i paesi che crescono grazie all'alta pressione fiscale



dal  manifesto del    05-07-2005

Quei paesi che crescono grazie all’alta pressione fiscale

PAOLO LIBERATI - GIUSEPPE TRAVAGLINI

I rimedi per arrestare la crisi  crescita dell’economia europea ed il declino economico italiano sono ormai oggetto di un ampio dibattito tra gli analisti. In mancanza di una chiara individuazione della patologia, la terapia proposta sembra però essere sempre la stessa: il richiamo alle politiche di flessibff tà e alle forze concorrenti dei mercati come meccanismo virtuoso di crescita. Tuttavia la domanda che ci dobbiamo porre è se in questi anni nei paesi europei, ma anche negli Usa, siano state realizzate politiche di gestione dell’economia in cui, pur riconoscendo ai meccanismi di mercato un ruolo centrale per lo sviluppo, l’elevata performance economica sia stata conseguita in presenza di un significativo grado di intervento pubblico. Vediamo alcuni esempi concreti

Secondo i dati Ocse del 2004, in Danimarca, Svezia e Finlandia la pressione fiscale si mantiene tra le più alte in Europa, comunque superiore a quella italiana (dai 6 ai 10 punti di Pil) e a quella statunitense (tra i 15 e i 20 punti di Pil). Nel 2002 (ultimo anno disponibile), il peso dei contributi obbligatori per il finanziamento delle prestazioni sociali è stato del 15,1% del Pil in Svezia e del 12,2% in Finlandia, contro il 12.5% in Italia, e il 6,9% negli USA (dove sono assenti sistemi sanitari e Coperture pensionistiche pubbliche universali). In Danimarca, dove questa quota è molto bassa (1,7%), si compensa con una tassazione personale pari al 26% del Pil, comunque non in feriore aI 22% sin daI 1975 (nel 2002, circa 11% in Italia e in media europea, 10% negli Usa).

Da ntare che la pressione tributaria (cioè escludendo la contribuzione sociale) in Italia già da diversi anni oscilla intorno al 30% del Pil, mentre Danimarca Svezia e Finlandia hanno da sempre sperimentato livelli mediamente più alti (ben al di sopra del 30%). Negli Usa lo stesso indicatore fluttua tradizionalmente tra il 20 e il 22% e solo recentemente è sceso al di sotto del 20%. Ma gran parte della dif ferenza con l’Italia è in questo caso da imputare ad una minore tassazione dei consumi (4,6% contro I’11,4% in Italia). Inoltre, in Danimarca, Svezia e Finlandia, la tassazione degli interessi, dei dMdendi e dei capital gains di fon te interna è medliaxnentc più elevata di quella italiana e spesso soggetta ad ali quote progressive. Infine, in Olanda, la pressione tributaria è pari al 25,3% (in fenore a quella italiana), mentre il peso dei contributi è pari a circa il 14% (1,5 punti in più di quello italiano).

A dispetto di ima elevata pressione fiscale, nel periodo 1995-2003 (dati Ocse 2004), i tassi di crescita medi dei paesi nordici sono stati tra i più alti in Europa (Finlandia 3,6%, Olanda e Sve zia 2,5%, Danimarca 2,1%), senza che ciò abbia compromesso la struttura del loro welfare state. La produttività per occupato nel settore privato è cresciuta fortemente nell’ultimo quinquennio fino ad avvicinarsi (Danimar ca 2,9% e Olanda 2,6%) e talvolta a superare (Finlandia 3,8% e Svezia 4,5%) quella statunitense (3,7%). Oltre a ciò, nei paesi scandinavi il contributo degli investimenti alla crescita è stato molto elevato e determinante nei settori a tecnologia medio-alta.

In Europa, dal 1990 aI 2003 il grado di flessibifità del lavoro è cresciuto, e i dati Ocse dell’indice EPL di «legislazione di protezione all’impiego» hanno registrato questa tendenza. In particolare in Italia l’ampia modificazione della legislazione che regola il rapporto lavorativo ha determinato dal 1998 in poi una riduzione del 30% del valore dell’indice di protezione, che risulta pari a 2,4 nel 2003. Oggi questo valore è più basso di quello tedesco (2,5), svedese (2,6), francese (2,9), spagnolo (3,1) e portoghese (3,5), ossia è inferiore a quello di paesi che hanno sperimentato nell’ultimo quinquennio un risultato economico superiore al nostro. Se a questo si aggiunge che in Italia l’espansione degli investimenti ad alto contenuto tecnologico è proseguita a ritmi molto modesti; e che nel 2001 l’Italia ha investito 1’l,l% del suo Pil in ricerca e sviluppo, contro una media europea dell’1,9% (180 miliardi di dollari), e a fronte di una spesa Usa pari al 3% del prodotto (300 miliardi di dollari), il quadro è completo e si capisce che il problema dell’Italia, più che al mercato del lavoro è riconducibile a quello degli investimenti e alla ricerca.

L’insieme di questi dati delinea un’immagine del funzionamento delle economie di mercato che può essere molto diversa da quella solitamente diffusa Così, in Italia, la riduzione congiunturale della tassazione ed il richiamo ad ulteriori riforme del mercato del lavoro, piuttosto che il riconosci mento del ruolo primario degli investi menti e della ricerca, equivalgono a somministrare aspirina ad un malato cronico bisognoso di ben altre terapie.