessa (sostanze liquide, solide, gassose, rumori ecc.). È un dato di fatto che il nostro sistema economico e produttivo determina un utilizzo delle cosiddette “sources” (sorgenti) e dei cosiddetti “sinks” (serbatoi) dei sistemi naturali che, per quanto emerge dalla più recente documentazione scientifica, risulta insostenibile. Nessuna persona di buon senso può ritenere di procedere sulla strada del modello di sviluppo socioeconomico sin qui perseguito, immaginando di garantire un livello di consumi equivalente a quello statunitense o europeo a tutti gli attuali oltre 6 miliardi di abitanti del pianeta o agli 8-9 miliardi previsti entro i prossimi cinquant’anni. È assolutamente inevitabile - e vorrei dire obbligatorio - trovare soluzioni differenti dalle attuali, percorsi alternativi, un’altra e diversa cultura dello sviluppo; pena la nostra stessa sopravvivenza come specie. E in quest’ambito il concetto di sostenibilità può essere certamente la base per delineare le nuove strade possibili. La comprensione del dibattito sulla sostenibilità, e la sua stessa praticabilità, ruotano attorno ad alcuni principi fondamentali: • forte interdisciplinarietà, che certamente costituisce una sfida difficile quanto indispensabile per arrivare a modificare lo stato attuale delle cose; • ampia flessibilità del concetto, che necessita tuttavia di precisi “paletti” entro i quali cercare di definire i percorsi di sostenibilità; • grande apertura a tutta la gamma di conoscenze e tradizioni umane, nella straordinaria ricchezza delle culture presenti sulla nostra Terra, da cui poter attingere per individuare i percorsi alternativi possibili; • riferimento continuo ai migliori avanzamenti scientifici disponibili, per aiutare a individuare le strade alternative concretamente praticabili; • approccio sistemico integrato, che tiene in conto la consapevolezza che il tutto è qualcosa di più rispetto alle singole parti che lo compongono. Nel laboratorio della Sustainability Science Sustainability Science indica una convergenza transdisciplinare di riflessioni e ricerche derivanti da discipline diverse, che cercano di analizzare le interazioni dinamiche tra i sistemi naturali, sociali ed economici e di comprendere i modi migliori per “gestirle”. La sua forza innovativa risiede in un cambiamento radicale della visione del mondo: da un lato promuovere forme di conoscenza compatibili con un’irriducibile incertezza; dall’altro individuare nuovi principi, metodologie e strumenti per intervenire concretamente nei sistemi complessi senza comprometterne il delicato equilibrio. (…) Le discipline che costituiscono la base necessaria per questo approccio sono quelle delle scienze ecologiche (ma anche fisiche e naturali in senso più ampio come, ad esempio, la fisica dei sistemi complessi), delle scienze economiche e delle scienze sociali. In particolare si fa riferimento alla biologia della conservazione (Conservation Biology), all’economia ecologica (Ecological Economics), all’ecologia del paesaggio (Landscape Ecology), all’ecologia del ripristino (Restoration Ecology) e all’ecologia industriale (Industrial Ecology). Anche i progressi nelle scienze sociali relativi all’apprendimento (Learning) e all’adattamento (Adaptive Management) rientrano efficacemente in questo campo. Questa contaminazione disciplinare si adatta bene a un concetto di sostenibilità che coinvolge gli aspetti ambientali, economici e sociali dell’interazione dei vari sistemi. Una sostenibilità che valuta i limiti di popolazione e pressione umana nell’utilizzo delle risorse e nella produzione di rifiuti rispetto alle capacità rigenerative e assimilative dei sistemi naturali, per promuovere le migliori capacità di apprendimento, di adattamento e flessibilità dei nostri sistemi sociali nel farvi fronte. Le definizioni di sviluppo sostenibile e di sostenibilità, come abbiamo visto nel secondo capitolo, sono numerose e presentano priorità e sottolineature differenti; ma, come ricorda l’economista Richard Norgaard, “è impossibile definire lo sviluppo sostenibile in un modo operativo, in dettaglio e con un livello di controllo presunto dalla logica della modernità”. Ciò nonostante la Sustainability Science - con le sue convergenze multidisciplinari in una prospettiva di totale innovazione - sta creando progressivamente i principali “punti fermi” che definiscono questo concetto e la sua operatività.(...) Uno degli aspetti più innovativi delle contaminazioni disciplinari prodotte nel laboratorio della Sustainability Science riguarda le scienze economiche. Riconsiderare le risorse, il loro limite, il loro delicato equilibrio, la loro possibile distribuzione in rapporto alle esigenze degli ecosistemi e dei sistemi sociali comporta la necessità di ridiscutere alla radice le formule e i principi che regolano l’attuale economia di libero mercato. Nasce così l’economia ecologica, una branca di studi che trae le sue origini da alcuni decenni di analisi e riflessioni, e che oggi sta assumendo i caratteri di una nuova disciplina in grado di promuovere svolte importanti nel nostro modo di produrre e di vivere. (…) L’economia ecologica pone chiaramente tra i suoi obiettivi il problema di come misurare, in modo più completo ed esauriente dell’attuale, il benessere e la ricchezza delle nostre società. Vi è una convinzione diffusa negli ambienti economici che se il mercato va bene la gente automaticamente ne risulta beneficiata. L’indicatore più significativo per tutti i paesi, anche dal punto di vista dell’immaginario collettivo, è il cosiddetto prodotto interno lordo, il PIL. Il potere simbolico del PIL è enorme; la maggioranza degli economisti classici e dei governi vede nella crescita del PIL un segno di benessere del mercato e, quindi, un segno di benessere dell’intera economia di un paese. Sul fatto, invece, che il PIL non sia affatto sinonimo di ricchezza e di benessere vi è ormai una potente letteratura ed esistono analisi approfondite e proposte concrete di azione destinate ad ampliare il set di indicatori sui quali si dovrebbe prendere in considerazione la ricchezza e il benessere di una nazione, di una regione, di una comunità, di una città. Tra questi, ad esempio, il Measure of Economic Welfare (MEW) e l’Index of Sustainable Economic Welfare (ISEW). Ma ormai esiste un’eccezionale varietà di indicatori che mirano non solo a monitorare lo status dei sistemi naturali e di quelli sociali, ma anche a fornire indicazioni su quelli che dovrebbero essere gli obiettivi da raggiungere nei singoli settori analizzati; così come esistono proposte per indicatori aggregati che cercano di dare conto, in maniera più articolata e comprensiva, dello stato di salute reale dell’economia di un paese, senza dimenticare il valore, sinora non considerato, della natura. (…) Le riflessioni e le ricerche dell’economia ecologica, incrociate con quelle di altre discipline, hanno consentito di giungere a definire alcuni criteri guida per la sostenibilità della nostra azione. Herman Daly riassume i principi fondamentali nel modo seguente: 1. La scala dell’intervento umano sui sistemi naturali dovrebbe essere limitata a un livello che rientra nella capacità di carico dei sistemi stessi. 2. Il progresso tecnologico per lo sviluppo sostenibile dovrebbe essere basato sull’incremento dell’efficienza e non sull’incremento dell’input di materie prime e di energia nel processo economico. 3. I tassi di utilizzo dei sistemi naturali non dovrebbero eccedere i tassi di rigenerazione degli stessi. 4. Le emissioni degli scarti non dovrebbero eccedere la capacità assimilativa dei sistemi naturali. 5. Le risorse non rinnovabili non dovrebbero essere utilizzate se non a un tasso equivalente alla creazione di sostituti rinnovabili. L'"emissione" del Protocollo di Kyoto Gli scienziati evidenziano il rischio concreto di una sorta di “salto” improvviso del sistema climatico nel giro di pochi anni. Tali salti hanno luogo da sempre per cause naturali, ma con maggiore probabilità sono oggi riconducibili alle pressioni che il riscaldamento globale impone all’intero sistema climatico. (…) La Convenzione quadro sui cambiamenti climatici e il dibattito che ne è seguito nelle annuali Conferenze delle Parti hanno portato all’elaborazione del Protocollo di Kyoto, un protocollo attuativo della Convenzione che prevede una modesta percentuale complessiva di riduzione delle emissioni: il 5,2% rispetto alla quota di emissioni prodotta nel 1990, da raggiungere entro il 2008-2012, con impegni articolati di riduzione dell’8% per l’Unione europea, del 7% per gli Stati Uniti, del 6% per Giappone e Canada. Altri ventun paesi industrializzati hanno obiettivi simili; ma mentre Russia, Ucraina e Nuova Zelanda possono limitarsi a stabilizzare le proprie emissioni, altri paesi sono addirittura autorizzati a incrementarle (la Norvegia, con un +1%, e l’Australia, con un +8%). Paesi di nuova industrializzazione, che stanno incrementando le loro emissioni - come Cina, India, Brasile - sono esclusi dai vincoli di riduzione previsti dal Protocollo. (…) Scrive Paul Crutzen: “Questo protocollo è il primo tentativo serio di cominciare a controllare le emissioni di gas serra e di porre le basi di uno sviluppo sostenibile che non turbi il clima. Nonostante ciò, è più che altro un gesto simbolico. Una riduzione del 5% dei gas serra è insufficiente, e secondo alcuni economisti il suo costo elevato ostacolerà lo sviluppo di nuove tecnologie più adatte a raggiungere lo stesso scopo. Credo che sia un primo accordo importante, al quale farne seguire uno migliore che riduca di più le emissioni inquinanti e dia maggiore spazio alla ricerca in campo tecnologico. Sarebbe anche l’occasione per rivedere le procedure che portano alla stesura di questo genere di documenti, per attribuire maggior peso ai paesi più inquinanti, come Stati Uniti e Russia, e al parere degli scienziati. Per stabilizzare la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera bisognerebbe ridurne le emissioni del 70%, ben oltre gli obiettivi del Protocollo, e sembra che l’Unione europea se ne renda conto”. (...) Delineare un progetto di procedura per il dopo 2012 richiede l’accordo su un calendario, sui successivi passi verso il negoziato e su alcuni principi che costituiranno i punti di riferimento del dibattito. Un piano di questo tipo non può non essere basato sui principi di precauzione, di equità e di responsabilità comuni ma differenziati per tutti i paesi. Il tema cardine sembra essere quello di adottare un sistema di emissioni di anidride carbonica che impedisca un surriscaldamento di 2 gradi, obiettivo finale della procedura per il dopo 2012. I suggerimenti per il piano del dopo 2012 possono essere sintetizzati in tre punti fondamentali: • come già avvenuto nel Protocollo di Kyoto, sono assolutamente necessari limiti assoluti di emissione più stretti per i paesi dell’Allegato I; • alcuni tra i più importanti paesi in via di sviluppo devono adottare un sistema di riduzione delle emissioni di anidride carbonica adatto a uno sviluppo sostenibile e in grado di soddisfare gli obiettivi del cambiamento climatico, della povertà, della sicurezza energetica e del progresso. Gli impegni, basati su una serie di criteri equi e rispettati in tappe successive, non dovrebbero essere invece richiesti ai paesi meno sviluppati; • i paesi più esposti al cambiamento climatico ricevono il sostegno necessario per potersi adattare alle conseguenze del riscaldamento già in atto. La risorsa della biodiversità Se l’umanità dipende strettamente dai processi, dalle funzioni e dai servizi che i sistemi naturali offrono alla nostra esistenza, a loro volta questi servizi dipendono in larga misura dalla ricchezza della vita sulla Terra, dalla cosiddetta diversità biologica o biodiversità. La salute dell’umanità si lega quindi strettamente alla salute della biodiversità. Pensiamo, ad esempio, allo straordinario ruolo che esercita la vegetazione presente sulla Terra nell’influenzare i continui scambi di calore e umidità fra la superficie terrestre e l’atmosfera, agendo così sulla dinamica del sistema climatico. Questi scambi infatti determinano le caratteristiche climatiche di una determinata area, dalle temperature, alle precipitazioni, ai venti. I trasferimenti di calore e umidità influenzano ovviamente il clima anche su scala più ampia. (…) I biologi della conservazione che hanno lavorato all’elaborazione dei Global 200 hanno anche provato ad applicare allo stato di salute degli habitat le categorie che già si utilizzano per indicare lo stato di salute delle singole specie viventi (…), e che sono frutto di un’ampia riflessione della comunità scientifica. (…) L’approccio ecoregionale e i Global 200 ampliano gli obiettivi della conservazione della biodiversità spostando l’attenzione dalla conservazione della diversità delle specie a un’azione più complessiva sulla diversità degli habitat, dei processi ecologici e dei fenomeni evolutivi. Come tutti gli studi e gli approcci operativi alla conservazione della biodiversità mirati a stabilire classificazioni e priorità, i Global 200 non possono avere e non hanno la presunzione di essere riusciti a prendere in considerazione tutti gli aspetti della conservazione della biodiversità, ma possono essere considerati un ulteriore passo in avanti nell’individuazione delle priorità della conservazione. L’approccio ecoregionale non si ferma all’identificazione delle ecoregioni prioritarie a livello planetario ma si dota di uno strumento complessivo di approccio concreto alla pratica della conservazione che viene definito “approccio di conservazione ecoregionale”. (...) Negli anni più recenti si sono moltiplicate le ricerche che indagano le valenze economiche, produttive e funzionali degli ecosistemi. Risale al 2002, giusto poco prima del Summit di Johannesburg, la pubblicazione sulla rivista scientifica Science di un interessante articolo, elaborato da studiosi di biodiversità ed ecologi, in cui si ricorda l’enorme importanza del ruolo economico degli ambienti naturali e si fa presente che, sulla base di tutte le ricerche sin qui realizzate, i benefici rispetto ai costi di un programma effettivo e globale di conservazione di ciò che resta degli ambienti naturali presentano un rapporto di almeno 100:1. Anche il Millennium Ecosystem Assessment, il grande rapporto internazionale del 2005, è fondamentalmente basato sull’attenta analisi scientifica del valore dei servizi degli ecosistemi, il loro stato attuale, le eventuali previsioni di dinamica future, le risposte politiche ed economiche che sarebbe necessario articolare in questo senso. (...) Così il Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile tenutosi a Johannesburg nel 2002 ha indicato esplicitamente la necessità, entro il 2010, di ridurre in modo significativo il tasso di progressiva perdita della biodiversità sul nostro pianeta. A sua volta l’Unione europea, nelle riunioni di Consiglio e di Parlamento europeo, si è data un target più ambizioso, ovvero quello di fermare entro il 2010 il tasso di perdita della biodiversità. Uno dei meccanismi più proficui - certamente non l’unico - per raggiungere questo obiettivo è di realizzare un significativo sistema di aree protette, possibilmente connesse fra di loro, per promuovere un vero e proprio network ecologico che permetta alla natura di mantenere le sue potenzialità evolutive. (...) Bioprospecting Il bioprospecting, che potremmo definire in italiano “bioprospezione”, è l’esplorazione della biodiversità al fine di individuare le risorse biologiche da utilizzare per le attività e le industrie umane (come quella farmaceutica, della medicina botanica, della protezione delle colture, della cosmesi, dell’orticoltura, dei semi per l’agricoltura, del monitoraggio ambientale ecc.) oltre che per una varietà di settori manifatturieri. Questo termine, che è preso a prestito dalla prospezione dell’oro e del petrolio, riguarda comunque l’esplorazione di risorse biochimiche e genetiche che abbiano un valore di mercato. (...) Uno dei più promettenti scenari di applicazione del bioprospecting riguarda il settore dell’industria chimica. Qui in particolare si punta all’“invenzione” di una chimica bioimitatrice che, impiegando al meglio le conoscenze sulla straordinaria rete della vita esistente sulla Terra e imitando la natura, sia il meno dannosa possibile per la natura stessa e per tutte le specie viventi, esseri umani compresi. I vantaggi immediati di una tale prospettiva sarebbero quelli di evitare la produzione di un’enorme quantità di sostanze chimiche tossiche non metabolizzabili dai sistemi naturali. |
- Prev by Date: il nostro pianeta sotto stress
- Next by Date: l'ingegnere e una nonna di ottant'anni
- Previous by thread: il nostro pianeta sotto stress
- Next by thread: l'ingegnere e una nonna di ottant'anni
- Indice: