[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
cosa è l'impronta ecologica
- Subject: cosa è l'impronta ecologica
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 15 Sep 2004 06:48:30 +0200
da edizioni ambiente2000 luglio 2004 L'impronta ecologica L'Impronta Ecologica è diventato ormai un classico nelle teorie sulla sostenibilità e, fatto ancor più significativo, la teoria proposta nel 1996 da Wackernagel e Rees ha avuto una concreta e diffusa applicazione e nel corso degli anni diverse èquipe hanno sviluppato studi complessi relativi alle "impronte ecologiche" di città, nazioni e realtà specifiche. Fino a quando la Terra potrà sostenere il peso di una umanità che identifica lo "sviluppo" con la "crescita" e questa con la ricchezza monetaria? La proposta degli autori è una rilettura del bilancio ecologico (locale, regionale, globale) ribaltando l'approccio tradizionale alla sostenibilità. Non più dunque calcolare quanto "carico umano" può essere sorretto da un habitat definito, bensì quanto territorio (terra e acqua) è necessario per un definito carico umano, cioè per reggere l'"impronta ecologica" che una determinata popolazione imprime sulla biosfera. L'Impronta Ecologica propone ragionamenti, esempi e dati secondo i criteri della migliore divulgazione: un linguaggio estremamente efficace, lo sviluppo di ogni concetto in diversi contesti, l'illustrazione didattica, le didascalie, i box di approfondimento e di spiegazione. Gli autori hanno saputo mettere a punto un approccio teorico e metodologico facilmente intuibile anche dai profani: è quindi un libro adatto a un pubblico di non addetti ai lavori, ma indispensabile per chi decide. Mathis Wackernagel è titolare di un dottorato di ricerca presso la School of Community and Regional Planning della University of British Columbia (a Vancouver, Canada) e lavora per l'Earth Council in Costa Rica. William E. Rees è docente e direttore della School of Community and Regional Planning della University of British Columbia. Entrambi sono membri della "Task Force on Planning Healthy and Sustainable Communities" della University of British Columbia. Che cos'è l'Impronta Ecologica? di Mathis Wackernagel, William E. Rees L'analisi dell'Impronta Ecologica è uno strumento di calcolo che ci permette di stimare il consumo di risorse e la richiesta di assimilazione di rifiuti da parte di una determinata popolazione umana o di una certa economia e di esprimere queste grandezze in termini di superficie di territorio produttivo corrispondente. Con questo strumento cerchiamo di dare risposta ad alcune domande tipiche, come ad esempio: quanto la popolazione considerata dipende dall'importazione di risorse da "altrove" e dalla capacità di assorbimento di rifiuti dei "sistemi ecologici comuni"? Nel prossimo secolo la produttività della natura sarà sufficiente per soddisfare le crescenti aspettative materiali di una popolazione umana in aumento? Il concetto base dell'Impronta Ecologica - insegnato da vent'anni nei corsi di pianificazione da William Rees - è stato sviluppato a partire dal 1990 da Mathis Wackernagel e altri studenti che lavorano con Rees nella Healthy and Sustainable Communities Task Force della University of British Columbia. Per spiegare l'idea alla base dell'analisi dell'Impronta Ecologica, esaminiamo come la nostra società percepisce "la città", l'apice stesso delle realizzazioni umane. Se chiediamo alla gente una definizione, per lo più sentiremo parlare di una popolazione molto concentrata, oppure di un' area dominata dalla presenza di edifici, strade e altri manufatti di origine umana (è quello che un architetto definisce "ambiente urbanizzato"). Alcuni faranno riferimento alla città come a un'entità politica dotata di un confine definito che delinea l'area entro la quale l'amministrazione municipale esercita la propria giurisdizione. Altri ancora vedranno la città soprattutto come una concentrazione di quei servizi culturali, sociali ed educativi che, semplicemente, non sarebbero possibili in un insediamento più piccolo. Infine, chi ragiona in termini economici descriverà la città come un nodo di intensi scambi tra individui e aziende, vero motore dello sviluppo produttivo ed economico. Senza dubbio le città costituiscono una delle realizzazioni più grandiose della civiltà umana. In ogni paese, le città rappresentano il centro sociale, culturale e di comunicazione della vita nazionale. Ma c'è qualcosa di fondamentale che manca nella percezione comune della città, qualcosa che finora è stato dato per scontato ed è semplicemente sfuggito alla consapevolezza. Possiamo arrivare a questo elemento mancante facendo un esperimento mentale basato su due semplici domande che hanno lo scopo di costringerci a guardare al di là dei limiti della percezione comune. Per prima cosa, immaginiamo cosa accadrebbe a una qualunque città o regione metropolitana moderna (definita dai suoi confini amministrativi, oppure come area urbanizzata, oppure come concentrato di attività socio-economiche), sia essa Vancouver, Philadelphia o Londra, se fosse chiusa in una cupola emisferica di vetro o plastica che lasciasse entrare la luce ma impedisse alle cose materiali di qualunque genere di entrare e uscire: più o meno come accade nel progetto "Biosphera II" in Arizona. La salute e l'integrità dell'intero sistema umano contenuto all'interno di questa cupola dipenderebbe interamente da ciò che vi fosse rimasto intrappolato all'inizio dell'esperimento. Quasi tutti capiscono che una città così configurata cesserebbe di funzionare e i suoi abitanti perirebbero entro pochi giorni. La popolazione e l'economia contenute nella cupola, tagliate fuori dalle risorse vitali e dagli essenziali sistemi di assorbimento dei rifiuti, potrebbero solo morire di fame e soffocare. In altri termini, gli ecosistemi contenuti entro l'immaginario "terrario" umano non avrebbero una sufficiente carrying capacity per sostenere il peso ecologico imposto dalla popolazione umana in esso contenuta. Questo modello mentale della cupola di vetro ci rammenta, in modo abbastanza brutale, la vulnerabilità ecologica del genere umano. La seconda domanda ci spinge a considerare in termini più concreti questa realtà nascosta. Supponiamo che la nostra città sperimentale sia circondata da un paesaggio diversificato, nel quale terre coltivate e pascoli, foreste e bacini idrici - cioè tutti i tipi di territorio ecologicamente produttivi - siano rappresentati in proporzione alla loro attuale presenza sulla Terra e che la città abbia a disposizione una quantità di energia da combustibili fossili adeguata a sostenere gli attuali livelli di consumo e le sue tecnologie prevalenti. Supponiamo inoltre che la nostra immaginaria copertura di vetro sia elasticamente espandibile. La domanda è dunque la seguente: quanto deve diventare grande la cupola perché la città al suo centro possa sostenersi indefinitamente soltanto grazie agli ecosistemi terrestri e acquatici e alle risorse energetiche contenute all'interno della cupola stessa? In altri termini, qual è la superficie totale di ecosistemi terrestri necessaria per sostenere continuativamente tutte le attività sociali ed economiche degli abitanti di quella città? Si tenga presente che va calcolata la superficie di territorio necessaria per produrre risorse, ma anche per assimilare i rifiuti e per garantire varie funzioni non visibili ma essenziali per la sopravvivenza. Si tenga anche presente che, per semplicità, la domanda così posta non prevede nel calcolo il territorio ecologicamente produttivo necessario a sostenere altre specie, indipendentemente dai servizi che esse possono fornire agli umani. Per ogni serie di circostanze specifiche - questo esempio, infatti, presuppone una certa popolazione, un certo standard di vita materiale, l' esistenza di certe tecnologie ecc. - è possibile calcolare una stima ragionevole della superficie di terra/acqua necessaria perché la città in esame si mantenga. Per definizione, la superficie totale di ecosistema indispensabile all' esistenza continuativa della città costituisce di fatto la sua Impronta Ecologica sulla Terra. Sostenibilità e sviluppo sostenibile: qualche chiarimento di Mathis Wackernagel, William E. Rees La necessità, per il genere umano, di vivere in modo equo secondo le possibilità offerte dalla natura è l'idea alla base della maggior parte delle definizioni di sviluppo sostenibile, a cominciare da quella contenuta nell'appello della Commissione Brundtland, della quale è stato generalmente recepito il richiamo a soddisfare le necessità del presente senza compromettere le necessità delle generazioni future. In ogni caso, a dispetto di una diffusa consapevolezza degli aspetti ecologici e sociali del problema, le interpretazioni del concetto di sviluppo sostenibile e delle sue implicazioni entrano spesso in contraddizione, persino all'interno dello stesso rapporto Brundtland. Una prima, ovvia spiegazione delle interpretazioni divergenti dell'idea fondamentale di sostenibilità si basa sull'ambiguità insita nella formula "sviluppo sostenibile". C'è chi recepisce con più facilità o urgenza l' istanza della "sostenibilità" e invoca un cambiamento ecologico e sociale, e un mondo caratterizzato da stabilità ambientale e giustizia sociale. Altri invece attribuiscono preminenza alla causa dello "sviluppo", che interpretano come crescita ragionata e consapevole: un adeguamento illuminato dello status quo. Sharachchandra Lèlè sostiene che le differenti interpretazioni di sviluppo sostenibile non sono causate da un'insufficiente comprensione, ma piuttosto dalle diverse matrici ideologiche di chi vi si accosta, nonché dalla generale riluttanza rispetto alle implicazioni del messaggio di fondo. La deliberata mancanza di precisione del concetto, anche nella definizione data dalla Commissione Brundtland, è espressione dell'approccio del potere politico e del suo tipico linguaggio di compromesso, più che il sintomo di insormontabili difficoltà intellettuali. In un suo commento, Michael Redelitt avverte che "se non saremo disposti a chiarire a noi stessi le nostre ipotesi di fondo su sviluppo e ambiente e a dare effetto politico alle conclusioni raggiunte, allora la realtà dello sviluppo insostenibile rimarrà immutata". Come abbiamo già suggerito, buona parte della confusione attorno al concetto di "sviluppo sostenibile" è strettamente legata alla generale incapacità di distinguere tra vero e proprio sviluppo e semplice crescita. Secondo l' economista Herman Daly, la differenza può essere individuata definendo come "crescita" un aumento quantitativo materiale, mentre lo "sviluppo" coincide con la realizzazione di un più ampio e pieno potenziale. In breve, crescita significa diventare più grandi mentre sviluppo significa diventare migliori. La tesi di Daly, quindi, è che "sviluppo sostenibile" indica un progressivo miglioramento sociale senza una crescita che superi la carrying capacity ecologica. In effetti, Daly ritiene che nel concetto di "crescita sostenibile" vi sia una contraddizione interna ai limiti dell'assurdo. Per giungere alla sostenibilità si può anche dover ridurre l'aggregato della produzione economica, pur cercando di mettere i meno abbienti nella condizione di consumare in misura maggiore. Vi sono altre ambiguità che si nascondono nello "sviluppo sostenibile". Esso potrebbe essere riferito: a) alle condizioni necessarie per un'esistenza sostenibile (intese, in questo caso, come le basi per una meta da raggiungere o di un modo di vivere); b) ai mezzi socio-politici per conseguire tale meta (e, dunque, un processo di pianificazione); c) a strategie particolari per risolvere problemi che si presentono di volta in volta (soluzioni ad hoc). Se non si chiarisce con sufficiente precisione in quale accezione si sta utilizzando il concetto in un determinato contesto, si possono generare malintesi tali da complicare, se non addirittura pregiudicare, l'intero lavoro. Per questo motivo, alcuni ritengono che si debba preferire "sostenibilità dello sviluppo", in quanto termine meno ambiguo di "sviluppo sostenibile". Sostenibilità forte o sostenibilità debole? di Mathis Wackernagel, William E. Rees Finché la Terra sarà l'unica casa possibile, la sostenibilità richiede che si viva entro la capacità produttiva della natura. Per usare una metafora economica, l'umanità deve imparare a vivere del reddito generato dal capitale naturale residuo. Il "capitale naturale" include non solo tutte le risorse naturali e i "pozzi" (bacini di contenimento) dei rifiuti che sono necessari alle attività economiche, ma anche i processi biofisici e le relazioni tra componenti dell'ecosfera che garantiscono i "servizi" indispensabili alla vita. Il capitale naturale Per capitale naturale si intende qualsiasi stock di materiale di origine naturale dal quale sia possibile ricavare un flusso di beni e servizi per il futuro. Per esempio, una foresta, uno stock ittico o una falda acquifera possono produrre un raccolto o un flusso che è potenzialmente sostenibile di anno in anno. La foresta o lo stock ittico sono un "capitale naturale" e il raccolto sostenibile fornisce un "reddito da capitale naturale". Il capitale naturale, inoltre, fornisce servizi quali l'assimilazione dei rifiuti, il controllo dell'erosione e delle inondazioni, la protezione dalle radiazioni ultraviolette (la fascia di ozono è in effetti una forma di capitale naturale). I ricercatori solitamente si concentrano su tre categorie di capitale naturale: rinnovabile, ricostituibile e non rinnovabile. Il capitale naturale rinnovabile, come ad esempio le specie viventi e gli ecosistemi, è in grado di provvedere autonomamente alla produzione e alla manutenzione mediante energia solare e fotosintesi. Il capitale naturale ricostituibile comprende le sorgenti idriche di superficie e sotterranee e la fascia di ozono situata nella stratosfera. Questi non sono stock viventi, ma sono comunque soggetti a un continuo rinnovamento, spesso grazie a qualche altro meccanismo alimentato dall'energia solare. Viceversa, le forme non rinnovabili di capitale naturale, come i combustibili fossili e i minerali, sono come fondi di magazzino: ogni volta che vengono utilizzati, parte dello stock risulta liquidata. Dal momento che stock adeguati di capitale naturale rinnovabile e ricostituibile sono essenziali per il supporto alla vita (e in genere non sono sostituibili), queste categorie di capitale naturale vengono considerate più importanti ai fini della sostenibilità di quelle non rinnovabili. Da tutto questo è facile comprendere che il "capitale naturale" della Terra consiste in qualcosa di più che non un magazzino di risorse industriali: in esso sono compresi anche quei componenti dell'ecosfera, e i rapporti strutturali che tra essi intercorrono, la cui integrità organizzativa risulta essenziale per la continua auto-produzione e auto-regolazione del sistema medesimo. In effetti, è proprio questa integrazione strutturale e funzionale altamente evoluta che conferisce all' ecosfera le sue caratteristiche uniche di "ambiente" vivibile. Peraltro, l' ecosfera viene in parte prodotta proprio da quegli organismi che comprende. Inoltre, i cicli geoclimatici, idrologici ed ecologici non si limitano a trasportare e distribuire nutrimento ed energia, ma rientrano tra quei meccanismi auto-regolatori e omeostatici che stabilizzano le condizioni sulla Terra per tutte le attuali forme di vita, genere umano compreso. E anche tutte queste sono forme di capitale naturale. Se consumiamo più degli "interessi", cioè del reddito generato dal capitale naturale, diminuiamo la nostra salute biofisica. Il nostro futuro ne risulterebbe compromesso perché - nonostante i continui miglioramenti tecnologici - gli uomini restano in uno stato di "dipendenza obbligata" dalla produttività e dai servizi forniti dall'ecosfera. In una prospettiva ecologica, quindi, l'avere a disposizione una porzione di territorio adeguato (e i relativi stock di capitale naturale) è fondamentale per la sopravvivenza della nostra specie sulla Terra. Invece, la popolazione umana e i consumi medi continuano ad aumentare, mentre l'area produttiva totale e gli stock naturali si mantengono costanti o sono in declino. Questi trend pongono la questione di "quanto" sia il capitale naturale "sufficiente". Dobbiamo sforzarci di conservare o addirittura aumentare i nostri stock di capitale naturale (sostenibilità forte), oppure - come ritengono molti economisti - vi sono perdite di capitale naturale che possono venir compensate da quantità equivalenti di capitale prodotto dall' uomo ("sostenibilità debole")? Certamente ci sono molti esempi di come la tecnologia sia riuscita a sostituire le risorse naturali. La trasmissione a microonde e le fibre ottiche hanno grandemente diminuito la domanda di rame. Ma spesso non c'è possibile sostituzione: sono i casi in cui il capitale naturale (ad esempio le foreste) sono un pre-requisito per il capitale industriale (ad esempio le segherie). Oppure i casi in cui si perde capitale naturale di importanza strategica senza speranza di ricostituirlo in un futuro prevedibile (ad esempio la fascia di ozono). Anche nelle circostanze più favorevoli, la fede cieca nella sostituzione sarebbe un'opzione molto rischiosa. Al punto in cui siamo, il ritmo di impoverimento delle risorse e l' accelerazione del cambiamento globale portano a valutare che gli stock di capitale naturale attualmente disponibili siano già inadeguati per la stabilità ecologica a lungo termine. Riteniamo dunque che, in queste condizioni, la "sostenibilità forte" sia una condizione necessaria per lo sviluppo ecologicamente sostenibile. Per essere più espliciti: questa condizione si realizza solo se ogni generazione eredita una quantità di sistemi biofisici non inferiore a quella ereditata dalla generazione precedente (se si vogliono mantenere gli attuali standard di vita, questa eredità dovrà essere calcolata pro capite per tenere il passo con la crescita della popolazione). La condizione del "capitale naturale costante" è del tutto indipendente dallo stato del capitale prodotto dall'uomo, anche se - possibilmente - anche questo dovrebbe essere mantenuto costante pro capite. La sostenibilità debole Molti economisti ritengono che la "sostenibilità debole" sia sufficiente. Secondo questo punto di vista, la società può dirsi sostenibile a condizione che gli stock aggregati di capitale naturale e manufatto non siano decrescenti. In altre parole, la sostenibilità debole permette di sostituire la dotazione naturale in esaurimento con quella prodotta dall'uomo. In base a questo tipo di analisi, la perdita di "reddito potenziale" che fa seguito allo smantellamento di una foresta non costituisce un problema se una parte dei proventi della "liquidazione del capitale" viene investita in fabbriche di potenziale economico equivalente. Viceversa, la "sostenibilità forte" tiene conto dei servizi ecologici e delle funzioni di supporto alla vita solitamente non conteggiati, e del considerevole rischio connesso alla loro perdita irreversibile (oltre alla fibra di legno, le foreste garantiscono il controllo di alluvioni ed erosione, la distribuzione del calore, la regolazione climatica e tutta una varietà di funzioni e valori non disponibili sul mercato). Il concetto di sostenibilità forte richiede pertanto che gli stock di capitale naturale siano mantenuti costanti indipendentemente dal capitale prodotto dall'uomo. Alcuni studiosi suggeriscono che, ai fini della sostenibilità forte, anche gli stock di capitale artificiale andrebbero mantenuti costanti affinché non vi sia nessun tipo di deprezzamento del capitale. Concordiamo con questo punto di vista, ma vorremmo in ogni caso sottolineare l'importanza di gran lunga superiore del mantenimento di un adeguato capitale naturale di supporto alla vita. Ricordiamo che dal momento che la popolazione e le sue aspettative materiali stanno aumentando, gli stock di capitale naturale dovrebbero effettivamente essere incrementati: ossia, sono gli stock pro capite che andrebbero accresciuti. La debolezza della "sostenibilità debole" risulta particolarmente evidente nell'esposizione che ne hanno fatto David Pearce e Giles Atkinson in un loro studio. A partire dall'assunto della sostenibilità debole per cui il capitale naturale e quello artificiale umano sono intercambiabili, i due studiosi hanno classificato la sostenibilità di 18 paesi particolarmente rappresentativi, sostenendo che "un'economia può definirsi sostenibile se risparmia (in termini monetari) più di quanto non si deprezzi il suo capitale naturale e artificiale". Come risultato, Giappone, Olanda e Costarica risultano essere i paesi ai primi posti in questa classifica della sostenibilità, mentre le nazioni più povere dell'Africa vengono indicate come a elevata insostenibilità. Questo confronto dimostra l'irrilevanza ecologica della "sostenibilità debole", che non riesce a vedere come tanta parte dei cosiddetti risparmi dei paesi sviluppati deriva dall'impoverimento del capitale naturale degli altri paesi e dallo sfruttamento dei beni comuni a livello globale. L'apparente sostenibilità economica attribuita tanto al Giappone quanto all' Olanda, per esempio, dipende soprattutto dalle loro rilevanti importazioni. In realtà, a tali elevati standard materiali corrisponde un gigantesco - ma generalmente ignorato - deficit ecologico nei confronti del resto del mondo (ivi compresi, naturalmente, alcuni degli stati la cui performance viene etichettata come "insostenibile"). Anche se la "sostenibilità forte" può sembrare uno strumento di conservazione, il concetto è largamente antropocentrico e scarsamente funzionale. Viene posto l'accento sul minimo necessario per la sopravvivenza dell'uomo, senza alcun riguardo per le altre specie. E certamente noi non percepiamo la vista, il gusto, la sensazione tattile, l'odore della natura come "capitale naturale". Tuttavia, la conservazione dei sistemi ecologici necessari all'umanità implica necessariamente la protezione di interi ecosistemi e di migliaia di specie essenziali; queste misure, quindi, sono destinate a produrre indirettamente benefici per molti altri organismi. Insomma, è probabile che la speranza maggiore di mantenere sia la biodiversità che l'esperienza della natura risieda proprio nell'interesse dell'uomo per se stesso. Naturalmente, se l'umanità dovesse abbracciare valori più ecocentrici, la sua sopravvivenza sarebbe maggiormente garantita. Il rispetto e la preservazione di altre specie ed ecosistemi per il loro valore intrinseco porrebbe automaticamente l'uomo in una situazione di sicurezza ecologica. Bisogna d'altra parte riconoscere che le condizioni ecologiche fondamentali non bastano da sole a garantire la sostenibilità. Sono necessarie alcune minime condizioni socio-economiche perché siano garantiti il consenso all'azione a breve termine e la stabilità geo-politica a lungo termine. Sostenibilità significa anche soddisfare la qualità della vita di ognuno. È dunque prioritario raggiungere standard di equità materiale e di giustizia sociale entro e tra i paesi (obiettivo che oggi sembra allontanarsi). Abbiamo anche bisogno di mettere in comune la gestione dei nostri beni globali, un'idea che ancora stenta a farsi strada tra le sterili retoriche della globalizzazione economica competitiva. Se non saremo all'altezza di questo compito, semplicemente non saremo in grado di far fronte in modo cooperativo al cambiamento globale e agli inevitabili conflitti che esso porta con sé. Rovesciare il concetto di carrying capacity: l'Impronta Ecologica umana di Mathis Wackernagel, William E. Rees Determinare quanta popolazione umana una certa regione può sostenere è problematico per due ragioni principali. Prima di tutto il peso ecologico totale di qualsiasi popolazione varia al variare di fattori quali il reddito medio pro capite, le aspettative di consumo, il livello della tecnologia (cioè l'efficienza energetica e dei materiali): in pratica, la carrying capacity dipende tanto dai fattori culturali quanto dalla produttività ecologica. In secondo luogo, l'economia globale fa sì che nessuna regione sia più isolabile: tutti hanno accesso alle risorse di tutto il mondo. Anzi, molti osservatori sottolineano che il commercio è in grado di far superare qualsiasi limite di crescita imposto dalla penuria di risorse a livello locale. Vi sono altri fattori che complicano ulteriormente il problema: diversamente dai consumi di altri animali, i consumi umani non sono determinati esclusivamente dalla biologia. A causa della tecnologia, il peso imposto dal nostro metabolismo biologico viene accresciuto enormemente dal metabolismo industriale. Mentre la maggior parte delle specie consuma ben poco oltre al cibo, il grosso dei consumi umani è fatto di merci prodotte (energia, abiti, auto e una infinità di altri beni). Nei paesi industrializzati questo stile di vita è incoraggiato dalla cultura del consumismo ed è limitato solo dal potere d'acquisto dei vari soggetti. Naturalmente, se si guarda al fenomeno globalmente, coesistono livelli di consumo individuale assai diversi: il bracciante agricolo indiano può rappresentare il punto più basso della scala; lo staff dirigente di una compagnia transnazionale il punto più alto. L'analisi dell'Impronta Ecologica supera alcune delle difficoltà del concetto "tradizionale" di carrying capacity invertendo semplicemente i termini del problema. L'Impronta Ecologica parte dal presupposto che ogni categoria di consumo di energia e di materia e ogni emissione di scarti ha bisogno della capacità produttiva o di assorbimento di una determinata superficie di terra o di acqua. Se sommiamo i territori richiesti da ogni tipo di consumo e di scarto di una popolazione definita, la superficie totale che otteniamo rappresenta l'Impronta Ecologica di quella popolazione sulla Terra, indipendentemente dal fatto che questa superficie coincida con il territorio su cui quella popolazione vive. In breve, il modello dell' Impronta Ecologica misura la superficie di territorio richiesta da ogni persona (o popolazione), anziché la popolazione possibile per ogni unità di territorio. Come si vedrà, tale semplice inversione si dimostra assai più istruttiva della tradizionale carrying capacity nel delineare il dilemma della sostenibilità. Più specificamente, l'analisi dell'Impronta Ecologica di una data popolazione o economia può essere definita come la superficie di territorio (terra e acqua) ecologicamente produttivo nelle diverse categorie (terreni agricoli, pascoli, foreste ecc.) che è necessaria per: 1) fornire tutte le risorse di energia e materia consumate; 2) assorbire tutti gli scarti di quella popolazione, data la sua attuale tecnologia indipendentemente da dove tale territorio sia situato. Sono compresi nel conteggio i consumi domestici, i consumi del mondo produttivo e quelli delle istituzioni amministrative. Si noti che, poiché l' analisi dell'Impronta Ecologica è basata sui flussi di reddito naturale, essa è in grado di fornire su base territoriale una stima delle esigenze di capitale naturale di una certa popolazione. Come già ricordato, la dimensione dell'Impronta Ecologica non è fissa, ma dipende dai redditi medi, dai valori prevalenti, dalla tecnologia e da altri fattori socio-culturali. Quali che siano le variabili, bisogna ricordare che l'Impronta Ecologica di una certa popolazione rappresenta la superficie di territorio necessaria esclusivamente per quella popolazione: i flussi e gli stock utilizzati non saranno più a disposizione di altri. Un'analisi completa dovrebbe includere sia le esigenze dirette di territorio, sia gli effetti indiretti di ogni tipo di consumo di materia e energia. Cioè, non dovrebbe tener conto solo della superficie dei vari ecosistemi (capitale naturale) necessari a produrre risorse rinnovabili e servizi vitali (forme diverse di reddito naturale), ma anche della superficie biologicamente perduta a causa di contaminazioni, radiazioni, erosioni, salinizzazione e urbanizzazione, che rendono il terreno improduttivo. Dovrebbe conteggiare, inoltre, l'uso di risorse non rinnovabili, esaminando i processi energetici e i relativi effetti inquinanti. Al momento, però, l'analisi si basa su un numero limitato di tipi di consumo e di flussi di scarto. Ogni elemento aggiuntivo aumenterà quindi le nostre stime attuali. Inoltre, i nostri calcoli partono dal presupposto che il territorio necessario (ad esempio, foreste o terreni agricoli) venga utilizzato in modo sostenibile. Purtroppo di solito non è così: i terreni agricoli, ad esempio, vengono degradati dieci volte più velocemente di quanto non possano ricostituirsi biologicamente. Ciò significa che, nonostante l'Impronta Ecologica delle regioni industrializzate sia terribilmente alta, essa è certamente sottostimata. È probabile che le nostre valutazioni attuali debbano essere incrementate di un cospicuo "fattore sostenibilità" che corregga tale semplificazione. Rovesciare il concetto di carrying capacity consente di fare piazza pulita di molte obiezioni mosse a questo tipo di analisi applicata agli esseri umani. È vero, infatti, che cercare di misurare la carrying capacity umana come il massimo peso sopportabile regionalmente è un esercizio futile: le popolazioni locali sono talmente influenzate da cultura, tecnologia e commerci da rendere oscuro il loro rapporto con i limiti biofisici del territorio di appartenenza. Hong Kong, ad esempio, è densamente popolata ed estremamente prospera, eppure ha una carrying capacity naturale estremamente limitata, mentre alcuni paesi africani con possibilità biofisiche maggiori soffrono la fame. L'analisi dell'Impronta Ecologica evita questi problemi e misura il peso ecologico totale della popolazione anziché il numero di persone. Ci dice che, seppure confuso dalla tecnologia e dai commerci, il peso della popolazione si fa sentire da qualche parte: se il commercio sembra aumentare la carrying capacity locale, certamente la riduce in qualche altro posto. Il nostro metodo mostra gli impatti di una data popolazione analizzando i consumi aggregati (cioè: carico totale = popolazione x consumi pro capite) e convertendo questo dato in una superficie di territorio corrispondente. È così possibile esprimere la domanda ecologica con un unico dato (necessità di capitale naturale) che - diversamente dalla carrying capacity tradizionale - riflette anche le variabili del commercio netto, della tecnologia prevalente e dei redditi medi. L'impronta ecologica così calcolata può essere messa a confronto con l'area su cui vive la popolazione e mostrare di quanto è stata superata la carrying capacity locale e, quindi, la dipendenza di quella popolazione dal commercio (vi possono essere piccoli pezzi di Impronta di una certa popolazione sparsi un po' su tutto il mondo). Questa analisi, inoltre, facilita il confronto tra regioni, rivelando l'effetto delle diverse tecnologie e dei diversi livelli di reddito sull'impatto ecologico. Scopriremo co- sì che l'Impronta media di ogni residente a Hong Kong è enormemente superiore a quella di un agricoltore etiope. Lo scenario dell'Impronta Ecologica può essere adattato ad altre analisi di sostenibilità. Ad esempio, potremmo calcolare l'impronta ecologica del commercio per rivelare quanta carrying capacity è racchiusa nelle importazioni di una regione e a quanta carrying capacity essa rinuncia per produrre le esportazioni necessarie a pagare ciò che importa. Inoltre, l'Impronta Ecologica media procapite può essere paragonata con una suddivisione equa della Terra, cioè quella fetta di terra produttiva del nostro pianeta oggi teoricamente a disposizione di ogni persona (con tante scuse alle altre specie!). Oggi questa porzione è di 1,5 ettari (corrispondenti a un quadrato di 122 metri di lato), di cui solo 0,25 ettari sono terreno arabile. L'analisi dell'Impronta Ecologica ci consente di stimare il sovraccarico globale e il deficit ecologico di qualsiasi regione o paese. Il "sovraccarico" è la parte di Impronta Ecologica complessiva dell'umanità che supera la carrying capacity complessiva. Oltre un certo punto, la crescita materiale dell'economia mondiale può essere ottenuta solo attraverso l'impoverimento del capitale naturale e minando i servizi naturali vitali da cui noi tutti dipendiamo. In altre parole, siamo in sovraccarico quando i consumi dell'economia eccedono i redditi naturali e creano declino ecologico. Il deficit ecologico (o di sostenibilità) è invece la misura del sovraccarico "locale": stima la differenza tra la capacità ecologica di una data regione o nazione e la sua effettiva Impronta Ecologica, svelando così quanto la regione sia dipendente da capacità produttive extra-territoriali, attraverso il commercio o l'appropriazione dei flussi naturali. Già oggi è evidente che l'Impronta Ecologica umana supera la carrying capacity globale. Tale sovraccarico è possibile. solo temporaneamente e farà pagare gravi prezzi alle generazioni future. Senza uno sforzo concertato per ridurre il flusso di materia e energia, i nostri figli si troveranno a dover soddisfare le necessità biologiche di una popolazione più numerosa avendo a disposizione degli stock di capitale naturale (la vera ricchezza) assai diminuiti.
- Prev by Date: Termini Imerese 24-26 settembre
- Next by Date: attenti al tfr
- Previous by thread: Termini Imerese 24-26 settembre
- Next by thread: attenti al tfr
- Indice: