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la crisi del buon raccolto
- Subject: la crisi del buon raccolto
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 12 Sep 2005 06:47:57 +0200
da il manifesto - 09 Settembre 2005
La crisi del buon
raccolto
Il declino dell'agricoltura italiana La rivolta dell'uva da vino e il crollo dei prezzi dell'uva da tavola. I pomodori non ritirati dai produttori e i prezzi dimezzati delle pesche. Tutti segnali di crisi da concorrenza. La febbre è più spagnola che asiatica. Il produttore piange e il consumatore non ride: al mercato il calo dei prezzi non s'è visto ROBERTA CARLINI «Enoi facciamo come la Puglia, andiamo per strada e blocchiamo tutto». La minaccia rimbalza da un campo all'altro e i dirigenti delle varie organizzazioni dei coltivatori italiani faticano a placare gli animi. La rivolta dei produttori pugliesi di uva da vino - finita in tragedia, per la morte di un manifestante a un blocco stradale, e sopita per ora con l'elargizione di 79 milioni di euro da parte del ministero dell'agricoltura-, ha acceso i riflettori su una crisi più larga. Dal granoduro alle pesche, dall'uva all'olio, dalle albicocche alle susine, fino all'oro rosso di cui l'Italia è il secondo produttore mondiale - e che in questi giorni in grandi quantità marcisce nelle cassette al limitare dei campi di pomodoro - i prezzi all'origine scendono, a volte in picchiata. Mettendo in difficoltà i produttori - grandi e piccoli, nazionali e familiari -, generando uno scontro all'arma bianca tra i contadini e gli industriali che trasformano i loro prodotti, senza portare alcun vantaggio per i consumatori finali. Che, al mercato, del grande crollo dei prezzi nei campi non vedono alcun effetto. Fuori mercato «Prendiamo le pesche nettarine. Solo venti anni fa con quattro ettari di terra ci mantenevi i figli all'università. Oggi, non ci vivi», dice Fabrizio Marzano, presidente dell'Unaproa (organizzazione comune dei produttori ortofrutticoli, associa 120 aziende e 300.000 ettari di terra agricola italiana). Meno plateale di quella dell'uva, la crisi delle pesche è arrivata per prima. La stagione «gialla» va da giugno a settembre. Nel 2004 i prezzi all'origine partivano dai 72 centesimi al chilo di giugno per poi scendere a 43 a luglio, 33 ad agosto e 29 a settembre. Quest'anno, la stagione si è aperta con un crollo dei prezzi: 53 centesimi a giugno, 33 a luglio, 26 ad agosto. I redditi dei produttori si sono ridotti (gli eventuali figli all'università si sono arrangiati), i prezzi ai consumatori no. Analogo discorso si può fare per susine e albicocche, e problemi si prevedono anche per le mele (sebbene più tutelate dai vari marchi che nel settore si sono via via inseriti). E la crisi da prezzo non si ferma alla frutta. Giuseppe Politi, presidente della Cia (la ex-Confcoltivatori, che da sinistra cercava di espugnare le campagne al moloch dei Coltivatori diretti: oggi ha circa 900.000 agricoltori iscritti), ricorda il granoduro ai tempi della lira: «siamo passati da 40.000 lire a 11 euro al quintale. Con quattro ettari, che è la dimensione media in Italia, fai 3.000-3.500 euro all'anno». Anche mettendoci sopra gli aiuti comunitari (che più o meno raddoppiano la cifra), una famiglia non può mantenersi a granoduro. «Le industrie della pasta accusano i produttori italiani di aver abbandonato le produzioni di granoduro: in realtà sono loro a rivolgersi all'estero e a pretendere qui da noi gli stessi livelli di prezzo». Con il che Politi introduce la parola-chiave per capire molto (anche se non tutto) di ciò che sta succedendo nei campi: concorrenza. «Siamo fuori mercato, l'agricoltura italiana è fuori mercato: dobbiamo saperlo, per prendere i provvedimenti che servono a non scomparire», dice Fabrizio Marzano. Il «fuori» sta in questo: i prezzi dei prodotti all'origine sul mercato internazionale sono inferiori ai costi che i produttori italiani si sobbarcano per lo stesso prodotto. E' successo con il granoduro e le farine, sta succedendo per tutti gli altri prodotti. L'aumento del costo del gasolio (è a 1,20 euro al litro: più 13% dall'inizio dell'anno, ha denunciato la Coldiretti) ha gettato sale sulle piaghe, ma non è l'unica causa. E i temutissimi cinesi, con le loro mele e il loro concentrato di pomodoro, c'entrano fino a un certo punto. L'«invasore» abita molto più vicino e parla quasi come noi: è l'agricoltura spagnola, i cui prodotti non solo arrivano nei nostri mercati ma soppiantano le esportazioni italiane. «Verso i nuovi entrati nell'Unione europea abbiamo perso il 10% dell'export agroalimentare, a beneficio della Spagna», dice Politi. Stessa moneta, stesso clima (più o meno), stesse regole comunitarie, norme sul lavoro non diversissime... qual è la marcia in più dei contadini spagnoli? Per una volta, nessuno parla di costo del lavoro - sempre bombardato quando si parla dei divari di competitività. Il fatto è che gli spagnoli «sono più strutturati, fanno sistema, all'interno e all'estero», è il giudizio di Marzano, che cita come contraltare quel che è successo da noi ai primi segnali di crisi: un agitarsi di tutti contro tutti, industriali, contadini, commercianti, consumatori. Guerre tra poveri - o tra ricchi - «senza alcuna proposta coerente di filiera», cioè della catena che va dal campo al banco del mercato. Una catena che in Italia è un puzzle. Lo spezzatino inizia dai campi. «La dimensione media delle aziende agricole italiane è la più bassa d'Europa, quella spagnola è molto più alta e questo incide sui costi di produzione», spiega Paolo Cupo, docente alla facoltà di Agraria dell'università di Napoli Federico II. Con il che, torniamo ai vecchissimi nodi della riforma agraria. Complicati da altri problemi concorrenti, tra i quali Cupo cita «il valore fondiario dei terreni», ma anche «la scarsa diffusione delle cooperative, con le quali i produttori avrebbero potuto esercitare un controllo maggiore sui prezzi». Invece i produttori vanno sul mercato in ordine sparso, e non c'è stato verso di organizzarli. Risultato: «il produttore agricolo è un price-taker, ciascuno controlla solo una minima parte dell'offerta complessiva». Il suo potere contrattuale è assai prossimo allo zero e «quando arriva la crisi è l'anello debole, quello che paga per primo», dice Marzano. Secondo il quale però il problema dello spezzatino non si ferma ai campi. «Prendiamo il caso del pomodoro: abbiamo 5.000 aziende agricole grandi e organizzate, grossi produttori, una vera lobby. La produzione si fa per metà al Sud, per metà nel Centro-Nord. Ma l'industria conserviera ha una realtà diversissima tra Mezzogiorno e resto d'Italia: oltre 130 soggetti tra Puglia e Campania, una trentina nel Centro-Nord. Al Sud abbiamo il caso assurdo dei pomodori pugliesi che devono essere portati in Campania per la trasformazione: 200 chilometri di distanza, per un prodotto `povero' come il pomodoro sono decisamente troppi». A parere di Marzano, la frammentazione dell'industria e l'abitudine di procedere ognuno per suo conto «è uno dei motivi del fallimento: non siamo riusciti a portare una piattaforma comune». Pomodoro fritto Quest'anno la raccolta del pomodoro è stata particolarmente buona. Il clima benigno però si è risolto in una vera catastrofe per i produttori, che hanno visto il raccolto già contrattato, cioè già venduto, accumularsi nelle cassette. Come mai? «Non li ritirano», denunciano tutte le organizzazioni agricole, secondo le quali l'industria del pomodoro quest'anno ha aperto in ritardo sui raccolti e sta andando al rallenty. «Terremo fede ai patti, la scadenza è il 20 settembre», dicono gli industriali. Ma il pallino del gioco ce l'hanno loro: sanno che i produttori non possono rischiare di perdere anche l'aiuto comunitario - che per i pomodori è ancora «accoppiato» al prodotto effettivamente ceduto all'industria - e premono per lucrare in extremis condizioni migliori. Sullo sfondo, c'è il temibile concentrato di pomodoro made in China: i cui derivati non possono essere venduti in Italia (salvo frodi, sempre possibili), ma la cui lavorazione impegna l'industria anche nei mesi in cui si raccolgono i pomodori freschi e le cui esportazioni fanno diretta concorrenza a quella dei pelati. I rappresentanti delle regioni del pomodoro fanno un incontro dietro l'altro - dalla Campania viene la proposta di un provvedimento che vieti alle imprese di lavorare il concentrato nei mesi della raccolta del prodotto fresco - ma il 20 settembre si avvicina e le cassette continuano ad accumularsi nei campi. La battaglia dell'uva Rischia di marcire anche l'uva da tavola, nella quale la parte del leone la fa ancora una volta la Puglia. Il raccolto di quest'anno è «ottimo e abbondante», i prezzi sono da brivido: gli intermediari offrono da 0,10 a 0,20 euro al chilo, racconta Politi. Un crollo verticale, rispetto ai prezzi dell'anno scorso, quando secondo le voci riportate dagli agricoltori l'eccedenza dell'uva da tavola andò a finire nelle cantine, con il risultato che queste ultime, piene di mosto, quest'anno hanno rifiutato l'uva da vino: gli effetti si sono visti nella guerriglia di fine agosto, quando i blocchi stradali in Puglia sono stati tolti solo dopo che ci era già scappato il morto e dopo un intervento del ministro Alemanno che dalle parti delle organizzazioni dei produttori ha ricevuto consensi meno che tiepidi. «79 milioni di euro per tutte le aziende vitivinicole che ne fanno richiesta: in tasca a ciascuno arriverà ben poco, m,olto meno dei 3.000 euro che sarebbe il tetto massimo», dice il presidente della Cia Politi. Per di più, è di pochi giorni fa la doccia fredda europea: la distillazione di crisi, chiesta dall'Italia con ritardo di tre-quattro mesi rispetto agli altri paesi mediterranei, è stata concessa per una quantità di prodotto pari a un terzo della richiesta e alla metà di quanto ci si aspettava davvero. Dunque, non è detto che la guerra dell'uva da vino sia finita: in compenso, quella dell'uva da tavola è appena cominciata. E anche qui la causa principale della crisi non è la sovraproduzione: «se avessimo una crisi da eccedenza, sarebbe più semplice affrontarla», dice Marzano, che tornando a parlare di interventi «sul sistema» cita il ruolo cruciale della grande distribuzione: il fatto che le catene distributive sono tutte straniere e - salvo la Coop - è sparita la distribuzione italiana «ha penalizzato la nostra agricoltura, sia nel mercato interno che nelle esportazioni». Eppure dell'italianità dei supermercati si parla assai meno che di quella dell'Antonveneta e della Bnl. Infine, i consumatori A proposito di supermercati: la riduzione dei prezzi all'origine non arriva neanche per un pezzetto al consumatore finale. «E' il vecchio problema della forbice tra i prezzi all'origine e quelli al consumo, noi della Cia da anni proponiamo una legge che imponga di indicare il doppio prezzo», dice Politi. Il professor Cupo spiega il meccanismo: è il «funzionamento asimmetrico dei margini», ossia della percentuale di incassi che va al folto gruppo degli intermediari. In sostanza, quando il mercato tira, i margini aumentano e dunque se ne avvantaggiano i redditi di tutti questi soggetti che stanno tra il produttore e il consumatore e che hanno il potere di «fare il prezzo». Quando la domanda langue (sia all'interno che per l'export) e i costi dei produttori salgono, gli intermediari mantengono intatto il loro margine di guadagno. Al figlio dell'agricoltore che non può più permettersi l'università non resta che dare un consiglio: da grande, fai l'intermediario. |
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