aspirina due secoli in un acido



dal manifesto.it

Due secoli in un acido

Il ruolo dell'industria farmaceutica durante il nazismo, i legami tra
medicina e mercato.

L'avventura complessa della pasticca più diffusa al mondo che tende ad
assumere il ruolo
pericoloso di una vera e propria panacea

«Aspirina. L'incredibile storia della pillola più famosa del mondo» di
Diarmuid Jeffreys
per Donzelli. Dalle virtù curative della corteccia del salice menzionate su
un papiro
egizio al farmaco della tedesca Bayer nel 1899
FRANCO VOLTAGGIO

Paracelso sosteneva che la natura, in quei medesimi luoghi in cui si
annidano le cause dei
morbi più insidiosi e infausti, ha fissato il sito di cose che servono a
contrastarli con
efficacia. Questa tesi troverebbe una speciale conferma nell'antichissima
scoperta della
proprietà di una pianta, il salice, sorgente in luoghi paludosi -
responsabili, secondo
una remota tradizione, della mala aria che oggi sappiamo imputabile a un
parassita del
sangue trasmesso dalla puntura della zanzara anofele - la cui corteccia,
macerata e
assunta, abbassava drasticamente la febbre e leniva il dolore. A dare la
prima notizia
delle virtù del salice è un manoscritto egiziano, risalente al 1534 a. C.
(ma forse ancora
più antico), che dal nome dell'egittologo tedesco che lo pubblicò nel 1875,
è noto come
«Papiro Ebers». Il medico di Ebers mostra una conoscenza approfondita di
molte patologie
(una delle quali, detto per inciso, è stata identificata addirittura con
l'Aids) e propone
un lungo elenco di rimedi, tutti rientranti in una farmacopea incentrata
prevalentemente
sulla elaborazione dei vegetali. Tra questi, per l'appunto, la corteccia
del salice,
contenente i principi attivi dell'acido salicilico, elemento cruciale
dell'aspirina, le
cui vicende ci vengono ora raccontate, con vivacità e un'imponente massa di
dati, da un
giornalista inglese, Diarmuid Jeffreys, in Aspirina (Donzelli, pp. 314, ?
13, 90).

Due fate e un farmaco

Quella dell'aspirina è una vera, complessa avventura, nella quale momenti e
situazioni
della storia generale o esterna si intrecciano con quelli della storia
interna della
scienza. Di qui l'approccio seguito da Jeffreys nella sua ricostruzione
che, sia pure
frammezzo a qualche ridondanza e ingenuità, ha l'indubbio merito di mediare
tra l'una e
l'altra. Questa mediazione, sempre necessaria nella storia della scienza,
lo è tanto di
più quando oggetto dell'indagine è un medicinale, alla cui nascita
presiedono due fate,
rispettivamente avvolte in un manto candido e in una veste nera: una, per
così dire
disinteressata, che si cura di trasformare un rimedio naturale in un
farmaco, l'altra, per
contro, decisamente interessata, che ne fa un prodotto commerciale. La
prima è la ricerca,
la seconda l'industria farmaceutica. Va comunque detto che nessuna delle
due è del tutto
buona o del tutto cattiva. Se, infatti, la ricerca nasce dall'antica
passione, tipicamente
rinascimentale, di una disciplina che fabbrichi medicine, dando così vita
alla chimica e
realizzando il sogno di Paracelso, non c'è il minimo dubbio che questa
magnifica
ossessione ha qualcosa di inquietante: a pensarci bene, infatti, inventare
chimicamente
una medicina, sostituendola al rimedio naturale, non equivale a forzare la
natura, a
tradirla, separando l'uomo da essa? A sua volta, se l'industria investe
nelle indagini
chimiche non lo fa forse per venire incontro alle esigenze di medici e
malati? Nel
contempo, così facendo, non tempera il sottile egoismo del puro furor
conoscitivo,
conducendo le cose in modo tale che il prodotto risponda realmente ai
bisogni, sia, in
altre parole, un farmaco etico? Se è così, tutte le volte che l'industria
produce un
farmaco, dovremmo assistere a un circolo, in cui correttezza della
sperimentazione e della
riflessione teorica si coniughino virtuosamente con le procedure di
produzione e
commercializzazione e i due protagonisti dell'impresa sonoequamente
premiati, lo
scienziato con il riconoscimento nazionale e internazionale, l'industriale
con un giusto
profitto. Purtroppo a dominare la scena è spesso una combinazione di
«opposti egoismi»,
con buona (si fa per dire) pace del pubblico cui vengono date speranze in
cambio di
certezze, quando poi non accade che la fortuna di un farmaco consente
operazioni
commerciali e politiche per lo meno improprie. Con l'aspirina, la medicina
più diffusa del
pianeta, non tutto è andato per il verso giusto e, a dispetto del
trionfalismo di
Jeffreys, oggi questo farmaco tende ad assumere il ruolo pericoloso di una
vera e propria
panacea. Vediamo perché.

Cominciamo dal nome. Aspirina è la versione italiana dell'acronimo tedesco
Aspirin - il
nome con cui l'aspirina fu messa in commercio nel 1899 dall'azienda tedesca
Bayer (in
origine fabbrica di coloranti) - in cui «a» si riferisce al processo di
acetilazione cui
viene sottoposto l'acido salicilico, mentre «spirin» rinvia al latino
Spiraea con cui è
designata la pianta. La denominazione tecnica del farmaco era (e tale è
rimasta) Asa, vale
a dire «acido acetilsalicilico». Il prodotto immesso nel mercato conservava
le proprietà
analgesiche e antipiretiche dell'acido salicilico ma perdeva, almeno in
misura rilevante,
un negativo effetto collaterale: la corrosione delle pareti dello stomaco
associata
all'assunzione dell'acido non trattato. Introdotto nel mercato dalla Bayer,
l'aspirina
ebbe subito un enorme successo: si scoprì che combatteva efficacemente
febbre, nevralgia,
cefalea e che nel trattamento di malattie come l'influenza era ben più che
un semplice
sintomatico. I protagonisti della produzione del farmaco «giusto» furono
una équipe di
scienziati, Heinrich Dreser, Felix Hoffmann, Arthur Eichengrün e Carl
Duisberg, il capo
della Bayer, che aveva promosso la formazione del gruppo di ricerca.
Avevano tutti il loro
merito: gli scienziati per aver condotto a buon fine uno studio mirato che
prendeva le
mosse dalle indagini di chimici della prima metà del XIX secolo (a loro
volta ispirate
dalle osservazioni meramente empiriche condotte sulle proprietà dei
derivati dal salice da
uno studioso inglese del XVIII secolo, il reverendo Edward Stone), Duisberg
per aver messo
a disposizione le risorse dell'azienda, specie il sapere competente
acquisito dalla Bayer
nella lavorazione dei derivati del carbone. Va aggiunto che questo merito
era tanto più
reale, quanto più confortato dalla risposta entusiastica data da medici e
pazienti. Tutto
bene, dunque? Per niente. Cominciarono le rivalità tra gli scienziati e
venne a crearsi la
leggenda storiografica che voleva Hoffmann quale unico inventore
dell'aspirina, a tutto
detrimento di Eichengrün - a parere di Jeffreys il vero artefice
dell'invenzione - che nel
1941 doveva scoprire che nel suo paese non era neppure menzionato accanto a
Hoffmann e a
Dreser (ma forse, va aggiunto, perché era ebreo).

La vera vittima, se così si può dire, del successo fu però Duisberg. Da
industriale probo
e onesto, sinceramente preoccupato di fabbricare e distribuire un farmaco
etico, si
trasformò in uno dei più pericolosi e spregiudicati squali dell'industria
farmaceutica
internazionale. Rinviamo il lettore al libro di Jeffreys per addentrarsi
nel ginepraio, in
cui si ficcò Duisberg, fatto di complicati rapporti con il mercato inglese
e americano, di
contese sui brevetti, di intricate strategie di acquisizioni e cessioni
aziendali. Ma vi è
un punto su cui ci preme attirare l'attenzione. Dopo la I guerra mondiale,
e in
coincidenza con la ripresa economica della Germania, le due grandi
dell'industria chimica
tedesca, la Bayer di Duisberg, e la Basf di Carl Bosch, si fusero creando
un colosso, la
«Ig Farben», che schiacciò la concorrenza e prese a produrre di tutto, dai
coloranti ai
farmaci agli esplosivi. E' vero che la fusione era stata voluta soprattutto
da Bosch, ma è
altrettanto vero che Duisberg sino alla morte (1935) conservò una posizione
chiave nel
direttivo della «Ig Farben» e finì con il coprire con il suo prestigio più
di
un'operazione politica nefasta. Sia lui che Bosch furono messi in trappola
da Hitler e
costretti prima a sovvenzionare il nazismo, poi a orientare la strategia
produttiva del
gruppo a perversi fini politici (la «Ig Farben» finanziò le ricerche
mediche sugli
internati del lager, ridotti a cavie umane da medicastri come Mengele, e
una società
controllata, la «Degesch», produsse il micidiale «Zyklon B», il gas di cui
restarono
vittime nei campi di sterminio ebrei, omosessuali, zingari, prigionieri
politici). Fu
quella della «Ig Farben» una tipica tragedia tedesca. Hitler era un uomo
incredibilmente
stupido e volgare, ma aveva, come tutte le persone volgari, il genio
dell'idiozia.
Incapace di trovarsi a suo agio nell'universo dell'intelligenza, di
muoversi al livello
alto di grandi scienziati e industriali, era però capace di volare basso e
fiutare così le
vergogne dei suoi interlocutori. Capì che poteva abbindolare i protagonisti
della chimica,
persone a lui decisamente superiori per cultura e pieno di disprezzo per i
nuovi gangster
che si erano impadroniti della Germania, facendo leva su due passioni: il
comune «amore
per la patria tedesca» e quello, ben più decisivo, per il potere e il
profitto. Fu così
che altezzosi manager industriali finirono con il trovarsi allo stesso
livello degli
innumerevoli Herr Mayer (Pinco Pallino) del Terzo Reich. Ma la tragedia
della Bayer e
dell'aspirina non può dirsi compiuta. C'è ancora un'altra cosa.

A cosa serve una panacea?

Con un entusiasmo, a parer nostro eccessivo, Jeffreys chiude il libro
esaltando le
magnifiche sorti e progressive dell'aspirina. Richiamandosi alle migliaia
di contributi di
cui è affollata la letteratura (ricordiamo un articolo pioneristico sui
test di acido
salicilico e acido salicilurico comparso agli inizi degli anni `60 su «Ciba
Zeitschrift»),
nonché alle innumerevoli prove epidemiologiche, l'autore rammenta che
l'aspirina non è
solo un ottimo analgesico e antipiretico, un salvavita forse
insostituibile, ma offre
possibilità insperate per il trattamento delle malattie cardiocircolatorie
e persino dei
tumori. La base speculativa di queste opportunità terapeutiche è
sicuramente avvincente e
interessante. Per quanto concerne in particolare il cuore, una patologia
grave come la
trombosi delle coronarie può essere evitata eliminando la formazione dei
trombi, vale a
dire le forme di coagulazione del sangue che hanno luogo nei vasi sanguigni
danneggiati.
L'aspirina può allora essere un ottimo anticoagulante ed esserlo,
paradossalmente, in
virtù di quello che resta pur sempre il suo tallone d'Achille, vale a dire
la tendenza a
favorire - sia pure in forma lieve- il sanguinamento. Per di più tra gli
anticoagulanti
presenta l'indubbio vantaggio di non implicare l'effetto collaterale della
tossicità.
Insomma non può che far bene e può certamente aiutare, se non a prevenire
un infarto
cardiaco, almeno a sventare la possibilità di un secondo episodio. Questo,
tuttavia, non
ci autorizza ad affermare che la migliore, se non unica, cura delle
malattie del cuore è
l'aspirina e, semmai ci invoglia a chiederci: l'assunzione di questo
farmaco rende inutile
il ricorso alla combinazione di più farmaci? Esclude l'importanza della
prevenzione da
attuarsi mediante un corretto regime di vita? Le indicazioni
epidemiologiche sono davvero
sufficienti o è piuttosto vero che, come afferma Cavicchi nella Medicina
della scelta, una
qualsiasi strategia terapeutica va ricondotta a un atto medico che, anche e
soprattutto
per l'opzione farmacologica, va messo a punto caso per caso, senza
trascurare le
indicazioni epidemiologiche, ma senza, nel contempo, facendosene soffocare?
Ma, allora, se
le cose stanno così, a che, ma soprattutto a chi serve un solo farmaco, una
panacea
esclusiva? Una bella domanda, davvero.