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non si vive di solo pil
- Subject: non si vive di solo pil
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 7 Oct 2004 06:57:56 +0200
da dsonline.it Intervento di GIORGIO RUFFOLO: non si vive di solo PIL Lo prendo alla larga ma niente paura. Stringerò presto. Il PIL fu grande scoperta. Un salto di qualità della politica economica. Era, ed è rimasto la bussola della politica economica moderna Le due grandi teorie dominanti tra la seconda metà dell'800 e la prima del Novecento, il liberismo e il marxismo, non avevano bisogno né di bussola, né di politica economica. Ambedue erano caratterizzate da un determinismo di fondo. Secondo il liberismo, l'economia capitalistica tende all'autoregolazione (equilibrio statico) e all'autopropulsione (equilibrio dinamico): basta lasciar fare! Secondo il marxismo, nella storia c'è un progetto di sviluppo e di trasformazione. Ci pensa lei. Inutile "mettere mutande" alla storia. Entrambi i "credo" furono ampiamente falsificati, ma restano come affascinanti paradigmi normativi. La più brillante falsificazione del credo liberale è quella di Karl Polanyi "La grande trasformazione": Polanyi pensava che il liberismo economico fosse tramontato per sempre. Manco per sogno. Quanto al tentativo comunista di attuare il paradiso in terra, senza mercato, è finito all'inferno. Oggi si profila un recupero di interesse culturale (vedi l'Economist). Ma il comunismo come visione è tramontato. Ha invece avuto successo la ricetta del socialismo liberale, soprattutto nell' età dell'oro Keynesiana, anni 50- 60. L'economia di mercato "guidata". Preziosa bussola per la guida: il PIL. Il modello keynesiano è però una ricetta di breve periodo. C'è stato un tentativo, negli anni 60, di costruire un modello di medio periodo: la programmazione democratica (ben distinta dalla piatilekta!) Crisi inflazionistica anni 70. Controffensiva capitalistica anni '80: risorge il credo liberale. La globalizzazione: indebolisce lo stato nazionale "intermedio" (europeo). Contemporaneamente la rivoluzione informatica mette in crisi il fordismo e indebolisce il sindacato. Stato e sindacato sono i cardini politici del modello keynesiano, applicabile a una economia tendenzialmente chiusa e caratterizzata da potenti organizzazioni di massa . La "controffensiva" introduce "atroce disordine economico e un pericoloso squilibrio tra potenza (economica) e potere (politico). Sinistra impotente. Dappertutto sulla difensiva Due tendenze 1) imitativa correttiva stare al gioco. Intervenire per renderlo meno duro (terza via) 2) contestativa espressionistica Ambedue prive di sfondo "veniamo da molto lontano e non sappiamo dove andiamo" (nuovo motto) Posizione scomoda e frustante Ecco rinascere, in forme aggiornate, la proposta della programmazione Elemento essenziale della proposta, che mira a ricostituire l'egemonia della politica sull'economia, è il riconoscimento che, così come l'economia non può essere avulsa dalla politica e autoregolata, la storia non porta dentro di sé un progetto. Ma - cito Popper - si può e si deve darglielo. Un progetto, non un'utopia. Quindi, una prospettiva normativa che dia senso (etico e pratico) alla politica. Ciò comporta la determinazione concreta degli obiettivi dell'azione politica. Si tratta di determinare le coordinate di uno sviluppo sociale possibile e desiderabile. Di tracciare l'identikit della società perseguibile. Gli obiettivi desiderabili e possibili non possono essere tutti compressi nell'indicatore di ricchezza del PIL. Occorre disporre di indicatori della qualità sociale. La critica del PIL è antica. Data quasi dall'invenzione del PIL. Economisti famosi, e tra questi alcuni suoi inventori, misero in guardia da un suo uso scorretto, come indicatore di benessere sociale. In società povere il PIL può essere un indicatore proxy del benessere (primum vivere!). Nelle società povere crescita equivale ad aumento del benessere. Ma in società ricche e complesse crescita è crescita di beni e di mali. A un certo punto i mali superano i beni (il parco automobilistico che raddoppia ogni dieci anni, per esempio). Da tempo gli economisti hanno argomentato questa ovvia verità. Cito Georgescu Rogen, Amartya Sen, Herman Daly, ecc.ecc. Ormai da tempo si è sviluppata una teoria degli indicatori sociali. In America, c'è una rivista (Indicators). Sta nascendo un vero movimento. Quando sarà diventata un'industria di moda, ce ne accorgeremo anche noi in Italia. La insignificanza del PIL come indicatore della pubblica felicità (Hirschman) è ormai luogo comune. Sperimentazione indicatori intensa. Studiosi e organismi internazionali (UNEP). Al Cer stiamo svolgendo una ricerca. Non si tratta di un nuovo PIL integrato. Quella è una pista fuorviante. Si tratta di definire le grandi dimensioni del benessere (qualità) sociale (es. ambiente, istruzione, salute, sicurezza personale, sicurezza economica); di costruire per ciascuna di esse un indicatore significativo; di affiancare questi indicatori sociali a un PIL opportunamente restaurato per eliminarne le più palesi assurdità; e infine - passo decisivo - di scegliere la combinazione ottimale che può essere assunta come obiettivo progettuale. Ciò può essere fatto a livello di una città, di una regione, di una nazione, di una unione sovranazionale (UE). La "combinazione" non è un problema tecnico. E' una formidabile innovazione politica. Si tratta di costruire proposte strutturate di una società decente. Di una welfare society. Si tratta di fare uscire la politica dal regno delle chiacchiere, sottratta ad ogni possibilità di falsificazione; e di dotarla di un poderoso strumento di orientamento progettuale. Si tratta di ridare alla politica senso, per raccogliere consenso.
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