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capitalismo a credito
- Subject: capitalismo a credito
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 5 Oct 2004 11:37:11 +0200
il manifesto - 30 Aprile 2004 Guido Rossi: «Un capitalismo a credito» BRUNO PERINI Ricchi e poveri: disuguaglianze a confronto Guido Rossi: «Un capitalismo a credito» Intervista al manifesto dell'ex presidente della Consob. Un'analisi spietata del capitalismo italiano. E su Berlusconi dice: «Il suo governo ha rotto gli equilibri democratici» BRUNO PERINI «Il governo Berlusconi? Ha la grave responsabilità di aver leso l'equilibrio dei poteri dello Stato. Il potere legislativo è ormai asservito al potere esecutivo, mentre il potere giudiziario è continuamente delegittimato. Non contento ora il governo vuole sottomettere anche le authority. Siamo passati dallo Stato di diritto allo Stato di governo». «Il caso Parmalat? E' il frutto di un sistema opaco. Di casi come Parmalat ne potrebbero scoppiare altri». «Il capitalismo italiano? E' un capitalismo a credito, senza capitali, che dipende totalmente dal sistema bancario. La sua crisi non è iniziata con Cirio e Parmalat ma con Montedison, Mediobanca e Generali». In questa intervista rilasciata al manifesto nel giorno in cui inauguriamo le pagine del Capitale, il professor Guido Rossi, ex presidente di Consob, Montedison e Telecom, non bada a spese. I suoi fendenti sono affilatissimi. E probabilmente risulteranno indigesti sia al governo Berlusconi, sia alla comunità degli affari. D'altronde chi lo conosce sa che lui non si diverte se non fa arrabbiare qualcuno.. Professor Rossi, quando lei ha pubblicato il suo ultimo libro, Il Conflitto Epidemico, il caso Parmalat non era ancora scoppiato. Se dovesse aggiungere un nuovo capitolo al suo libro che cosa scriverebbe a proposito dello scandalo di Collecchio? Nel mio libro ho premesso che non avrei scritto dell'Italia, essendo il nostro paese un laboratorio sul conflitto d'interesse molto particolare. Credo però che nella mia analisi ci fossero tutte le premesse per capire quello che sarebbe successo. Intendo dire che era facile prevedere, sia pure in ritardo, che la crisi del capitalismo americano, che ha toccato le punte massime con i casi Enron e Worldcom, sarebbe scoppiata anche in Italia con fenomeni allarmanti come il caso Parmalat. Perché in ritardo? Il ritardo è dovuto all'arretratezza del capitalismo italiano. Come ho detto più volte il nostro capitalismo è arretrato sia nella sua struttura sia nelle sue manifestazioni. I carattereri strutturali sono evidenti: a causa della mancanza di un mercato finanziario ampio il sistema economico italiano è condannato ad assumere o il volto del capitalismo di Stato o quello del capitalismo familiare. Quest'ultimo a sua volta ha la caratteristica, dissimile e assai anomala rispetto ad altri paesi, di essere un capitalismo senza capitali. Senza capitali ha detto? Sì, ha capito bene, senza capitali. Questo, d'altronde spiega altre anomalie del nostro sistema come ad esempio l'esistenza di gruppi industriali, come Pirelli-Telecom o Fiat, che si reggono su strutture piramidali che consentono con scarso investimento di capitale il controllo di grandi gruppi. Per ciò che riguarda le sue manifestazioni, invece, è un capitalismo opaco, poco trasparente, con società molto spesso eterodirette da patti di sindacato. Come definirebbe il nostro sistema? Lo definirei un capitalismo a credito. Perché? Per le ragioni che le dicevo prima: per la scarsa presenza del capitale di rischio e per l'enorme peso che assume il sistema bancario. I motivi per cui banche e banchieri sono diventati così determinanti nei processi di sviluppo delle imprese vanno ricercati nelle debolezze e anomalie del nostro sistema, non altrove. Quando il sistema del credito vacilla, dunque, la crisi inevitabilmente colpisce anche le imprese, ma a causa della diffusa opacità le brutture fanno fatica ad emergere. Lei citava Parmalat. Ma si rende conto che i bilanci Parmalat erano falsi da 15 anni? Questa incredibile scoperta, per quanto sia paradossale, poteva avvenire con tanto ritardo soltanto in un sistema opaco. Tra l'altro in una situazione come questa si sviluppano nel mercato fenomeni abnormi che ricordano il capitalismo degli anni `80: non è pensabile, ad esempio, che il gruppo Parmalat, quotato in Borsa, certificato da società di revisione, valutato da società di rating avesse Epicurum alle isole Cayman. Eppure questo è avvenuto. Qui ovviamente c'è anche una grossa responsabilità del sistema bancario internazionale nell'aver favorito fenomeni di questo tipo. Gli apologeti del sistema sostengono che il caso Parmalat è un caso eccezionale ed estremo, quasi un incidente di percorso. Lei cosa ne pensa? Non è affatto un caso eccezionale. E' l'espressione estrema delle strutture oggettive del capitalismo italiano. E' molto più facile essere opachi quando ci sono le società eterodirette, quando dominano le strutture piramidali o i patti di sindacato. Di casi Parmalat ce ne potrebbero essere altri che magari sono ancora sotto la coperta dell'opacità. Il caso Enron negli Stati Uniti e il caso Parmalat in Italia mettono in crisi i due modelli principali sui quali si è retto il sistema: il capitalismo familiare e quello fondato sulle public company. Non mi pare che ci siano altri modelli. Ambedue i modelli, in effetti, hanno dimostrato il loro lato debole. Il sistema americano si è sempre basato su un modello nel quale prevaleva il potere dei manager e il caso Enron è la dimostrazione che quel modello ha consentito ai manager di utilizzare il loro potere per consumare il conflitto d'interesse. La revisione legislativa in atto negli Stati Uniti è in un certo senso un ritorno alla proprietà, contro il dominio dei manager. Torniamo al capitalismo italiano. Fino a una decina d'anni fa tutto il capitalismo italiano ruotava attorno a tre grandi cattedrali: Mediobanca, Generali, Montedison. Oggi sembra che quei gruppi abbiano perso il loro potere d'influenza, mentre si assiste a un rafforzamento dello Stato. Non c'è nulla, ad esempio, che non passi attraverso il Tesoro o se si vuole il ministro dell'economia. Come vanno letti questi fenomeni? Lei ha messo il dito su una delle piaghe maggiori del sistema attuale. La crisi del capitalismo italiano non è cominciata con Cirio o Parmalat ma con la crisi della Montedison, con la crisi di Mediobanca e con i riflessi che essa ha avuto sulle Generali, un grande gruppo assicurativo che purtroppo vive in una situazione torbida a causa del fatto che da anni è eterodiretto addirittura dal patto di sindacato di Mediobanca. Questi fenomeni, quasi invisibili ma profondi, hanno contribuito con forza alla crisi del capitalismo familiare. Enrico Cuccia, si sa, difendeva il capitalismo familiare. Lui diceva sempre: `Ognuno giochi con le carte che ha'. E la sua carta era Mediobanca. La sua idea era che il capitalismo familiare andasse sostenuto e protetto dalle ingerenze della politica e per tutta la sua vita praticò quella strategia. Andò persino a cercare i libici per evitare che nella crisi Fiat entrasse lo Stato. Ora quella rete di protezione non c'è più e il sistema è esposto a tutte le anomalie del sistema. Ed è esposto fatalmente anche all'intervento del governo. Lei con una battuta ha detto che siamo passati dallo Stato di diritto allo Stato di governo. Cosa intendeva dire? Intendo dire che ormai il governo decide su tutto. Le ultime notizie a questo proposito sono preoccupanti: il fatto che il governo abbia l'ultima parola anche sulle agenzie indipendenti, sulle authority, è allarmante per la democrazia. E' un brutto segnale, perché significherebbe una perdita di indipendenza per degli organismi che negli Stati moderni dovrebbero funzionare come contro poteri. Non è un caso che Giuseppe Tesauro abbia reagito con grande coraggio a questi segnali di sottomettere le agenzie indipendenti. Tenga presente che qui non si tratta soltanto dell'ipotesi eccezionale che pure potrebbe essere prevista in cui ci siano questioni di politica economica. Se passasse l'ipotesi di uno strapotere del Cicr le agenzie finirebbero per diventare un settore dello Stato. Mi pare che anche la Consob cadrebbe sotto questo potere Direi di sì. Stando alle notizie che si leggono sui giornali tutte le agenzie rischierebbero di essere sottomesse al potere politico. E dire che questi organismi sono stati creati per la prima volta dalla mitica Cristina di Svezia che aveva costituito questi organismi perché voleva sottrarre potere ai ministeri. Il controllo dell'esecutivo sull'economia mi pare che sia un fenomeno crescente e secondo molti istituzionalisti assai allarmante. Lei cosa ne pensa? Questi fatti si innestano, in effetti, su un fenomeno politico- istituzionale ancora più pericoloso, introdotto dal governo Berlusconi: un drammatico terremoto tra i poteri dello stato che ne muta il tradizionale equilibrio. E' la prima volta che si tenta di modificare così radicalmente i poteri usciti dalla Costituzione. Un esempio? Il potere legislativo è ormai asservito al potere esecutivo, mentre il potere giudiziario è continuamente delegittimato. Tutto ciò non ha nulla a che fare con le disquisizioni accademiche sul premierato; rappresenta piuttosto uno scardinamento di un sistema democratico che si alimenta, tra l'altro, con un conflitto d'interessi intrecciato a furibonde lotte di potere. Prenda il disegno di legge sul risparmio: di conflitto d'interesse, pur essendo quello il tema più scottante nei mercati finanziari, non si parla. Tutto ruota attorno alla nomina del governatore della Banca d'Italia e alla durata del suo mandato. Argomenti questi che con il risparmio mi sembra che non c'entrino granchè. Ma secondo lei il caso Berlusconi, con il suo clamoroso conflitto d'interesse, è un caso tutto italiano oppure potrebbe essere un modello adattabile ad altri paesi dell'occidente capitalistico? Secondo me può essere una malattia che si espande. Può diventare un virus che colpisce tutti i paesi che sono a capitalismo immaturo e a democrazia fragile. Se è vero che la democrazia è basata sul consenso e quest'ultimo si conquista soprattutto con il controllo dei media, fenomeni come quello Berlusconi si possono riprodurre.
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