il lavoro nella società digitale



Il lavoro nella società digitale (1)
e-work, free software, open source
di Antonio Caronia

Dieci anni fa (1995) Jeremy Rifkin pubblicò un libro dal titolo provocatorio, La fine del lavoro (da noi uscì da Baldini&Castoldi). La provocazione funzionò sin troppo bene, e a sinistra Rifkin fu sommerso (almeno qua in Italia) da un coro di proteste e anche di irrisioni. Ma come, "fine del lavoro"? È vero, la disoccupazione cresce in Occidente, ma chi lavora lavora sempre di più, come tempo e come intensità. È vero, il lavoro si decentra, ma appunto nell'Oriente e nel Sud del mondo cresce lo sfruttamento. Fu soprattutto nella sinistra più radicale che il libro di Rifkin trovò l'accoglienza peggiore. I filoni riformisti e quelli new global più interni a una prospettiva "consumerista" erano poco interessati al possibile sostegno che veniva da una figura così eccentrica e scomoda come la sua. Ma la socialdemocrazia e i filoni del radicalismo più ancorati a una visione "lavorista" non potevano sopportare che fosse loro sottratta la contraddizione più ghiotta e ricca di conseguenze, quella tra capitale e lavoro.
In realtà il libro di Rifkin, tra forzature e passaggi spesso disinvolti come è nello stile dell'autore, era più che altro un'analisi della fine del lavoro fordista: cominciava a raccontarci le trasformazioni indotte nel mondo della produzione dalla rivoluzione digitale, che era già allora abbastanza sviluppata da lasciare tracce vistose e riconoscibili nell'esperienza di tutti noi. Ma Rifkin si guardava bene dall'abbandonare il termine "lavoro", e semmai il suo limite era nel non articolare a sufficienza l'analisi del nuovo strato di "lavoratori della conoscenza", quei knowledge workers che sommariamente egli contrapponeva in blocco ai lavoratori del terzo e quarto mondo. Comunque, a dieci anni di distanza, l'Hic Rhodus, hic salta resta quello: "Il ritardo con il quale si è compreso lo slittamento dell'intero scenario sociale, su terreni non tradizionali per il pensiero critico, evidenzia un'incapacità dei vecchi apparati, teorici e organizzativi, a comprendere i cambiamenti. Questo ritardo, talvolta, si è manifestato fino al punto di negare alcune novità che erano eclatanti e ha segnato un distacco tra la condizione reale delle persone, la percezione della loro vita, da una parte, e le strutture organizzative e il pensiero critico, dall'altro."
Ho citato un passo (pag. 137) delle conclusioni di E-work, un complesso e generoso tentativo di analisi delle trasformazioni indotte nel sistema produttivo dall'emergere delle tecnologie digitali. L'autore Sergio Bellucci, che è responsabile per i problemi della comunicazione e delle nuove tecnologie di Rifondazione comunista, ha ragioni da vendere nel denunciare l'incomprensione della sinistra - anche della sinistra radicale - nell'analisi della digitalizzazione della produzione, del lavoro e della vita quotidiana. E individua anche correttamente, mi sembra, i pericoli maggiori di questo ritardo di comprensione. Questi pericoli egli li vede da un lato nella parzialità delle analisi sulla digitalizzazione del lavoro e della produzione: ciò che egli chiama "l'ubiquità applicativa delle tecnologie digitali" non consente di procedere per settori troppo definiti, o aspetti troppo limitati, proprio per il carattere complesso e globale delle trasformazioni in corso. Non solo: le stesse caratteristiche rendono scarsamente utili le analisi che non siano in grado di connettere la rivoluzione nei saperi con la dimensione del potere.
Parte da qui Bellucci nel cercare di mettere a fuoco le novità del digitale. L'integrazione nella produzione della comunicazione e del linguaggio è la caratteristica saliente della nuova fase del sistema produttivo. Il lavoro ha oggi una componente comunicativa e linguistica preponderante, mediata appunto dalle tecnologie digitali. Ma le attività linguistiche sono caratterizzate dal fatto che spesso non producono direttamente effetti od oggetti capaci di sopravvivere all'atto linguistico: il loro prodotto coincide, per così dire, con l'attività stessa. E quindi, oggi, una parte del lavoro, pur essendo a pieno titolo "produttivo", non dà origine a un prodotto autonomo, che sopravviva alla prestazione lavorativa, ma coincide con quella prestazione: è "lavoro immateriale", linguistico, comunicativo, relazionale, affettivo. Ma anche la produzione materiale dipende sempre di più dal lavoro immateriale che vi è incorporato: lavoro immateriale che si oggettiva (per esempio nella produzione del software sempre più necessario al funzionamento delle macchine "immateriali" e materiali), e che è quindi difficile riportare pienamente alla dimensione della soggettività. Non si tratta solo della centralità della nuova industria "culturale" (cioè comunicativa: informatica, televisione, pubblicità, PR) nell'intero mondo produttivo, ma del fatto, ben più significativo, che il nuovo capitalismo è capace di valorizzare (di produrre valore economico a partire da) non più soltanto le merci materiali, ma anche e soprattutto le merci immateriali: e quindi tendenzialmente ogni interazione, ogni attività quotidiana, ogni gesto più o meno "creativo" compiuto in ogni parte del mondo è valorizzabile dal capitale. Non c'è più distinzione fra luoghi "produttivi" (la fabbrica) e luoghi improduttivi, fra tempo libero e tempo di lavoro.
Bellucci ha ben presente tutto ciò, e cerca di ricavarne alcune direzioni di ricerca per la teoria e per la prassi, sforzandosi per esempio di mettere in relazione l'avvento del digitale con alcuni snodi del pensiero scientifico e filosofico fra Otto e Novecento (dall'algebra di Boole alla meccanica quantistica alle teorie del caos e della complessità). È vero che non tutto ciò che scrive al proposito è convincente, e alcuni passaggi appaiono forzati e un po' meccanici. Ma non stanno qui, a mio parere, i limiti maggiori del suo libro, quanto in una "timidezza" teorica che a volte gli impedisce di rimettere in discussione punti decisivi della teoria e delle analisi tradizionali, sì che spesso egli sembra non riuscire a trarre tutte le conseguenze implicite nelle sue stesse premesse. È ciò che accade su un punto teorico decisivo come la teoria del valore, che Marx riprese da Ricardo, e che collega il valore di scambio di una merce al tempo di lavoro necessario per produrla. Bellucci (pag. 62) sembra ritenerla ancora valida, mentre a me pare che proprio questa sia una delle parti più caduche del quadro teorico marxiano, tanto più oggi quando (come abbiamo visto) il processo di valorizzazione non appare più confinato ai tradizionali luoghi produttivi (la fabbrica), ma si allarga tendenzialmente a tutta la società.
E più in generale Bellucci appare preoccupato di sottolineare la continuità, più che la discontinuità, dei nuovi processi produttivi rispetto al passato ("vi è, nell'affermarsi di nuove e più avanzate caratteristiche del modo di produrre, una continuità più alta di quanto si sia portati a pensare," pag. 77), col paradossale risultato che a volte, al di là delle intenzioni, le sue proposte appaiono semplici rivendicazioni di "spazi di senso slegati dalle logiche della comunicazione di tipo commerciale" (pag. 134): aspirazione giusta e condivisibile, naturalmente, ma che resta un po' astratta se non si precisano le condizioni alle quali ciò può avvenire, e i processi reali con i quali spazi del genere possono essere costruiti, all'interno di una situazione caratterizzata dalla pervasività, non solo delle tecnologie, ma dei processi di valorizzazione. La logica proprietaria appare oggi infatti straordinariamente capace di utilizzare ai propri fini anche intenzioni e strumenti nati al di fuori, e addirittura contro, quella logica.
Un caso emblematico in questo senso è proprio la vicenda del "software libero", cioè della produzione informatica nata al di fuori della logica commerciale e proprietaria, basata sulla condivisione dei codici dei programmi e la cooperazione di comunità di programmatori. Un recente libretto ricostruisce molto opportunamente la storia di questo singolare e fruttuoso comparto dell'informatica, dalla Free Software Foundation di Richard Stallman alla nascita di Linux, dal progetto GNU e la licenza GPL all'emergere dell'Open Source e ai tentativi dei giganti dell'informatica di venire a patti con questo dirompente fenomeno. Leggendo Open non è Free, anche chi non ha familiarità con le sigle delle righe precedenti potrà farsi un'idea abbastanza chiara delle intenzioni dei sostenitori dei modelli free nella scrittura e nella circolazione del software. "Adottare un modello free," scrive Ippolita, la comunità di hacker e scrittori indipendenti che ha prodotto questo libro scaricabile anche da Internet, "significa scrivere il proprio codice, ma dare la possibilità ad altri di spiegarlo, nella maniera più condivisa possibile. (...) L'uso del codice implica l'etica, un certo stile, un certo codice di comportamento: la libertà d'uso implica l'imprevisto, e la continua rinegoziazione di ciò che significa 'fare la cosa giusta' con quel pezzetto di codice. In ogni caso, vuol dire fiducia negli altri e nelle capacità di condivisione degli esseri umani, nelle loro capacità di interazione con le macchine, (...) nella possibilità di cambiare, e divenire Altro." (pagg. 22-23).
Ci sono quindi dei valori etici (e, non sembri scandaloso, anche estetici) nella scelta di diffondere non solo le interfacce utenti dei programmi, ma tutto il codice che li fa vivere e funzionare, e non solo considerazioni pratiche e funzionali. È vero, un codice liberamente diffuso viene testato, corretto e migliorato più a fondo rispetto al codice di un programma proprietario (che viene tenuto segreto e a cui lavorano solo i dipendenti dell'azienda che lo ha creato), perché ogni programmatore che lo desideri può metterci le mani, ma non è tanto questa la motivazione più importante del codice libero e condiviso, quanto l'idea che la libera circolazione del sapere è una pratica più "giusta", cioè più rispondente ai bisogni dell'intera società, e non solo ai bisogni contingenti che quel software soddisfa. Ippolita ci spiega così che non è tanto la scelta dell'"open source", della diffusione del codice, che conta, quanto il tipo di licenza con cui quel codice viene diffuso, e quindi delle possibilità che la licenza consente. Se l'open source consente anche di commerciare - insomma di vendere - il software condiviso, la licenza GPL, fondamento del free software, invece non lo consente, e impone all'utilizzatore di diffondere ciò che ha eventualmente trasformato sempre e solo sotto la stessa licenza. Il punto, insomma, è la questione del diritto di proprietà del sapere, inscindibile dalla sua libera circolazione.
E proprio la questione della proprietà è al centro del testo di Wark McKenzie, Un manifesto hacker che, con uno stile a metà fra quello del Manifesto dei comunisti e quello della Società dello spettacolo di Guy Debord, propone insieme una ricostruzione della storia dell'uomo all'insegna dello "hacking" e una proposta politico-teorica di ampio respiro per la contemporaneità. Ma a questo punto, data la rilevanza dell'opera in questione, mi consentirete di fare una pausa e di tornare sui temi del Manifesto hacker in un articolo successivo.
Sergio Bellucci, E-work. Lavoro, rete innovazione, DeriveApprodi, pp. 192, € 14,00.
Ippolita, Open non è free. Comunità digitali tra etica hacker e mercato globale, elèuthera, pp. 128, € 11,00.
http://ippolita.net