i dati e gli squilibri della mortalità infantile



da boiler.it
14.03.2005
Quando il neonato non conta
di SARA CAPOGROSSI COLOGNESI

INIZIA con un lungo dossier sulla mortalità infantile la seconda parte della
campagna lanciata da Lancet per sensibilizzare il pubblico sul benessere (e
malessere) dei bambini e più in generale sulla salute del mondo in cui
vivono, e viviamo. Nel 2003 il gruppo Bellagio Survival aveva pubblicato su
Lancet cinque articoli sulla sopravvivenza del bambino che avevano riscosso
risultati tangibili a livello nazionale e internazionale. Frutto di questa
prima parte dell'operazione è stata la creazione della Child Survival
Partnership, che opera in vari paesi, come India ed Etiopia. Ma non basta.
All'inizio del mese prossimo sarà rilasciato il World Health Report 2005 il
cui slogan sarà "facciamo sì che ogni madre e ogni bambino contino". Una
frase che ci rimanda alla realtà: per molti governi e per la comunità
internazionale donne e bambini spesso non sono una priorità. Oggi, la
realizzazione del Neonatal Survival Steering Team del Lancet e gli incontri
per discutere ed evidenziare tutti i particolari del tema hanno promosso la
collaborazione di scienziati, medici e giornalisti. Le istituzioni hanno
fallito, le agenzie internazionali non ce la fanno, e la rabbia e la
frustrazione cresce. Non è sempre, anzi non è mai facile tradurre i fondi
dedicati alla ricerca in politiche efficaci a livello nazionale. Ci hanno
provato al Ministerial Summit on Health Research in Messico lo scorso anno.
Ma c'è ancora molto da fare.
"Una delle omissioni cruciali è stata la salute dei neonati", punta il dito
Richard Horton, direttore del Lancet, presentando il lungo documento che
promuove l'iniziativa della rivista. "Mentre il bambino e la madre sono
stati al centro degli sforzi per proteggere la prima infanzia, il periodo
neonatale è stato trascurato". Ogni anno otto milioni di bambini muoiono
entro il primo anno di vita o prima ancora di venire al mondo. Le ragioni
sono varie, ma c'è una risposta che non può essere dimenticata o ignorata:
in alcuni paesi la vita (specialmente quella dei più indifesi) vale meno che
in altri. Horton è ottimista nel presumere che la conoscenza e la
comprensione di questo aspetto del male che corrode l'umanità sarà
sufficiente a sollecitare il sostegno internazionale. Un aiuto contro uno
tsunami devastante e permanente che "proverà i limiti fisici e morali della
nostra specie in modi nuovi ed estremi".
Ma se anche non fosse per un senso di solidarietà umana. Se anche la nostra
specie non avesse introiettato quei valori morali di cui tanto si vanta e
che la distingue (?) dalle altre specie, esistono spiegazioni più razionali
ed egoistiche per sollecitare una risposta al dramma che si abbatte sui più
deboli e indifesi. Si tralascia spesso di sottolineare le conseguenze
socioeconomiche della morte e anche della stentata sopravvivenza di madri e
neonati. Parti difficoltosi e nascite premature possono provocare danni
permanenti le cui conseguenze andranno a ricadere su comunità già povere e
poverissime. La malattia o la morte di una madre si ripercuote sul benessere
dell'intera famiglia. Le cure richieste da un bambino la cui salute è
compromessa possono far cadere in disgrazia il gruppo familiare. E la
povertà di una famiglia si proietta sul gruppo e così via in cerchi sempre
più ampi, l'intera società, il paese intero ne viene coinvolto, in un ciclo
di miseria da cui non riesce a sollevarsi. E che in una società globale non
tarderà ad arrivare fino a noi.

Uscire dall´invisibilità
di SARA CAPOGROSSI COLOGNESI

È PACATAMENTE ottimista il direttore del Lancet, Richard Horton, presentando
la seconda fase del programma per la salute del bambino, e più in
particolare del neonato. Molto si può fare, senza dover compiere imprese
impossibili e soprattutto senza attendere ancora. Pianificazione familiare,
istruzione femminile, assistenza alla maternità a livello della comunità e
creazione o miglioramento delle strutture sanitarie cui riferirsi in caso di
complicazioni potrebbero concretamente ridurre la mortalità di madri e
neonati, scrivono gli studiosi che hanno aderito all'iniziativa del Lancet e
che oggi fanno parte del Neonatal Survival Steering Team. Il fatto che paesi
come lo Sri Lanka, il Vietnam o le Honduras abbiano ridotto i tassi di
mortalità neonatale è la dimostrazione più convincente che non si tratta di
un traguardo esclusivo dei paesi ricchi. Vaccinazioni e antibiotici sono
ormai una vecchia conquista dell'umanità. Cure a basso costo che molto hanno
fatto in paesi come l'Italia e che molto possono ancora fare.
Non è certo stata l'introduzione delle cure intensive nei primi anni Ottanta
la sola a provocare la riduzione determinante delle morti neonatali in
Europa del nord. Più semplicemente la disponibilità di cure pre e post
natali e l'introduzione degli antibiotici qualche decennio prima ha prodotto
il grande cambiamento. Ma spesso le vecchie e le nuove invenzioni, quelle
che possono veramente ridurre il tasso di mortalità neonatale, non arrivano
là dove più servono. In Asia e in Africa, per esempio, i paesi che insieme
raccolgono i tre quarti dei decessi neonatali hanno un assistente esperto in
meno di un terzo dei parti. In Etiopia solo il 5 per cento delle donne può
contare su un'assistenza competente, e perché la situazione migliori,
spiegano dal Lancet, deve esserci un sostanziale incremento nel numero delle
ostetriche. Ci si deve quindi attivare su due fronti: aumentare questi
specialisti e nel frattempo agire a breve termine per tamponare le perdite
in questa fase di passaggio.
Il primo punto certamente è quello di raccogliere e diffondere informazioni,
perché anche se è un processo lungo e faticoso, l'assenza di stime
periodiche porta all'invisibilità e contribuisce a ritardare la
mobilitazione. Nella carta del Who in cui si precisano le cause di mortalità
nei bambini minori di 5 anni, la categoria più ampia è quella generica
definita da "altro" in cui si nascondono le origini di tutti i decessi di
neonati. La seconda categoria più ampia è quella di "cause perinatali" ma
non è chiara, né completa e se pure include l'asfissia e le nascite
premature, si dimentica di annoverare le gravidanze interrotte negli ultimi
tre mesi (che invece nel documento del Lancet rientrano nei decessi
neonatali). Informazioni più particolareggiate a volte esistono ma
semplicemente non vengono utilizzate. Questo è il caso dei registri che si
tengono nella maggior parte delle postazioni sanitarie, e che spesso sono
ignorati o non sono accessibili da chi detiene il potere decisionale. Dati
che peraltro devono essere letti attentamente perché possono dar adito a
equivoci e a strategie manageriali sbagliate.
Definita la situazione, è necessario elaborare una politica di intervento,
calcolandone costi e benefici. Gli studiosi del Neonatal Survival Steering
Team hanno identificato vari sistemi per promuovere la salute dei neonati,
che comprendono la collaborazione delle famiglie, lo sviluppo di centri per
cure mediche e di assistenza esterna. Alcuni interventi sono più costosi,
altri meno, ma dall'integrazione di queste pratiche si può veramente
ribaltare la situazione, come del resto è già avvenuto in vari paesi poveri.
Non esiste infatti un'unica soluzione: l'azione deve essere molteplice e
coordinata. In assenza di una struttura medica sufficiente, è essenziale
cominciare dalle singole famiglie. L'istruzione sanitaria di base può
incrementare le competenze casalinghe e creare una domanda per cure più
qualificate. Visite che fanno seguito alla nascita del bambino possono
beneficiare madre e neonato. L'inserimento dei neonati in programmi già
esistenti, come quelli rivolti alla salute materna o infantile (si parla di
bambini più grandi) può ridurre i tassi di mortalità con costi marginali. Il
concomitante sviluppo delle cure cliniche specifiche per madri e neonati è
comunque necessario se si vogliono raggiungere quegli obiettivi di
uguaglianza di cui si parla nei Millennium Development Goals. Strutture
ampie, sistemi sanitari efficaci, che richiedono tempo e denaro, ma che non
per questo devono mancare nei programmi per la tutela del neonato.

Bambini a rischio, in attesa di un nome
di SARA CAPOGROSSI COLOGNESI

SIAMO di fronte a una sfida non impossibile, ma neanche banale, ci annuncia
con gravità Richard Horton, direttore del Lancet, elencando i numeri
impressionanti che descrivono le condizioni in cui i bambini vengono al
mondo, oggi, nel Ventunesimo secolo. Ogni anno più di 51 mila donne muoiono
per complicazioni legate alla gravidanza, 11 milioni di bambini non arrivano
ai 5 anni e il 38 per cento di questi muore nel primo mese di vita: il
periodo neonatale. La prima settimana di vita è quella più a rischio, per
non parlare della vita fetale: sono 4 milioni le gravidanze giunte al sesto
mese che non arrivano a termine. Nell'usanza diffusa in molti paesi di non
dare il nome a un bambino fino al compimento della prima o anche della sesta
settimana di vita si legge un senso di inquietudine e di fatalità che noi
abbiamo ormai dimenticato.
Il quarto e il quinto degli otto obiettivi che costituiscono i Millennium
Development Goals (sui quali di recente è convenuta la comunità globale)
prescrivono di ridurre la mortalità di madri e bambini. E da questi
dipendono anche gli altri punti legati al benessere umano, l'uguaglianza e
la riduzione della povertà. Ma, si puntualizza nel documento del Lancet, non
si può raggiungere nessuno di questi traguardi se non si punta il dito sui
"piccolissimi", sul periodo di gestazione e su quello immediatamente
successivo. E i numeri sono impressionanti: la quasi totalità delle morti
neonatali (si parla del 99 per cento) si verifica in paesi a reddito basso o
medio, malgrado la ricerca epidemiologica e gli altri studi biomedici si
focalizzino su quell'uno per cento di morti infantili che avvengono nei
paesi ricchi. Un controsenso che purtroppo si ritrova spesso nella medicina
internazionale: i ceppi di Hiv più studiati, per esempio, sono quelli
"occidentali", non certo quelli predominanti nell'Africa straziata dal
morbo.
La maggior parte delle morti neonatali è nell'Asia centro-meridionale, ma i
tassi più alti si trovano nell'Africa sub-sahariana. Il dato più
sconcertante è che nei 10-15 anni passati ci sono stati pochissimi
miglioramenti in questo quadro agghiacciante. Per chiarire la diversa
percezione, la disuguaglianza tra ricchi e poveri, basti pensare che mentre
da noi, quell'un per cento di neonati che muore è oggetto di inchieste ed è
comunque compianto dalla comunità, in popolazioni che vivono in condizioni
più misere le nascite di bambini morti così precocemente spesso non vengono
nemmeno registrate e passano pressoché inosservate. Una pratica che complica
ulteriormente il già difficile compito di chi deve raccogliere i dati su
questo fenomeno e che spesso si deve arrangiare con numeri approssimativi
emersi da vecchi rilevamenti. Incrementare la disponibilità e l'uso di
informazioni nei programmi e nelle politiche per il controllo della salute
neonatale è essenziale. Eppure le stime del Who sono le prime ufficiali
sulle morti dei piccoli al di sotto del primo mese di vita dal 1995.
In generale si calcola che le principali cause di morte neonatale siano i
parti prematuri (28 per cento), le infezioni severe (26 per cento) e l'
asfissia (23 per cento). Anche il tetano neonatale è responsabile di morti
(7 per cento) per altro facilmente prevenibili. E in effetti proprio sul
tetano ci sono stati progressi rilevanti: ma se parliamo di eliminarlo del
tutto, allora è un altro paio di maniche. Ora la malattia riguarda soltanto
i paesi poveri, ma l'obiettivo di cancellarlo dalla faccia della Terra è
stato più volte rimandato, preferendogli interventi molto più costosi (anche
se spesso necessari) come quello per prevenire la trasmissione dell'Hiv
madre-figlio.
Ma in paesi poveri intervengono altri fattori importanti a mettere a rischio
la vita dei neonati, come le complicazioni durante il parto (o nei mesi
immediatamente precedenti) e il basso peso alla nascita. Alcune di queste
cause sono facilmente risolvibili, altre richiedono più soldi e più tempo,
ma se i neonati (e con loro le madri) non vengono protetti e non diventano
obiettivo di programmi specifici, come purtroppo è avvenuto finora, la
situazione rimarrà immobile per altri quindici o anche vent'anni. "E mentre
noi trascuriamo il problema, ogni ora muoiono 450 neonati", ci ricorda il
Lancet Neonatal Survival Steering Team, "morti dovute per la maggior parte a
cause prevenibili. Il che è inconcepibile nel Ventunesimo secolo".