come vivere ( bene ) senza automobile



da promiseland.it
settembre 2005
 
E io diserto dall'automobile

Vivere senza automobile si può. Diario di un viaggio quotidiano su due
ruote, da casa a scuola

di Emilio Rigatti
Mattina del lunedì, due anni fa. Sguardo all’orologio, deglutizione del
caffè bollente come fosse una pozione di cianuro per farla finita, e via di
corsa, chiavi in mano.
Eh, sì: la vita chiavi in mano, in comode rate. È tua, è lì la puoi avere,
devi possederla, ha le labbra gonfie di desiderio come salvagenti, la tua
vita-macchina chiavi in mano. La vita-macchina che, nella pubblicità,
attraversa primavere e deserti, Provenze e Sahara, sempre accompagnata da
donne in veli ariosi, che seducono con sguardi felini, o infuocati, o
languidi, o perversi. L’avventura, l’amore, le cromature.
Ma nell’utilitaria, che ci porta al lavoro ruminando benzina e trasferendo
euro ai più preoccupanti ceffi del pianeta, o nella station wagon ingombra
di giocattoli, di giornali che invecchiano sotto i sedili, con l’arbre
magique che soccombe alla puzza del cane, non troveremo niente di tutto
questo. Forse ci accoglierà un calore bruciante, perché bastano i tenui
raggi primaverili per trasformarla in un forno. Oppure troveremo i vetri
appannati, o gelati. Allora bisogna rientrare in casa, prendere una pentola
d’acqua bollente o lo straccio. E via, di corsa al lavoro, facendoci
mandare al quel paese dal signore a cui tagliamo la strada.

L'ultimo modello non esiste
Noi, il lunedì mattina, non pensiamo mai: ci hanno fregato. Dopo comprata,
come certi giocattoli telecomandati troppo tecnologici, l’auto perde la sua
aura miracolosa, ingolla soldi, si striscia, viene soppiantata da un altro
modello sostanzialmente uguale, ma allo stesso tempo diverso. Non hai più l’ultimo
modello. Non ce l’avrai mai. «L’ultimo modello», sintagma cacofonico di cui
l’abuso è ormai invalso, è un para-sofisma nel quale credi di essere
Achille, e invece sei la tartaruga. E siccome tu non vivi in un sofisma,
Achille è sempre più veloce di te. E Achille è tutto il resto. Fregati,
prigionieri del labirinto dei fotoni. Signor Teseo, per cortesia, saprebbe
indicarmi l’uscita?
Invece la bici, invecchiando, acquista un’aura epica, come il poncho che ha
accompagnato Garibaldi per anni in battaglie e avventure. È generosa col
ciclista perché l’aria che gli fa tagliare, in ogni stagione e con tutte le
temperature, gli insluffa energia e buon umore, gli lava lo stress. Fa
partire i pensieri, come per una legge fisica, li fa gocciolare uno a uno:
plik, plik, plik. Sembra che suonino nella testa, formando stalattiti.
La bici esige essenzialità, efficienza e semplicità anche nel vestire. È al
di fuori della moda, ma ha stile e ne suscita uno personale in chi la usa
nel quotidiano. È incanto nei mattini e magia nella sera. La maggiore
altezza rispetto alle automobili e l’attraversamento spavaldo di ogni tipo
di intemperie talvolta inducono – è vero – a piccole ipertrofie dell’ego,
come succede a certuni che fequentano i maneggi, o ai capisala dei grandi
ristoranti con chi non segue il dress code.
Dalla luna alla terra
Quando comprai la prima auto con l’aria condizionata mi convinsi
rapidamente che accendere l’estate d’inverno o accendere l’inverno d’estate
premendo un pulsante non era così bello e sano come volevano farmi credere.
Perché – ho cominciato a pensare – devo costringere il mio corpo a uno
stato di perenne inadeguatezza con il clima? Perché ogni volta che scendo
dalla macchina mi devo sentire sulla Luna?
Invece la bici – scientifica, geografica e poetica – constata l’esistente
e, come su un ponte sospeso, ci fa attraversare le quattro stagioni tra
scrosci di pioggia, profumi primaverili, venti temperature diverse,
suscitando parole, a volte poesie, altre ancora strafalcioni. Ci fa
desiderare semplicemente le cose che vediamo dal sellino, che sono tutte
non vendibili, non censurabili, non inscatolabili neppure da un governo di
destra, che può ridurre le ore d’insegnamento ai ragazzi, ma non le Alpi
Giulie. Perciò: approfittatene.
Infine, la bici è giacobina senza tagliar teste, evangelica senza crociate,
non violenta, a meno che non finiamo contro un albero. Ma in tal caso, come
con le ideologie e le religioni, siamo sempre noi a guidare.
Pian piano, sono arrivato al dunque: un anno – o sempre? – senz’auto. Solo
bici, salvo casi eccezionali e con l’aiuto del treno per gli spostamenti
più lunghi. Così l’ho venduta. La macchina. La mia. Adios, è tutto finito
tra noi.

Il ciclosindacalismo
Trattative in famiglia: mia moglie temeva che, dopo il gran rifiuto,
sarebbe diventata lei il mio autista, in ossequi alle pari opportunità.
Prometto, giuro, giurin giuron che me la cavo da solo, le ho detto. La tua
macchina la uso solo in caso di estrema necessità, come il cortisone:
parola di lupetto.
Se sgarro, vendo la bici al titanio e mi compro una Panda usata color
cenere, anche perché mi è simpatica. Secondo me ha un pezzo di cuore simile
a quello della bicicletta, la Panda: è puro attrezzo, utensile, come una
pala o un machete o un martello. Si capisce subito qual è la sua
destinazione d’uso, non ha diamanti sulle lancette del contachilometri o la
leva del cambio in oro, optional peraltro utilissimi per poter riconoscere
un cretino e starne alla larga. Dunque la macchina, sono il primo a dirlo,
è utile. Se qualcuno in famiglia stesse male, come lo porteremmo in
ospedale? Come porterei la bici dal meccanico quando si rompe? E le
damigiane di pinot bianco di Tarlao ad Aquileia? Sulla canna? La macchina
serve, eccome.
Ma quest’anno – è stata la novità – lei è servita a me e non il contrario:
come Figaro, voglio fare il gentiluomo e non voglio più servir. Il
cortisone serve a me, non io al cortisone. Bene, in un anno ho percorso
circa quindicimila chilometri in bicicletta, direi tutti felici, meno
quando sono incappato in qualche disgrazia legata alla condizione umana. In
macchina, ne ho fatti forse duemila: tutti sofferti, meno quando sono
andato a prendere le damigiane di pinot bianco da Tarlao. Insomma, ogni
tanto il cortisone è una benedizione.
Bruciare le navi ha significato varie cose, tra cui un aumento in busta
paga che nessun Cobas, Gilda o Unitario è mai stato in grado di procurarmi.
Sommiamo i settecento euro di assicurazione, quelli del bollo, la benzina,
l’olio, le gomme, le magagne di un’auto con centoventimila chilometri,
dividiamo per dodici, ne verrà fuori una somma di duecento euro al mese.
Senza uno sciopero.
La bici come sindacato tascabile, autunno caldo pret-à-porter. Quello della
nonviolenza a pedali sarebbe anche un mezzo politicamente rivoluzionario. M’immagino
spesso una Città del sole ciclabile, dove cambi il concetto stesso di
«consumo». Si consumano le gomme, ci consumiamo noi: però piano, senza che
qualcuno ci spinga da dietro dicendoci: «Consuma più forte»