[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
totem della crescita e autismo sociale
- Subject: totem della crescita e autismo sociale
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 24 Jan 2005 06:52:08 +0100
da aprile 2004 Il totem della crescita: Autismo sociale. Il caso Brescia Una città da primato economico, ma a bassa qualità della vita Dino Greco* Parlare del "Totem della crescita" per me significa immediatamente pensare alla mia terra, a Brescia, la mia città, non solo perché questa è la realtà che conosco meglio, ma perché l'onnivora voracità dello sviluppo industriale intensivo che la innerva è perfettamente rappresentativa della realtà attuale più vasta. A Brescia, su un milione di abitanti, 215.000 sono addetti all'industria. C'è la piena occupazione, e questo è certamente un bene. L'intera società è "messa al lavoro", l'organizzazione sociale, i tempi della vita sono ferramente scanditi dai tempi della produzione secondo una sequenza ripetitiva che ha il sapore dell'eternità. Ogni scarto è diatonico, e se è insistente è patologico. Il nostro è un grande popolo di produttori e di consumatori, dove regna il mito del lavoro e del guadagno rapido. Siamo ai primi posti nella graduatoria nazionale del reddito procapite; c'è uno sportello bancario ogni mille abitanti. Nello stesso tempo si diffonde di nuovo l'idea che lo studio prolungato significhi sottrarre braccia al lavoro e al guadagno. E ci ritroviamo con un drammatico processo di descolarizzazione: dopo la scuola dell'obbligo, cresce l'abbandono. Sarà forse ingeneroso generalizzare, ma la formula "ricchi e ignoranti" rende l'idea. In compenso stiamo raggiungendo il milione di automobili, una per abitante, compresi i bambini in culla. Si vendono da noi più Mercedes e Smart che ovunque. Non importa se il tasso di inquinamento dell'aria è insostenibile e marmitte catalitiche, circolazione a targhe alterne, domeniche ecologiche hanno l'efficacia di un impacco caldo su una gamba di legno. Il lavoro è garantito. Ma gli infortuni sul lavoro - accettati peraltro con discreto fatalismo - non sono mai sotto i 25.000 l'anno. E se per caso scavi sotto un sito industriale scopri enormi sedimenti di terreno inquinato, che raccontano la storia di un'industrializzazione selvaggia, condotta senza scrupolo alcuno. La cementificazione del territorio non ha più soluzione di continuità e lo sventramento dei terreni agricoli ha raggiunto dimensioni abnormi. Una stupefacente proliferazione di ipermercati, centri commerciali di ogni tipo e dimensione, in una concentrazione che è fra le più alte d'Europa, si offrono a quella perversione del consumo che è il consumismo, e sono divenuti ormai meta domenicale di gite di massa per famiglie, luogo d'elezione della ricreazione e dello svago. Naturalmente ne consegue un'enorme produzione di rifiuti solidi, che a loro volta inducono il business dello smaltimento, o mediante discariche o mediante inceneritori a tecnologia avanzata e avanzatissima, che promettono emissioni sotto controllo e lauti introiti a chi ne è proprietario. E può innescarsi così un meccanismo diabolico per cui maggiore è il rifiuto prodotto, più si brucia e più si guadagna, ma anche più si inquina e più si compromette la raccolta differenziata dei rifiuti destinata al riciclaggio delle materie seconde. In una logica industriale priva di limiti, tutto ciò che può entrare nel processo di valorizzazione del capitale (e generare profitto) viene utilizzato e consumato. Non c'è freno inibitorio, né morale, né controllo sociale che tengano. Acqua, aria, suolo, ma anche braccia, fatica, salute, diritti delle persone: tutto è divorato dalla pregnanza del modello mercatocentrico. Questa è la fede nella crescita illimitata. L'azzardo di un sistematico sconfinamento oltre il limite, la rincorsa di una crescita produttiva fine a se stessa, da inseguire senza domandarsi che senso abbia. Obbligatoriamente sapendo ogni giorno e ogni ora della vita cosa fare, come farlo, come andare, senza sapere dove. E lasciando un sacco di scorie dietro di sé. E' una specie di autismo sociale, di diffusa cecità circa i fini dell'agire umano, una malattia fortemente contagiosa. Ma questa è l'ideologia oggi dominante in tutto il mondo, centrata sul dogma del Pil come "bene in sé", per cui il benessere individuale e sociale si identifica con reddito e consumo, e quindi sulla competitività come strumento fondamentale non solo nei rapporti di mercato tra imprese e paesi, ma nelle stesse relazioni sociali e interpersonali, producendo la rottura dei legami solidali, grettezza, egoismo, cannibalismo sociale, razzismo. Certo, nell'esperienza di ogni sindacalista e - in qualche misura - di ogni operaio c'è la consapevolezza che il buon esito di una performance aziendale è anche la condizione per la redistribuzione della ricchezza prodotta. Come sindacalista debbo pensare che i diritti dei lavoratori non sono antinomici con una prospettiva di sviluppo delle imprese. Ma non posso evitare di farmi una domanda apparentemente paradossale: e se invece lo fossero? Se diritti vitali, la soddisfazione di bisogni essenziali come quelli di democrazia e di dignità, di solidarietà e di accesso alla cultura, di qualità dell'aria che si respira, dell'acqua che si beve, del suolo su cui si vive, entrassero in contrasto con il profitto, con la competitività, con la crescita di non importa che cosa? E se tutto questo imponesse di fermarsi? Proviamo a considerare, al di là dei trionfalismi di maniera, le caratteristiche intrinseche all'attuale "modello di sviluppo". L'idolatria del mercato e il culto del privato non solo portano ad attribuire a tutto ciò che è "pubblico" inefficienza e mediocrità, ma inducono una vera e propria rimozione del concetto di "bene comune". L'antico anelito all'uguaglianza viene retrocesso a rivendicazione di pari opportunità nella competizione per il successo individuale. Le disuguaglianze non solo aumentano ma vengono considerate favorevolmente come "motore" dello sviluppo, in un'economia interamente abbandonata alle convenienze dell'impresa. E se proviamo a usare parametri diversi da quelli di uso corrente per l'identificazione del benessere sociale, ci troviamo a fare i conti con il numero crescente delle malattie professionali, la dimensione della malattia mentale e della tossicodipendenza, il numero dei suicidi, il rischio di vulnerabilità irreversibile dell'ambiente fino alla compromissione delle condizioni necessarie alla stessa riproduzione della specie umana. A me pare che la necessaria risposta sia: cercare insieme un'altra strada. Facendo i conti con la parte migliore della storia e della tradizione operaia solidaristica e partecipativa, non solo recuperando l'obiettivo della redistribuzione sociale della ricchezza come architrave della strategia del sindacato, ma impegnandoci nella contestazione del paradigma fondato sulla crescita, per la promozione di modelli di vita più sobri, con il contenimento dei consumi superflui, lo sviluppo dei consumi sociali, la rimessa in valore e il rispetto dei beni comuni. Non si tratta certo di opporre ad un fondamentalismo industrialista un fondamentalismo antindustrialista. Si tratta di elaborare una proposta politica forte, capace di diventare riflessione estesa, e di far breccia nel conformismo produttivistico e consumistico da cui anche il mondo del lavoro è tutt'altro che immune, per trasformarsi in sapere condiviso e in azione collettiva. Difficile? Indubbiamente. Ma, ripeto, necessario. * segretario Cgil di Brescia
- Prev by Date: l'uomo e il suo rifiuto: una relazione complessa
- Next by Date: quel bianco più bianco che avvelena noi e il pianeta
- Previous by thread: l'uomo e il suo rifiuto: una relazione complessa
- Next by thread: quel bianco più bianco che avvelena noi e il pianeta
- Indice: