il paradosso dell'economia ecologica



Il paradosso dell'Economia ecologica e lo sviluppo sostenibile come ossimoro
Serge Latouche, Université de Paris XI

Intervento del 30 settembre 1998 al Seminario internazionale di studio dell'
Università di Padova

I rapporti tra economia ed ecologia si configurano sotto il segno del
paradosso. Già, a livello etimologico, queste due parole sono quasi
sinonimi. Ambedue si collocano sotto l'ala rassicurante dell'Oikos (la casa,
il patrimonio, la nicchia) eppure è noto che gli ecologisti più coerenti
sono diventati critici acerrimi dell'economia intesa come teoria (lo stesso
Marx, non viene da loro assolto) e avversari decisi dell'economia come
pratica. Il fatto è che, assegnando nel 1615 il titolo di. "Traitè d
'Economie politique" a quel che Aristotele avrebbe definito con orrore
"Scienza dell'accumulazione nazionale", o Crematistica, Antoine de
Montchrétien, l'economista mercantilista francese, ha finito per creare una
confusione destinata a durare nel tempo.La definizione di una cosa con il
suo contrario forse non era del tutto innocente, e ciò spiega il successo e
la persistenza del malinteso.Affermando che un'umanità, composta da atomi
individuali, mossi soltanto dai propri interessi egoistici - che
attribuiscono a se stessi ogni diritto sulla natura e sulle altre specie
viventi - avrebbe raggiunto il massimo del benessere e per la grande
maggioranza, in virtù di una "mano invisibile", fatto sì che la scienza
economica abbia sostenuto ed incentivato la più straordinaria impresa di
distruzione del pianeta.
Nel mettere in atto tale programma, e favorendo un'accumulazione senza
limiti, stimolata dalla competizione senza freni, l'economia mercantile e
capitalista, ormai completamente mondializzata, si sforza di eliminare
qualsiasi riferimento all'Oikos, qualsiasi forma , ambientale o culturale,
che si sottragga alla mercificazione e alla logica del profitto. Il
tentativo di conciliare lo sviluppo economico e la preservazione
dell'ambiente con la parola "sviluppo sostenibile" è un esempio tipico di
una soluzione verbale.Così, dobbiamo vedere prima i limiti di questo mostro
chiamato "economia ecologica", poi dedurre le contraddizioni dello sviluppo
sostenibile.

I limiti dell'economia ecologica.

Da un certo punto di vista, la "natura" e alcuni aspetti dell'ambiente
stanno al centro dell'economia, nella versione degli economisti
classici.Nell'economia capitalistica, la natura è intesa, infatti, come una
madre avara, e la scarsità occupa un posto centrale nell'economico.Alla fine
la natura è stata espulsa dall'economia, e tale espulsione si è resa
necessaria per affermare il dogma dell'armonia naturale degli interessi.Qui
c'è un paradosso: la natura ostile è pur tuttavia priva di valore.
L'avarizia della natura non riguarda tanto la limitatezza di materie prime,
ma la necessità della loro trasformazione con il duro lavoro. La scarsità di
"utilità" mercantile coesiste dunque con l'abbondanza di risorse naturali.
La natura viene posta fuori legge dall'economia. Dice JeanBaptiste Say, "Le
ricchezze naturali sono inesauribili perché, in caso contrario, non potremmo
ottenerle gratis. Poiché non possono essere moltiplicate né esaurite, non
sono oggetto della scienza economica". Il fatto più sorprendente è che un
secolo dopo, quando il Club di Roma ha lanciato l'allarme sull'esaurimento
delle risorse naturali, si sono sentite dichiarazioni simili da parte di
molti grandi economisti. Senza contare che si insegna ancora agli studenti,
nelle università, che aria e acqua sono risorse illimitate, quindi non sono
beni economici. Il premio Nobel, Robert Solow, precisa: "E' molto facile
sostituire le risorse naturali con altri fattori. Perciò in linea di
massima, non vi è alcun problema; il mondo può andare avanti anche senza
risorse naturali. Il loro esaurimento è semplicemente un evento, non una
catastrofe". Cos'è successo?Annunciando, intorno al 1880, sotto l'influenza
di Philip Wicksteed, Knut Wicksell e John Bates Clark - che i fattori
naturali di produzione (in particolare il suolo) sono riconducibili a due
soli fattori, capitale e lavoro, gli economisti neo-classici eliminavano
l'ultimo legame con la natura.L'esclusione della natura è un retaggio
pesante, cui non è estraneo il dogma metafisico dell'armonia naturale degli
interessi. Questo postulato, che nega i conflitti tra gli uomini ma è
ottimale dal punto di vista della crescita e dello sviluppo economico, è
anch'esso, come la scarsità, al centro dell'economico. La conquista della
natura e la sua costituzione in avversario radicale del genere umano fondano
il dogma di un interesse comune di tutta l'umanità, che è la base su cui
poggia l'ideologia dell'economico. Tuttavia, l'unico contenuto tangibile
dell'interesse comune dell'umanità è la lotta contro la natura. La
potenziale infinitudine della natura giustifica la cooperazione tra gli
uomini per il bene di tutti.Smettiamola di combatterci tra di noi, per
dividerci una magra torta, e uniamo invece le forze per strappare alla
natura parti sempre più consistenti, affinché tutti e ciascuno ne abbiano a
sufficienza. Questo è il grande mito dell'Occidente.L'universalismo
dell'economia e della modernità poggia, dunque, sul postulato di una natura
nemica radicale del genere umano.La tecno-scienza può, senza vergogna né
riserve, abbandonarsi a veri e propri attacchi di violenza contro il
vivente. "Occorre considerare e trattare la troia come strumento utile a
sfornare porcellini, come una macchina per far salsicce", dice un dirigente
dell'industria della carne.Il problema dell'ambiente è in sostanza quello di
stare al di fuori della sfera degli scambi mercantili. Nessun meccanismo si
oppone alla sua distruzione. La concorrenza e il mercato, che ci permettono
di acquistare le merci alle condizioni migliori, secondo Adam Smith, hanno
effetti disastrosi sull'ambiente. Niente limita più il saccheggio delle
risorse naturali, la cui gratuità permette ovviamente di abbassare i
costi.L'ordine naturale non ha salvato nè le balene azzurre e neppure i
Fuegeni (gli abitanti della Terra del Fuoco).Il saccheggio dei fondali
marini e delle risorse alieutiche sembra irreversibile, e taluni esperti
della Banca mondiale se ne compiacciono perché l'umanità, sostituendo la
predazione di risorse naturali con la produzione industriale dei loro
sostituti , uscirebbe finalmente dalla preistoria....Lo spreco dei minerali
continua in modo irresponsabile. I singoli cercatori d'oro o i garimpeiros
dell'Amazzonia, o le grosse società australiane in Nuova Guinea, non si
tirano indietro per nessun motivo, pur di procurarsi l'oggetto del
desiderio. Nel nostro sistema, ogni capitalista, anzi, ogni homo
oeconomicus, si comporta come un cercatore d'oro. E lo sfruttamento della
natura non è meno violento o pericoloso, quando si tratta di occultare i
nostri rifiuti in seno alla natura pattumiera.L'attuale mondializzazione sta
completando l'opera di distruzione dell'Oikos planetario. Non fosse altro
perché la concorrenza esacerbata spinge i paesi del Nord a manipolare la
natura senza nessun controllo, e quelli del Sud ad esaurire le risorse non
rinnovabili. In agricoltura,l'uso intensivo di concimi chimici, pesticidi, e
irrigazione sistematica e il ricorso ad organismi geneticamente modificati,
hanno avuto come conseguenza la distruzione dei suoli, l'esaurimento o
l'inquinamento delle falde freatiche, la desertificazione, la diffusione di
parassiti, il rischio di epidemie catastrofiche....Con la deregulation in
tutti i paesi del mondo, non vi è più alcun limite alla riduzione dei costi
e al circolo vizioso suicida. E' un vero e proprio gioco al massacro tra
individui e tra popoli, a spese della natura.Meriterebbe riflettere bene su
tre casi, quello del cacao, quello delle banane e quello della pesca.
Trattiamo qui solo quello del cacao, mentre per gli altri si rimanda al mio
recente libro L'altra Africa, (Bollati Boringhieri, 1997).
Quando il prezzo mondiale del cacao era al suo minimo, negli anni '80, e le
economie del Ghana e della Costa d'Avorio erano per questo dentro una crisi
drammatica gli esperti della Banca mondiale non trovarono niente di meglio
che incoraggiare e finanziare la piantagione di migliaia di ettari di alberi
di cacao in Indonesia, Malaysia e Filippine.
Se ne poteva ancora trarre profitto, speculando sulla miseria dei lavoratori
di questi paesi, e a detrimento della natura.
Come ha notato Nicholas Georgescu-Roegen, i rifiuti e l'inquinamento,
prodotti anch'essi dall'attività economica, non fanno parte delle normali
funzioni di produzione. Egli fa notare che, adottando il modello della
meccanica classica newtoniana, l'economia esclude l'irreversibilità del
tempo. I modelli economici si svolgono in un tempo meccanico e reversibile.
Ignorano l'entropia, cioè la non-reversibilità delle trasformazioni
dell'energia e della materia. La conseguenza è uno spreco incosciente di
risorse rare e un sotto-utilizzo del flusso, abbondante, di energia
solare.In ultima analisi, poiché la natura non è strutturata conformemente
alle leggi del mercato, essa può e ,anzi, deve essere saccheggiata e
distrutta per essere eventualmente ricostruita dall'uomo conformemente a
tali leggi.A questo punto, l'offerta di "natura" artificiale (acqua
sintetica, aria imbottigliata, semi trans-genici, specie animali
geneticamente modificate alimentate industrialmente, ecc.) troverà il giusto
prezzo e genererà profitti legittimi per i suoi produttori, e non già
rendite abusive per gli indigeni "disoccupati", che ne erano i custodi di
fatto. Tuttavia, la materia prima di tutte queste manipolazioni resta ancora
un insopprimibile dono della natura, con proprietà naturali che non sono
prodotte né dalla tecno-scienza né dal mercato. La scomparsa delle specie
selvatiche non porrà fine alla bio-pirateria né ai comportamenti predatori:
qui sta il paradosso, con cui si scontrano i trust agro-alimentari e
farmaceutici, nella loro impresa di integrale colonizzazione del vivente.
Essi distruggono la bio-diversità, sviluppando e diffondendo soltanto i geni
utili (possibilmente fabbricati in laboratorio), ma per farlo devono
attingere alla riserva di materie prime esistenti. Anzi, devono persino
preoccuparsi di proteggerla.
Ma siccome una logica unica è supposta governare la totalità del reale, si
crede che i meccanismi del mercato siano capaci di risolvere i problemi dei
danni all'ambiente. Per includere l'ambiente nella razionalità economica,
gli economisti si sforzano di conferirgli un prezzo, cioè di tradurre il suo
valore in termini monetari: di questo si occupa l'economia ecologica.Il
valore delle risorse naturali è inestimabile in termini economici. Se queste
risorse sono una condizione della sopravvivenza umana, non hanno prezzo in
senso proprio: il prezzo non può essere che infinito. Non sono dunque le
risorse in quanto tali di cui gli economisti si occupano ma, nel migliore
dei casi, del valore economico creato o distrutto nel corso del loro
sfruttamento.Innanzi tutto è difficile valutare gli effetti nocivi prima che
essi si siano manifestati, o che i danni siano diventati irreparabili, come
nel caso della scomparsa di varietà vegetali, animali e ...
umane.L'inquinamento nucleare, dati i tempi lunghi della decontaminazione,
pone lo stesso tipo di problemi. Per esempio nel 2010, la Francia dovrà
gestire 400 m3 di rifiuti ad alta nocività, di durata compresa tra 10.000 e
200.000 anni. Di fronte a danni difficilmente riparabili come questi, esiste
solo la prevenzione, che poggia sulla nozione di accettabilità del rischio.
Ma a quali condizioni un rischio tecnico può essere considerato accettabile?
E' noto il difficile dibattito sull'amianto. Anche dosi piccolissime possono
essere cancerogene. Il costo della riparazione di un danno o, in modo
simmetrico, il costo per evitare quel danno, sono difficili da valutare e
gli esperti giocherellano con milioni di dollari quando si parla di effetto
serra, buco nello strato di ozono, degrado della biodiversità. Non si è
ancora stati capaci di valutare neanche a quanto ammonta il conto di
Cernobyl! Gli economisti fautori del tutto-è-mercato deplorano quasi
l'esistenza delle risorse naturali, ed auspicano che esse abbiano dei
proprietari identificabili e responsabili. Il consenso a pagare, e cioè
l'importo massimo che un agente è disposto a pagare per continuare a godere
di un bene ambientale, e il consenso a ricevere e cioè l'importo simmetrico
per rinunciarvi, consentirebbero di chiudere la partita.Questa operazione è
stata resa possibile grazie al concetto di costo esterno, o diseconomie
esterne. Si tratta di un costo sociale generato dall'attività di un agente
che non ne paga le conseguenze. Gli esempi abbondano: la fabbrica che
inquina un fiume costringendo gli utenti a valle a depurare l'acqua; le
emissioni automobilistiche di gas che comportano cure mediche ai pedoni.La
contabilizzazione delle esternalità negative da parte degli economisti è una
buona cosa, ma il concetto stesso di esternalità indica che si tratta di un
inconveniente normalmente ignorato dalla logica mercantile. Si resta
comunque all'interno della razionalità economica: finalmente nel quadro
dell'economia, la crisi dell'ambiente porta a rafforzare il produttivismo
della società tecnocratica. Presentando il vertice di Rio, nel 1992, 1'Onu
scrisse che bisogna gestire l'ambiente con "tecniche ecologicamente
razionali", espressione che si ritrova nei lavori di molti esperti. La
divulgazione, nel 1992, di una nota interna scritta dall'eminente esperto
della Banca mondiale, Lawrence Summers, ne è un esempio premonitore.Questo
distinto economista, che è stato premiato come migliore economista americano
e che per poco non è diventato Direttore della Banca mondiale, auspica lo
spostamento delle industrie che inquinano nei paesi meno sviluppati,
sostenendo il suo ragionamento con calcoli economici senza appello. I costi
del disinquinamento sono più bassi al Sud, dice, perché lì i salari sono più
bassi. Anche i costi dell'inquinamento sono più bassi al Sud, perché il
livello dell'inquinamento è minore. "Ho sempre pensato che i paesi
sotto-popolati dell'Africa, scrive Summers, sono largamente sotto inquinati:
la qualità dell'aria è di un livello inutilmente elevatorispetto a Los
Angeles o Mexico City". In caso di catastrofe, il prezzo della vita umana è
calcolato con indici economici quali la speranza di vita e il livello
salariale nettamente più basso.La vita di un inglese vale di più di quella
di 100 indiani.Il calcolo dei costi per la salute derivanti
dall'inquinamento dipende del resto dai profitti realizzati grazie
all'aumento della morbilità e della mortalità. Da questo punto di vista, una
certa quantità di inquinamento è bene che esista dove il suo costo è più
basso, vale a dire dove i salari sono più bassi. Penso che la logica
economica, secondo cui una certa quantità di rifiuti tossici viene inviata
nei luoghi dove i salari sono più bassi, è incontestabile". A ciò si
aggiunga che l'esigenza di un ambiente pulito cresce insieme con il livello
di vita. "Ci si preoccupa ovviamente molto di più di un fattore che aumenta
in modo infinitesimale i rischi di cancro alla prostata, in un paese dove la
gente vive abbastanza a lungo per ammalarsene rispetto ad un altro paese
dove 200 bambini su 1000 muoiono prima dei cinque anni". L'esportazione
massiccia dell'inquinamento verso il Sud, ne stimolerà lo sviluppo.
L'argomentazione è, in effetti, incontestabile: meglio morire inquinato che
morire di fame. Quando si razionalizza l'ecologia, è necessariamente
l'economia che impone la sua legge.

II - L'impostura dello sviluppo sostenibile

Il problema con lo sviluppo sostenibile non è tanto nella parola sostenibile
che è piuttosto bella quanto nella parola sviluppo che è tossica In effetti,
il sostenibile significa che l'attività umana non deve creare un livello di
inquinamento superiore alla capacità di rigenerazione dell'ambiente. Questo
non è altro che l'applicazione del principio di prudenza di Hans Jonas.
"Opera in tal modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la
permanenza di una vita autenticamente umana sulla terra". Di fatto, i
caratteri sostenibili ci rimandano non tanto allo sviluppo, quanto alla
riproduzione. La riproduzione sostenibile ha regnato sul nostro pianeta più
o meno fino al XVIII secolo; è ancora possibile trovare fra gli anziani del
Terzo mondo degli "esperti" in riproduzione sostenibile. Gli artigiani e i
contadini che hanno conservato gran parte dell'eredità delle maniere
ancestrali di fare e di pensare, vivono spesso in armonia con il loro
ambiente; non sono predatori della natura. Nel XVII secolo, redigendo i suoi
editti sulle foreste, regolamentando gli abbattimenti degli alberi per
assicurarne la ricostituzione, piantando delle querce, che possiamo ancora
adesso ammirare e che 300 anni più tardi avrebbero fornito il legno per gli
alberi dei vascelli, Colbert dimostra di essere un esperto di
"sostenibilità". Cosi facendo, queste misure si oppongono alla logica
mercantile. Si direbbe, dunque, ecco lo sviluppo sostenibile! Ma allora,
bisognerebbe dirlo di tutti quei contadini che,come il nonno di Cornelius
Castoriadis, piantavano dei nuovi ulivi e dei nuovi alberi di fichi di cui
non avrebbero mai visto i frutti, ma pensavano alle generazioni future, e
questo non come risultato di una normativa ma semplicemente perché i loro
genitori, così come i loro nonni e tutti coloro che li avevano preceduti,
avevano fatto la stessa cosa.Per la parola "sviluppo" è completamente
differente. Il significato storico e pratico di sviluppo, legato al
programma della modernità, è fondamentalmente contrario alla sostenibilità.
Si tratta di sfruttare, di trarre profitto dalle risorse naturali e umane. E
chiaro che è lo sviluppo realmente esistente, quello che domina il pianeta
da due secoli, che genera i problemi sociali e ambientali attuali:
esclusione, sovrappopolazione, povertà, inquinamenti diversi ecc.
Aggiungendo l'aggettivo sostenibile al concetto di sviluppo è non meno
chiaro che non si tratta veramente di rimettere in discussione lo sviluppo,
tutt'al più si pensa di aggiungere una componente ecologica.
Concentrandosi sui danni causati all'ambiente, si evitano gli approcci
olistici o globali di un'analisi della dinamica planetaria di una
megamacchina tecnoeconomica che funziona sulla base della concorrenza
generalizzata senza pietà e ormai senza volto.Lo sviluppo sostenibile è
soltanto uno degli ultimi nati di un lungo seguito d'innovazioni concettuali
intese a fare entrare una parte di sogno nella dura realtà della crescita
economica. Per comprendere il giudizio pessimistico che si può esprimere
sulla probabilità e sulla consistenza di uno sviluppo sostenibile e trarne
le conseguenze pratiche, è necessario ricordare le disavventure e le
contraddizioni dello sviluppo -buono- e non dimenticare che l'ideologia
dello sviluppo manifesta la logica economica in tutto il suo rigore. Non c'è
posto in questo paradigma per il rispetto della natura reclamato dagli
ecologisti.La pretesa dello sviluppo e della crescita economica di
costituire l'obiettivo essenziale delle società umane si basa dunque in
sostanza sul famoso trickle down effect (effetto diffusione) magnificato
dall'euforia dei miti della modernità. Eppure questa costruzione seducente
non resiste ad un esame serio. Tanti paradossi costellano il ragionamento
che l'effetto miracoloso si rivela un miraggio.Rileviamone tre: il paradosso
della creazione dei bisogni, quello dell'accumulazione e il paradosso
ecologico.L'ossessione del PIL fa si che si contino come positive ogni
produzione e ogni spesa, comprese quelle dannose, e quelle rese necessarie
da queste ultime per neutralizzarne gli effetti. Così, l'aumento del consumo
medico è fonte di aumento del PIL. Tuttavia, a popolazione immutata, questa
crescita è l'indice di un miglioramento o di un degrado della salute, o
addirittura semplicemente della sua conservazione di fronte all'aggressione
costante dell'ambiente?Se si cerca di stimare la riduzione del tasso di
crescita tenendo conto dei guasti causati all'ambiente e di tutte le loro
conseguenze sul patrimonio naturale e culturale, si perviene spesso ad un
risultato di crescita nulla ovvero negativa. Gli Stati Uniti hanno speso nel
1991, 115 miliardi di dollari, pari al 2,1 per cento del PIL per la
protezione dell'ambiente, e non è finita. Il nuovo Clean Air Act accrescerà
questo costo, si stima, da 45 a 55 miliardi di dollari all'anno. Certo, le
stime del costo dell'inquinamento o del prezzo di costo della bonifica sono
molto delicate, problematiche e naturalmente controverse (si vedano i
dibattiti alla riunione del G7 a Napoli sulla fattura di Cernobyl). Si è
calcolato che l'effetto serra potrebbe costare tra 600 e 1000 miliardi di
dollari all'anno negli anni a venire, cioè tra il 3 e il 5 per cento del P1L
mondiale. Il World Resources Institute, dal canto suo, ha tentato stime
della riduzione del tasso di crescita in caso di contabilizzazione dei
prelievi dal capitale naturale nell'ottica dello "sviluppo sostenibile".Per
l'Indonesia ha così ridotto il tasso di crescita tra il 1971 e il 1984 dal
7,1 al 4 per cento in media annua, e questo integrando solo tre elementi: la
distruzione delle foreste, i prelievi dalle riserve di petrolio e di gas
naturale e l'erosione del suolo. Si può assicurare che si sono compensate
per questo tutte le perdite del capitale naturale? Quanto dire che in queste
condizioni, la crescita è un mito!
Così, il dibattito sulla parola "sviluppo" non è solo una questione di
parole. Lo si voglia o no, non si può far si che lo sviluppo sia diverso da
quello che è stato. Lo sviluppo è stato ed è l'occidentalizzazione del
mondo. Come ci sono parole dolci, ci sono parole velenose, parole che
penetrano nel sangue come una droga, pervertono il desiderio ed ottenebrano
il giudizio. Sviluppo è una di queste parole tossiche.

Conclusione
Lo sviluppo sostenibile, o come diciamo in francese "durevole", questo
ossimoro, questa contraddizione in termini, è terrificante e
disperante!Almeno, con lo sviluppo non durevole e insostenibile, si poteva
conservare la speranza che questo processo mortifero avrebbe avuto una fine.
Che un giorno si sarebbe fermato, vittima delle sue contraddizioni, dei suoi
fallimenti, del suo carattere insopportabile e dell'esaurimento delle
risorse naturali... Si poteva quindi riflettere e lavorare ad un
doposviluppo meno disperante, mettere insieme una postmodernità
accettabile.Lo sviluppo durevole o sostenibile ci toglie ogni prospettiva di
uscita, ci promette lo sviluppo realmente esistente per
l'eternità!Finalmente, l'integrazione nel calcolo economico di elementi
ambientali artificialmente contabilizzati, non modifica né la natura
dell'economia di mercato, né la logica della modernità. Non modifica la
ricerca ossessiva della massimizzazione, né la riduzione del sociale a mero
dato contabile.Con la fuga in avanti nella tecnica, si crede di poter
risolvere quei problemi che la tecnica stessa ha creato. Solo sotto la
"pressione" dell'opinione pubblica è possibile affrontare problemi come
questo. Bisogna riconoscere, tuttavia, che la democrazia parlamentare ha
mandato elettivo di breve periodo, tipo Westminster, non favorisce le
contabilizzazioni di lungo periodo, riguardanti le generazioni future. Ci si
può chiedere inoltre se la politica sarà in grado in futuro di far valere il
suo ruolo, per controbilanciare la potenza delle transnazionali nel sistema
mondializzato di domani. Ancora di più, se l'Ami (Accordo multilaterale
sugli investimenti ), messo a punto dagli esperti Ocse, sarà ratificato.
L'esempio del boicottaggio messo in opera dai tedeschi, che nel 1995 riuscì
ad arrestare la Shell, gigante economico come pochi altri, è confortante,
anche se quella lotta ha lasciato qualche dubbio, come Greenpeace ha
riconosciuto dopo. In quell'occasione si è visto che la stessa opinione
pubblica, per quanto ben intenzionata e consapevole, è sempre fortemente
condizionata dalla disinformazione e manipolazione delle potenze economiche
che controllano anche grandi centri della comunicazione, anch'essi dei
giganti.... L'opinione pubblica resta, ciononostante, la nostra unica
speranza e la base sulla quale può prendere forma l'imperativo di Jonas.

Serge Latouche
Ordinario di Economia alla Università XI di Parigi