i costi collettivi della città dispersa



A proposito di Città dispersa
Data di pubblicazione: 30.03.2004

Autore: Salzano, Edoardo

Testo dell'intervento alla presentazione del libro I costi collettivi della
città dispersa, di Roberto Camagni, Maria Cristina Gibelli, Paolo Rigamonti,
(Alinea editrice, Firenze 2002), tenuta al Politecnico di Milano l'1 luglio
2002. Il testo è pubblicato sulla rivista "SR - Scienze regionali", n. 2.

Vi sono diverse ragioni per cui vale la pena di leggere il libro di Camagni,
Gibelli e Rigamonti. In primo luogo, perché affronta un problema reale,
imponente, cui è legato il destino della città; se è vero, come sostiene
Francesco Indovina, che "questa nuova strutturazione dello spazio tende a
diventare una modalità ricorrente di organizzazione dello spazio nel nostro
paese" (F. Indovina, La città diffusa, DAEST 1990, p. 22). In secondo luogo,
perché affronta quel problema sulla base di una posizione culturale, di una
idea di città, che condivido: compattezza, mixité, vicinanza,
riconoscibilità, confine mi sembrano infatti attributi necessari della città
in quanto tale. Ancora, perché inquadra l'argomento in una prospettiva non
provinciale, ma aperta all'Europa e attenta anche a ciò che avviene oltre
Atlantico: sebbene - mi sembra - senza alcuna subalternità culturale; ciò
che è abbastanza inconsueto tra quanti "parlano le lingue". Infine, perché
appoggia le sue conclusioni su un lavoro di misura economica che mi sembra
molto serio e rigoroso - benché questo non sia il mio campo.

Sulla questione dei numeri.
Nel lavoro di Camagni, Gibelli, Rigamonti si opera una distinzione molto
corretta tra costi collettivi e costi pubblici (ho apprezzato molto l'
attenzione continua a precisare il significato dei termini adoperati). E si
elencano in modo che mi sembra completo i temi "cruciali" del costo della
dispersione urbana (pp. 25-26). Li riassumo così:
- il costo economico del consumo/spreco dei suoli agricoli e dei beni
naturali,
- il costo ambientale delle esternalità negative scaricate sui comuni vicini
in termini di mobilità,
- il costo di un ammortamento accelerato della città centrale
- i costi di impatto ambientale relativi al consumo di risorse finite o
scarse
- i costi sociali in termini di perdita dell'"effetto città" e in termini di
segregazione
- i costi di inquinamento estetico
- il costo pubblico per la costruzione di infrastrutture di trasporto.
All'inizio del capitolo dedicato all'analisi quantitativa si riprende l'
elencazione delle categorie di costo, polarizzandola sostanzialmente su
quelli attinenti alla mobilità, al traffico, alla costruzione e gestione di
reti e di servizi pubblici (pp. 79-80).
Dalla successiva analisi quantitativa mi sembra che scompaiano, o che
vengano considerati solo metaforicamente ed allusivamente, alcuni dei costi,
quelli
- dello spreco di risorse naturali, se non in termini di estensione delle
aree consumate o dell'energia impiegata nei trasporti,
- dell'ammortamento accelerato della città centrale,
- della perdita dell'"effetto città" e della segregazione,
- dell'inquinamento estetico.
Non credo affatto che questo dipenda da scarsa attenzione degli Autori. E
però da questo rilievo vorrei far scaturire due osservazioni:

La prima, di carattere pratico: mi sembra che comunque il costo collettivo
della dispersione urbana sia molto maggiore da quello quantificato dal
lavoro di analisi quantitativa il quale, appunto, deve trascurare alcune sue
componenti. E questo, se fosse vero, mi sembrerebbe un elemento da
sottolineare.

La seconda, di carattere teorico: nonostante gli interessanti studi empirici
di alcuni studiosi, non mi sembra che le attuali categorie della scienza
economica (e quindi della sua derivata applicativa, l'econometria) siano
pienamente capaci di misurare il valore - e quindi il costo - dei beni non
riducibili a merci: il valore che non sia valore di scambio. E quei quattro
costi ai quali mi riferivo mi sembrano esprimere appunto beni e valori d'
uso.

Ma veniamo ad argomenti che conosco meglio.

Sulla definizioni dei modelli di urbanizzazione
Molto opportunamente nel libro si precisa il termine adoperato ("città
dispersa") in relazione a quelli presenti in letteratura (pp. 17-18).
Condivido in particolare la volontà di distinguere la propria analisi (e il
termine adoperato per individuarne l'oggetto) da quelle che in qualche modo
tendono a prendere atto passivamente del nuovo "modello urbano". Riprendendo
i termini di ville eparpillée, ville éclatée, mitage urbain, si vuole
insomma scegliere un approccio dinamico ed evolutivo, meno legato alla sola
descrizione
fenomenica, maggiormente attento alle pratiche sociali ed economiche e alle
possibili conseguenze sul benessere collettivo e dulla sostenibilità di
lungo periodo.
Implicita in questa scelta (ma del tutto esplicita per chi legga il libro) è
la presa di distanza dalle interpretazioni giustificazioniste di questo modo
di occupare il territorio e di organizzare l'insediamento dell'uomo. E il
rifiuto del modello analizzato è già chiaro nelle prime pagine del libro, la
dove si definisce in modo secondo me convincente la dispersione urbana:
(.) possiamo identificare la dispersione urbana recente con un modello di
urbanizzazione a bassa densità relativa, dilatato fino ai margini estremi
della regione metropolitana, ad alto consumo di suolo, discontinuo,
tendenzialmente segregato e specializzato per destinazioni monofunzionali,
prevalentemente dipendente dall'automobile, fondato su processi di filtering
down che consentono l'accesso dell'abitazione in proprietà a gruppi sociali
a reddito prevalentemente basso, caratterizzato dall'assenza di strumenti di
pianificazione strategica, e quindi con debole capacità di pianificazione e
gestione alla scala vasta dei processi di trasformazione insediativa (p. 17)
Mi domando però se il rifiuto non apparisse più netto ove si facesse un
ulteriore passaggio. Se al termine "città dispersa" si sostituisse quello di
"urbanizzazione dispersa", o "dispersione urbana" o - meglio ancora -
"dispersione insediativa", chiarendo così che a questa forma di
urbanizzazione non compete il titolo di "città", comunque temperata da
attributi riduttivi.
Sono espressioni, quelle che suggerisco, che pur vengono impiegate nel libro
come sinonimi di quello scelto come "maggiore" Capisco però che gli editori
ragionano in un altro modo, e che "città dispersa" è un titolo più
accattivante che altri termini magari più precisi. Del resto, il titolo che
avevo proposto per il mio ultimo libro era "La Storia e la Norma", e l'
editore ha preferito "Fondamenti di urbanistica" per ragioni di appeal
commerciale.

Sul confronto europeo
La cosa che più mi ha affascinato e sorpreso (e non parlo adesso del libro,
ma della realtà che esso restituisce) è l'apprendere che non solo in gran
parte d'Europa il fenomeno della diffusione urbana esiste (sebbene forse sia
necessario distinguere i diversi modi in cui avviene), ma che in tutti i
paesi d'Europa (e anche negli stessi USA) si dia luogo alle medesime
riflessioni sul che fare, e in particolare sul come correggere quella
distorsione del liberalismo che è il neoliberismo deregolativo.
Si afferma infatti conclusivamente, dopo averlo ampiamente documentato, che
A partire dagli anni '80 la "città dispersa" si è affermata anche in Europa,
per effetto di stili abitativi e di tendenze localizzative delle attività
economiche che hanno privilegiato gli spazi suburbani, ma anche per effetto
delle politiche di deregolamentazione che, in molti paesi, hanno
delegittimato la pianificazione d'inquadramento d'area vasta consentendo l'
affermarsi di politiche locali svincolate da un quadro di coerenze
complessive (p. 150)
Ecco, semmai mi verrebbe voglia di aggiungere che, a differenza che in altri
paesi europei, in Italia non si è delegittimata solo la pianificazione d'
area vasta, ma la pianificazione tout court. Per cui negli altri paesi la
reazione di oggi è reazione rispetto a un fenomeno che - in Francia come in
Germania, in Olanda come in Gran Bretagna - si è sviluppato in modo meno
perverso e più controllato che da noi.

Sulla "pianificazione strategica d'area vasta"
Nel libro si fa più volte riferimento alla "pianificazione strategica d'area
vasta": sia individuando nella sua assenza o nella sua debolezza, e nella
deregolamentazione urbanistica, una delle cause delle dispersione
insediativa, sia proponendo nella ripresa della pianificazione strategica d'
area vasta uno (e forse il principale) degli strumenti impiegabili per
contrastare il fenomeno.
Concordo del tutto con questo insistito rilievo. È indubbio che la
frantumazione localistica delle decisioni sull'uso del suolo è una ragione
importante della dispersione urbana quando non è corretta e sorretta da una
efficace politica di area vasta. È indubbio che non il principio di
sussidiarietà, ma la "banalizzazione e (.) interpretazione in chiave
deregolativa" (p. 55) di quel principio è stata l'ideologia che ha
consentito la prassi della dispersione. È indubbio che restituire (o, in
Italia, conferire) potere e centralità al governo d'area vasta della
dinamica del sistema insediativo è un passaggio decisivo per ridurre la
massa di sprechi connessi alla dispersione insediativa.
Vorrei però chiedere a mia volta una precisazione, che non è solo
terminologica.
A me sembra che il termine "pianificazione strategica" sia abbastanza
ambiguo. Che vi siano vari modi di esprimere il coordinamento sovracomunale.
Che in definitiva sia necessario precisare che "la pianificazione d'area
vasta" che è richiesta oggi è una pianificazione che compia scelte sul
territorio secondo modalità, e sulla base di poteri, che rendano le
decisioni di pianificazione "opposables au tiers": privati e pubblici che
siano.
La pianificazione d'area vasta che è necessaria richiede certo la visione di
lungo periodo (la strategia), la capacità di disegnare e proporre scenari,
di costruire su questi il consenso. Ma essa deve essere anche regolativa.
Deve proporre, a alla fine imporre, vincoli, condizioni, confini (gli Urban
Growth Boundaries e i Red Contour - p. 62), deve stabilire invarianti e
condizioni non negoziabili. Cero,non in modo impiccione, come ha presunto di
fare a volte la pianificazione tradizionale, ma rispettando sul serio il
principio di sussidiarietà correttamente inteso.
Mi sembra che la necessità di questa pianificazione sia chiara agli Autori
del libro, i quali la sostengono non solo per le personali convinzioni, ma
sulla base di un'ampia analisi di ciò che si sta muovendo fuori dai confini
dell'Italia. Come quando si afferma che, in Europa,
non emergono tendenze alla deregolamentazione urbanistica e alla
semplificazione procedurale a livello comunale senza uno speculare
rafforzamento dei compiti di inquadramento strutturale, degli ambiti di
decisione non negoziabili attribuiti ad enti di pianificazione di livello
intermedio (p. 75)
E quando si ricorda, citando Dino Borri, che prevale la direzione di
una presa di distanza dai modelli di pianificazione strategica di
derivazione "aziendale" praticata negli anni '80, e una precisa
preoccupazione che l'"interazione", nei processi di pianificazione, anche se
certamente necessaria, non sia però sufficiente a garantire risultati
socialmente desiderabili e di lungo periodo, ma che anzi rischi di tradursi
in forme continuamente rinnovate di deregolamentazione e di " ad hoc-isme"
(.) se non è accompagnata da alcune regole formali condivise che impegnino i
differenti partner sul piano etico (p. 73)
Del resto, mi sembra che anche in Italia, sia pure con diversità e
approssimazioni, ci si muova nelle stessa direzione: in quella, cioè di
un approccio top-down - sia pure corretto da procedure di concertazione
intergovernativa, consultazione degli interessi e coinvolgimento della
popolazione - che garantisca autorevolezza,stabilità ed efficacia all'azione
pubblica in materia di salvaguardia ambientale e salvaguardia sociale (p.
73)
Mi riferisco ad alcune leggi urbanistiche regionali dell'ultimo decennio, da
quelle della Toscana, della Liguria e del Lazio a quelle della Basilicata e
dell'Emilia Romagna, nelle quali vorrei sottolineare tre elementi che mi
sembra vadano in quella direzione.
- il carattere strutturale (e non solo strategico) dei momenti e strumenti
sovracomunali della pianificazione,
- l'efficacia (sia pure spesso solo indiretta attraverso la pianificazione
comunale) delle scelte della pianificazione d'area vasta,
- la distinzione - nelle pratiche di concertazione - tra il ruolo degli
interessi pubblici e di quelli privati, e quella tra l'attore responsabile
del procedimento e quelli consultati.

Sul "che fare"
Concordo infine pienamente con le indicazioni concernenti il "che fare",
contenute nell'ultima pagina del libro.
Concordo con le tre "direttrici strategiche che emergono" in ambito
internazionale: realizzare un modello "giudiziosamente compatt0"; integrare
le politiche di urbanizzazione e le politiche di trasporto pubblico;
aumentare la diversificazione funzionale (la mixitée) alla scala locale.
Concordo ugualmente con le "nuove regole" proposte: il divieto di nuove
urbanizzazioni di frangia in assenza di piani sovracomunali (a condizione
che questi abbiano un efficace carattere regolativo); l'obbligo alla
perimetrazione di un preciso confine di crescita (i Red Contours e le Urban
Growth Boundaries, dovrebbero costituire un limite invalicabile e una
invariante strutturale).
A queste direttive e a queste regole ne aggiungerei però un'altra. Che la
positiva tendenza alla compattazione e alla densificazione, che le
auspicabili politiche orientate al recupero delle aree urbane centrali, non
si traducano in un'indiscriminata occupazione edilizia degli spazi ancora
liberi, né di quelli a più alto gradiente di trasformabilità. Che, anzi, gli
spazi liberi e liberabili delle aree urbane, e gli spazi e i tracciati
dotati di qualità naturali e storiche delle aree della dispersione
insediativa, vengano ricomposti in un disegno volto alla costruzione di un
sistema, una rete degli spazi di qualità storica, naturale, sociale,
liberamente fruibili e percorribili: una sorta di alternativa, o almeno di
controcanto, alla continuità della rete formata dagli edifici ed dalle
strade.