capitalismo a credito



il manifesto - 30 Aprile 2004


Guido Rossi: «Un capitalismo a credito»
BRUNO PERINI

Ricchi e poveri: disuguaglianze a confronto

Guido Rossi: «Un capitalismo a credito»
Intervista al manifesto dell'ex presidente della Consob. Un'analisi spietata
del capitalismo italiano. E su Berlusconi dice: «Il suo governo ha rotto gli
equilibri democratici»
BRUNO PERINI

«Il governo Berlusconi? Ha la grave responsabilità di aver leso l'equilibrio
dei poteri dello Stato. Il potere legislativo è ormai asservito al potere
esecutivo, mentre il potere giudiziario è continuamente delegittimato. Non
contento ora il governo vuole sottomettere anche le authority. Siamo passati
dallo Stato di diritto allo Stato di governo». «Il caso Parmalat? E' il
frutto di un sistema opaco. Di casi come Parmalat ne potrebbero scoppiare
altri». «Il capitalismo italiano? E' un capitalismo a credito, senza
capitali, che dipende totalmente dal sistema bancario. La sua crisi non è
iniziata con Cirio e Parmalat ma con Montedison, Mediobanca e Generali». In
questa intervista rilasciata al manifesto nel giorno in cui inauguriamo le
pagine del Capitale, il professor Guido Rossi, ex presidente di Consob,
Montedison e Telecom, non bada a spese. I suoi fendenti sono affilatissimi.
E probabilmente risulteranno indigesti sia al governo Berlusconi, sia alla
comunità degli affari. D'altronde chi lo conosce sa che lui non si diverte
se non fa arrabbiare qualcuno..

Professor Rossi, quando lei ha pubblicato il suo ultimo libro, Il Conflitto
Epidemico, il caso Parmalat non era ancora scoppiato. Se dovesse aggiungere
un nuovo capitolo al suo libro che cosa scriverebbe a proposito dello
scandalo di Collecchio?
Nel mio libro ho premesso che non avrei scritto dell'Italia, essendo il
nostro paese un laboratorio sul conflitto d'interesse molto particolare.
Credo però che nella mia analisi ci fossero tutte le premesse per capire
quello che sarebbe successo. Intendo dire che era facile prevedere, sia pure
in ritardo, che la crisi del capitalismo americano, che ha toccato le punte
massime con i casi Enron e Worldcom, sarebbe scoppiata anche in Italia con
fenomeni allarmanti come il caso Parmalat.
Perché in ritardo?
Il ritardo è dovuto all'arretratezza del capitalismo italiano. Come ho detto
più volte il nostro capitalismo è arretrato sia nella sua struttura sia
nelle sue manifestazioni. I carattereri strutturali sono evidenti: a causa
della mancanza di un mercato finanziario ampio il sistema economico italiano
è condannato ad assumere o il volto del capitalismo di Stato o quello del
capitalismo familiare. Quest'ultimo a sua volta ha la caratteristica,
dissimile e assai anomala rispetto ad altri paesi, di essere un capitalismo
senza capitali.
Senza capitali ha detto?
Sì, ha capito bene, senza capitali. Questo, d'altronde spiega altre anomalie
del nostro sistema come ad esempio l'esistenza di gruppi industriali, come
Pirelli-Telecom o Fiat, che si reggono su strutture piramidali che
consentono con scarso investimento di capitale il controllo di grandi
gruppi. Per ciò che riguarda le sue manifestazioni, invece, è un capitalismo
opaco, poco trasparente, con società molto spesso eterodirette da patti di
sindacato.
Come definirebbe il nostro sistema?
Lo definirei un capitalismo a credito. Perché? Per le ragioni che le dicevo
prima: per la scarsa presenza del capitale di rischio e per l'enorme peso
che assume il sistema bancario. I motivi per cui banche e banchieri sono
diventati così determinanti nei processi di sviluppo delle imprese vanno
ricercati nelle debolezze e anomalie del nostro sistema, non altrove. Quando
il sistema del credito vacilla, dunque, la crisi inevitabilmente colpisce
anche le imprese, ma a causa della diffusa opacità le brutture fanno fatica
ad emergere. Lei citava Parmalat. Ma si rende conto che i bilanci Parmalat
erano falsi da 15 anni? Questa incredibile scoperta, per quanto sia
paradossale, poteva avvenire con tanto ritardo soltanto in un sistema opaco.
Tra l'altro in una situazione come questa si sviluppano nel mercato fenomeni
abnormi che ricordano il capitalismo degli anni `80: non è pensabile, ad
esempio, che il gruppo Parmalat, quotato in Borsa, certificato da società di
revisione, valutato da società di rating avesse Epicurum alle isole Cayman.
Eppure questo è avvenuto. Qui ovviamente c'è anche una grossa responsabilità
del sistema bancario internazionale nell'aver favorito fenomeni di questo
tipo.
Gli apologeti del sistema sostengono che il caso Parmalat è un caso
eccezionale ed estremo, quasi un incidente di percorso. Lei cosa ne pensa?
Non è affatto un caso eccezionale. E' l'espressione estrema delle strutture
oggettive del capitalismo italiano. E' molto più facile essere opachi quando
ci sono le società eterodirette, quando dominano le strutture piramidali o i
patti di sindacato. Di casi Parmalat ce ne potrebbero essere altri che
magari sono ancora sotto la coperta dell'opacità.
Il caso Enron negli Stati Uniti e il caso Parmalat in Italia mettono in
crisi i due modelli principali sui quali si è retto il sistema: il
capitalismo familiare e quello fondato sulle public company. Non mi pare che
ci siano altri modelli.
Ambedue i modelli, in effetti, hanno dimostrato il loro lato debole. Il
sistema americano si è sempre basato su un modello nel quale prevaleva il
potere dei manager e il caso Enron è la dimostrazione che quel modello ha
consentito ai manager di utilizzare il loro potere per consumare il
conflitto d'interesse. La revisione legislativa in atto negli Stati Uniti è
in un certo senso un ritorno alla proprietà, contro il dominio dei manager.
Torniamo al capitalismo italiano. Fino a una decina d'anni fa tutto il
capitalismo italiano ruotava attorno a tre grandi cattedrali: Mediobanca,
Generali, Montedison. Oggi sembra che quei gruppi abbiano perso il loro
potere d'influenza, mentre si assiste a un rafforzamento dello Stato. Non
c'è nulla, ad esempio, che non passi attraverso il Tesoro o se si vuole il
ministro dell'economia. Come vanno letti questi fenomeni?
Lei ha messo il dito su una delle piaghe maggiori del sistema attuale. La
crisi del capitalismo italiano non è cominciata con Cirio o Parmalat ma con
la crisi della Montedison, con la crisi di Mediobanca e con i riflessi che
essa ha avuto sulle Generali, un grande gruppo assicurativo che purtroppo
vive in una situazione torbida a causa del fatto che da anni è eterodiretto
addirittura dal patto di sindacato di Mediobanca. Questi fenomeni, quasi
invisibili ma profondi, hanno contribuito con forza alla crisi del
capitalismo familiare. Enrico Cuccia, si sa, difendeva il capitalismo
familiare. Lui diceva sempre: `Ognuno giochi con le carte che ha'. E la sua
carta era Mediobanca. La sua idea era che il capitalismo familiare andasse
sostenuto e protetto dalle ingerenze della politica e per tutta la sua vita
praticò quella strategia. Andò persino a cercare i libici per evitare che
nella crisi Fiat entrasse lo Stato. Ora quella rete di protezione non c'è
più e il sistema è esposto a tutte le anomalie del sistema. Ed è esposto
fatalmente anche all'intervento del governo.
Lei con una battuta ha detto che siamo passati dallo Stato di diritto allo
Stato di governo. Cosa intendeva dire?
Intendo dire che ormai il governo decide su tutto. Le ultime notizie a
questo proposito sono preoccupanti: il fatto che il governo abbia l'ultima
parola anche sulle agenzie indipendenti, sulle authority, è allarmante per
la democrazia. E' un brutto segnale, perché significherebbe una perdita di
indipendenza per degli organismi che negli Stati moderni dovrebbero
funzionare come contro poteri. Non è un caso che Giuseppe Tesauro abbia
reagito con grande coraggio a questi segnali di sottomettere le agenzie
indipendenti. Tenga presente che qui non si tratta soltanto dell'ipotesi
eccezionale che pure potrebbe essere prevista in cui ci siano questioni di
politica economica. Se passasse l'ipotesi di uno strapotere del Cicr le
agenzie finirebbero per diventare un settore dello Stato.
Mi pare che anche la Consob cadrebbe sotto questo potere
Direi di sì. Stando alle notizie che si leggono sui giornali tutte le
agenzie rischierebbero di essere sottomesse al potere politico. E dire che
questi organismi sono stati creati per la prima volta dalla mitica Cristina
di Svezia che aveva costituito questi organismi perché voleva sottrarre
potere ai ministeri.
Il controllo dell'esecutivo sull'economia mi pare che sia un fenomeno
crescente e secondo molti istituzionalisti assai allarmante. Lei cosa ne
pensa?
Questi fatti si innestano, in effetti, su un fenomeno politico-
istituzionale ancora più pericoloso, introdotto dal governo Berlusconi: un
drammatico terremoto tra i poteri dello stato che ne muta il tradizionale
equilibrio. E' la prima volta che si tenta di modificare così radicalmente i
poteri usciti dalla Costituzione. Un esempio? Il potere legislativo è ormai
asservito al potere esecutivo, mentre il potere giudiziario è continuamente
delegittimato. Tutto ciò non ha nulla a che fare con le disquisizioni
accademiche sul premierato; rappresenta piuttosto uno scardinamento di un
sistema democratico che si alimenta, tra l'altro, con un conflitto
d'interessi intrecciato a furibonde lotte di potere. Prenda il disegno di
legge sul risparmio: di conflitto d'interesse, pur essendo quello il tema
più scottante nei mercati finanziari, non si parla. Tutto ruota attorno alla
nomina del governatore della Banca d'Italia e alla durata del suo mandato.
Argomenti questi che con il risparmio mi sembra che non c'entrino granchè.
Ma secondo lei il caso Berlusconi, con il suo clamoroso conflitto
d'interesse, è un caso tutto italiano oppure potrebbe essere un modello
adattabile ad altri paesi dell'occidente capitalistico?
Secondo me può essere una malattia che si espande. Può diventare un virus
che colpisce tutti i paesi che sono a capitalismo immaturo e a democrazia
fragile. Se è vero che la democrazia è basata sul consenso e quest'ultimo si
conquista soprattutto con il controllo dei media, fenomeni come quello
Berlusconi si possono riprodurre.