europa e politica economica



da repubblica.it
giovedi 24 giugno 2004

Se la tesi di Keynes resiste alle mode

di Jean-Paul Fitoussi

Il nome di "nuova politica economica" fu dato da Lenin, nei primi anni ?20,
al complesso delle misure di liberalizzazione (e segnatamente di
privatizzazione) da lui intraprese, essenzialmente nel settore agricolo, per
infondere un nuovo dinamismo all´esangue economia sovietica. I tempi sono
cambiati. Il sistema sovietico è crollato, e quello che rimane - definito in
passato "economia mista di mercato" - vive a sua volta, e a suo modo, sotto
il segno d´una "nuova politica economica". Certo, porre a confronto due
contesti così radicalmente diversi partendo da una somiglianza inconsistente
può sembrare un procedimento puramente retorico.
Ma dal raffronto di questi due momenti storici possiamo trarre un
insegnamento prezioso sul piano delle idee, con riferimento al presupposto
che il passaggio dal collettivo all´individuale generi un maggior dinamismo
nell´ordine economico. Senza alcun dubbio, nell´Urss degli anni ´20 un
parziale riflusso dello Stato era la chiave per la crescita della
produttività. Ma si può sostenere che questa rimanga sempre e dovunque la
ricetta invariabile del successo, indipendentemente dal grado di liberismo
che caratterizza le nostre "democrazie di mercato"? Oggi, nell´ambito di
quello che chiamerei il "consenso di Bruxelles-Francoforte-Washington", la
risposta è un perentorio sì. Ma a questa posizione non si poteva arrivare
senza aver prima destrutturato la tesi keynesiana, il cui insegnamento
fondamentale consiste nell´identificare il limite superiore della deriva
individualista in un´economia di mercato. "Due sono i vizi che
caratterizzano il mondo economico in cui viviamo: non assicura la piena
occupazione, e porta a una ripartizione della ricchezza e dei redditi
arbitraria e non fondata sull´equità", scriveva Keynes nella sua Teoria
generale. Sul piano teorico, smantellare le tesi di Keynes è stata
un´impresa complessa, iniziata fin dagli anni ´60 e portata avanti da tre
generazioni di ricercatori. Questa "vera controrivoluzione", come l´ha
definita Robert W. Clower, propone in politica economica il ritorno ai
postulati dottrinali pre-keynesiani: stabilità dei prezzi, equilibrio di
bilancio, concorrenza su tutti i mercati e più particolarmente su quello del
lavoro; e liberalizzazione degli scambi, privatizzazioni, deregulation.
Sarebbe questa la via più diretta per la piena occupazione. Ma questa
tabella di marcia dei tempi moderni è più teorica di quanto molti credano.
Nulla da ridire sugli obiettivi che persegue: è quasi sempre giusto
preferire la stabilità dei prezzi all´inflazione, l´equilibrio di bilancio
al deficit e all´indebitamento, la concorrenza alla rendita, l´apertura al
protezionismo ecc. Ma almeno due elementi di complessità vengono a
ricordarci che la realtà non si lascia circoscrivere tanto facilmente.
Innanzitutto, qual è il significato della nozione di "concorrenza" sul
mercato del lavoro, ove esiste una dissimetria di potere tra lavoratori e
imprenditori, in particolare per quanto riguarda il processo dell´ingaggio?
Di fatto, dato che lo squilibrio dei rapporti di forze costituisce un
ostacolo alla concorrenza, le misure di sostegno all´occupazione e di tutela
del lavoro sono mezzi per promuovere il grado di concorrenza e non per
ridurlo. Resta una difficoltà: quella di mantenere l´equilibrio dei poteri,
affinché la concorrenza sia effettiva e non si eserciti a danno dei più
deboli, garantendo al tempo stesso che la sua regolamentazione non serva da
pretesto ai corporativismi.
Il secondo elemento di complessità è d´essenza dinamica: le nostre economie
attraversano turbolenze che si ripercuotono sui tassi d´inflazione, sui
saldi di bilancio, sulla crescita e sull´occupazione; e inoltre, in quanto
soggette a perpetue mutazioni, sono permanentemente indotte a ristrutturarsi
e a innovare. Ciò non manca d´avere effetti sul grado di concorrenza che le
caratterizza. In taluni periodi questa dinamica inerente al processo
economico determina il degrado degli obiettivi perseguiti dalla nuova
politica economica, o di gran parte di essi. Questi obiettivi dovrebbero
essere oggetto di scelte ponderate. Governare vuol dire scegliere. L´ambito
privilegiato per stabilire le priorità e procedere alle relative opzioni è
la democrazia. La tendenza della nuova politica economica a voler legare le
mani ai governi per impedire loro d´agire equivale ad asserire
l´impossibilità che i suoi obiettivi possano essere soggetti a degrado, se
non in via transitoria.
La teoria economica keynesiana, vecchia o nuova che sia, contiene un dato
resistente alle mode così come a ogni tentativo di smantellamento, in quanto
indica la necessità, diretta o indiretta, di procedere a scelte ponderate
tra gli obiettivi di politica economica. Le scelte che riguardano i tassi
d´interesse incidono sull´inflazione, ma anche sull´occupazione e sulla
crescita. In altri termini, procedono necessariamente da un trade-off, o
scelta ponderata tra diversi obiettivi. Usare oggi tale linguaggio è quasi
una provocazione. In questa materia si dovrebbe ricorrere a termini più
prudenti per non urtare la sensibilità collettiva degli economisti, per i
quali il trionfo della teoria alla base della nuova politica economica è
oramai senza appello. In altri tempi di sarebbe detto che in certe
condizioni è necessario optare tra inflazione e disoccupazione. Ma la nuova
politica si fonda sulla prova formale che quest´idea era solo una pericolosa
illusione. Perciò oggi si dirà - benché per il lettore il senso del discorso
non cambi - che se la tale Banca centrale avesse abbassato in tempo il tasso
d´interesse, la ripresa nella sua zona d´influenza sarebbe stata più
tempestiva.
La seconda delle alternative identificate riguardava la scelta tra
equilibrio di bilancio e crescita, anche qui in determinate condizioni e
circostanze. La teoria della nuova politica economica ne ha però confutato i
termini, in virtù degli effetti "antikeynesiani" della politica di bilancio.


In altre parole, i governi non si troverebbero più di fronte a un dilemma:
sarebbe sufficiente abbassare il deficit di bilancio per ottenere in premio
la crescita. Finché si resta nel chiuso di un´ipotesi, qualunque teoria può
avere ragione. Ma a volte la teoria è distante anni luce dal funzionamento
effettivo dell´economia. Basterà analizzare la prassi di vari governi (Usa,
Regno Unito, Giappone ecc.), e constatare inoltre che in Europa due decenni
d´applicazione dei precetti della nuova politica economica non hanno
prodotto i risultati preconizzati per avere la conferma dei conflitti
esistenti tra i diversi obiettivi perseguiti; e quindi della necessità di
stabilire priorità per le scelte da compiere. Un´azione che non tenga conto
di tutto ciò equivale a predeterminare le scelte, ovvero, a privilegiare
invariabilmente gli stessi obiettivi.
Quali collegamenti si possono stabilire tra queste considerazioni e
l´attualità politica ed economica? Il primo è un´ipotesi: se l´Europa non è
più uno spazio di scelte politiche, a che servono gli scontri tra i partiti?
E in fin dei conti, perché andare a votare? Un esempio: tanto per dare il
benvenuto ai nuovi arrivati, la Commissione sta istruendo una procedura per
deficit eccessivi nei confronti di 6 dei nuovi Stati membri dell´Ue.
Il secondo è una certezza: quella della difficoltà di riassorbire uno
squilibrio di natura keynesiana (il "deficit della domanda") nel quadro
della nuova politica economica. In tutta Europa, i governi tentano di
rilanciare il motore dei consumi, ben sapendo che per farlo è necessario
accrescere il reddito disponibile delle famiglie. Ma come ottenere questo
risultato quando ogni azione sui salari è considerata inflazionistica, e
d´altra parte l´abbassamento delle imposte aggraverebbe ulteriormente il
deficit di bilancio? Certo, un intervento del secondo tipo, insieme a una
riduzione della spese pubblica, avrebbe tutte le virtù. Ma chi s´aspetta un
aumento del reddito dalla pura e semplice riduzione delle imposte e dei
contributi sociali avrà un problema di credibilità da affrontare. Potrebbe
farcela per qualche tempo, grazie a concomitanti aumenti di produttività dei
servizi dello stato; ma al di là di questo, gli aumenti nominali dei redditi
avrebbero come contropartita una serie di tagli dei servizi pubblici.
Quindi, di fatto il potere d´acquisto della grande maggioranza della
popolazione non aumenterebbe (a esempio, con la privatizzazione della scuola
migliorerebbero solo i redditi delle famiglie senza figli).
Negando la possibilità di scelte ponderate tra diversi obiettivi la nuova
politica economica impone veri e propri contorcimenti ai pubblici poteri,
poiché nessun governo, trovandosi alle prese con un problema, può
giustificare l´inazione sostenendo che quel problema teoricamente non
dovrebbe esistere.