cosa è l'impronta ecologica



da edizioni ambiente2000
luglio 2004

L'impronta ecologica

L'Impronta Ecologica è diventato ormai un classico nelle teorie sulla
sostenibilità e, fatto ancor più significativo, la teoria proposta nel 1996
da Wackernagel e Rees ha avuto una concreta e diffusa applicazione e nel
corso degli anni diverse èquipe hanno sviluppato studi complessi relativi
alle "impronte ecologiche" di città, nazioni e realtà specifiche.
Fino a quando la Terra potrà sostenere il peso di una umanità che identifica
lo "sviluppo" con la "crescita" e questa con la ricchezza monetaria? La
proposta degli autori è una rilettura del bilancio ecologico (locale,
regionale, globale) ribaltando l'approccio tradizionale alla sostenibilità.
Non più dunque calcolare quanto "carico umano" può essere sorretto da un
habitat definito, bensì quanto territorio (terra e acqua) è necessario per
un definito carico umano, cioè per reggere l'"impronta ecologica" che una
determinata popolazione imprime sulla biosfera.
L'Impronta Ecologica propone ragionamenti, esempi e dati secondo i criteri
della migliore divulgazione: un linguaggio estremamente efficace, lo
sviluppo di ogni concetto in diversi contesti, l'illustrazione didattica, le
didascalie, i box di approfondimento e di spiegazione.
Gli autori hanno saputo mettere a punto un approccio teorico e metodologico
facilmente intuibile anche dai profani: è quindi un libro adatto a un
pubblico di non addetti ai lavori, ma indispensabile per chi decide.
Mathis Wackernagel è titolare di un dottorato di ricerca presso la School of
Community and Regional Planning della University of British Columbia (a
Vancouver, Canada) e lavora per l'Earth Council in Costa Rica. William E.
Rees è docente e direttore della School of Community and Regional Planning
della University of British Columbia.
Entrambi sono membri della "Task Force on Planning Healthy and Sustainable
Communities" della University of British Columbia.

Che cos'è l'Impronta Ecologica?
di Mathis Wackernagel, William E. Rees

L'analisi dell'Impronta Ecologica è uno strumento di calcolo che ci permette
di stimare il consumo di risorse e la richiesta di assimilazione di rifiuti
da parte di una determinata popolazione umana o di una certa economia e di
esprimere queste grandezze in termini di superficie di territorio produttivo
corrispondente. Con questo strumento cerchiamo di dare risposta ad alcune
domande tipiche, come ad esempio: quanto la popolazione considerata dipende
dall'importazione di risorse da "altrove" e dalla capacità di assorbimento
di rifiuti dei "sistemi ecologici comuni"? Nel prossimo secolo la
produttività della natura sarà sufficiente per soddisfare le crescenti
aspettative materiali di una popolazione umana in aumento? Il concetto base
dell'Impronta Ecologica - insegnato da vent'anni nei corsi di pianificazione
da William Rees - è stato sviluppato a partire dal 1990 da Mathis
Wackernagel e altri studenti che lavorano con Rees nella Healthy and
Sustainable Communities Task Force della University of British Columbia.
Per spiegare l'idea alla base dell'analisi dell'Impronta Ecologica,
esaminiamo come la nostra società percepisce "la città", l'apice stesso
delle realizzazioni umane. Se chiediamo alla gente una definizione, per lo
più sentiremo parlare di una popolazione molto concentrata, oppure di un'
area dominata dalla presenza di edifici, strade e altri manufatti di origine
umana (è quello che un architetto definisce "ambiente urbanizzato"). Alcuni
faranno riferimento alla città come a un'entità politica dotata di un
confine definito che delinea l'area entro la quale l'amministrazione
municipale esercita la propria giurisdizione. Altri ancora vedranno la città
soprattutto come una concentrazione di quei servizi culturali, sociali ed
educativi che, semplicemente, non sarebbero possibili in un insediamento più
piccolo. Infine, chi ragiona in termini economici descriverà la città come
un nodo di intensi scambi tra individui e aziende, vero motore dello
sviluppo produttivo ed economico. Senza dubbio le città costituiscono una
delle realizzazioni più grandiose della civiltà umana. In ogni paese, le
città rappresentano il centro sociale, culturale e di comunicazione della
vita nazionale.
Ma c'è qualcosa di fondamentale che manca nella percezione comune della
città, qualcosa che finora è stato dato per scontato ed è semplicemente
sfuggito alla consapevolezza. Possiamo arrivare a questo elemento mancante
facendo un esperimento mentale basato su due semplici domande che hanno lo
scopo di costringerci a guardare al di là dei limiti della percezione
comune.
Per prima cosa, immaginiamo cosa accadrebbe a una qualunque città o regione
metropolitana moderna (definita dai suoi confini amministrativi, oppure come
area urbanizzata, oppure come concentrato di attività socio-economiche), sia
essa Vancouver, Philadelphia o Londra, se fosse chiusa in una cupola
emisferica di vetro o plastica che lasciasse entrare la luce ma impedisse
alle cose materiali di qualunque genere di entrare e uscire: più o meno come
accade nel progetto "Biosphera II" in Arizona.
La salute e l'integrità dell'intero sistema umano contenuto all'interno di
questa cupola dipenderebbe interamente da ciò che vi fosse rimasto
intrappolato all'inizio dell'esperimento. Quasi tutti capiscono che una
città così configurata cesserebbe di funzionare e i suoi abitanti
perirebbero entro pochi giorni. La popolazione e l'economia contenute nella
cupola, tagliate fuori dalle risorse vitali e dagli essenziali sistemi di
assorbimento dei rifiuti, potrebbero solo morire di fame e soffocare. In
altri termini, gli ecosistemi contenuti entro l'immaginario "terrario" umano
non avrebbero una sufficiente carrying capacity per sostenere il peso
ecologico imposto dalla popolazione umana in esso contenuta. Questo modello
mentale della cupola di vetro ci rammenta, in modo abbastanza brutale, la
vulnerabilità ecologica del genere umano.
La seconda domanda ci spinge a considerare in termini più concreti questa
realtà nascosta. Supponiamo che la nostra città sperimentale sia circondata
da un paesaggio diversificato, nel quale terre coltivate e pascoli, foreste
e bacini idrici - cioè tutti i tipi di territorio ecologicamente
produttivi - siano rappresentati in proporzione alla loro attuale presenza
sulla Terra e che la città abbia a disposizione una quantità di energia da
combustibili fossili adeguata a sostenere gli attuali livelli di consumo e
le sue tecnologie prevalenti.
Supponiamo inoltre che la nostra immaginaria copertura di vetro sia
elasticamente espandibile. La domanda è dunque la seguente: quanto deve
diventare grande la cupola perché la città al suo centro possa sostenersi
indefinitamente soltanto grazie agli ecosistemi terrestri e acquatici e alle
risorse energetiche contenute all'interno della cupola stessa? In altri
termini, qual è la superficie totale di ecosistemi terrestri necessaria per
sostenere continuativamente tutte le attività sociali ed economiche degli
abitanti di quella città?
Si tenga presente che va calcolata la superficie di territorio necessaria
per produrre risorse, ma anche per assimilare i rifiuti e per garantire
varie funzioni non visibili ma essenziali per la sopravvivenza. Si tenga
anche presente che, per semplicità, la domanda così posta non prevede nel
calcolo il territorio ecologicamente produttivo necessario a sostenere altre
specie, indipendentemente dai servizi che esse possono fornire agli umani.
Per ogni serie di circostanze specifiche - questo esempio, infatti,
presuppone una certa popolazione, un certo standard di vita materiale, l'
esistenza di certe tecnologie ecc. - è possibile calcolare una stima
ragionevole della superficie di terra/acqua necessaria perché la città in
esame si mantenga.
Per definizione, la superficie totale di ecosistema indispensabile all'
esistenza continuativa della città costituisce di fatto la sua Impronta
Ecologica sulla Terra.

Sostenibilità e sviluppo sostenibile: qualche chiarimento
di Mathis Wackernagel, William E. Rees

La necessità, per il genere umano, di vivere in modo equo secondo le
possibilità offerte dalla natura è l'idea alla base della maggior parte
delle definizioni di sviluppo sostenibile, a cominciare da quella contenuta
nell'appello della Commissione Brundtland, della quale è stato generalmente
recepito il richiamo a soddisfare le necessità del presente senza
compromettere le necessità delle generazioni future. In ogni caso, a
dispetto di una diffusa consapevolezza degli aspetti ecologici e sociali del
problema, le interpretazioni del concetto di sviluppo sostenibile e delle
sue implicazioni entrano spesso in contraddizione, persino all'interno dello
stesso rapporto Brundtland.
Una prima, ovvia spiegazione delle interpretazioni divergenti dell'idea
fondamentale di sostenibilità si basa sull'ambiguità insita nella formula
"sviluppo sostenibile". C'è chi recepisce con più facilità o urgenza l'
istanza della "sostenibilità" e invoca un cambiamento ecologico e sociale, e
un mondo caratterizzato da stabilità ambientale e giustizia sociale.
Altri invece attribuiscono preminenza alla causa dello "sviluppo", che
interpretano come crescita ragionata e consapevole: un adeguamento
illuminato dello status quo. Sharachchandra Lèlè sostiene che le differenti
interpretazioni di sviluppo sostenibile non sono causate da un'insufficiente
comprensione, ma piuttosto dalle diverse matrici ideologiche di chi vi si
accosta, nonché dalla generale riluttanza rispetto alle implicazioni del
messaggio di fondo.
La deliberata mancanza di precisione del concetto, anche nella definizione
data dalla Commissione Brundtland, è espressione dell'approccio del potere
politico e del suo tipico linguaggio di compromesso, più che il sintomo di
insormontabili difficoltà intellettuali. In un suo commento, Michael
Redelitt avverte che "se non saremo disposti a chiarire a noi stessi le
nostre ipotesi di fondo su sviluppo e ambiente e a dare effetto politico
alle conclusioni raggiunte, allora la realtà dello sviluppo insostenibile
rimarrà immutata".
Come abbiamo già suggerito, buona parte della confusione attorno al concetto
di "sviluppo sostenibile" è strettamente legata alla generale incapacità di
distinguere tra vero e proprio sviluppo e semplice crescita. Secondo l'
economista Herman Daly, la differenza può essere individuata definendo come
"crescita" un aumento quantitativo materiale, mentre lo "sviluppo" coincide
con la realizzazione di un più ampio e pieno potenziale. In breve, crescita
significa diventare più grandi mentre sviluppo significa diventare migliori.
La tesi di Daly, quindi, è che "sviluppo sostenibile" indica un progressivo
miglioramento sociale senza una crescita che superi la carrying capacity
ecologica. In effetti, Daly ritiene che nel concetto di "crescita
sostenibile" vi sia una contraddizione interna ai limiti dell'assurdo. Per
giungere alla sostenibilità si può anche dover ridurre l'aggregato della
produzione economica, pur cercando di mettere i meno abbienti nella
condizione di consumare in misura maggiore.
Vi sono altre ambiguità che si nascondono nello "sviluppo sostenibile". Esso
potrebbe essere riferito:
a) alle condizioni necessarie per un'esistenza sostenibile (intese, in
questo caso, come le basi per una meta da raggiungere o di un modo di
vivere);
b) ai mezzi socio-politici per conseguire tale meta (e, dunque, un processo
di pianificazione);
c) a strategie particolari per risolvere problemi che si presentono di volta
in volta (soluzioni ad hoc). Se non si chiarisce con sufficiente precisione
in quale accezione si sta utilizzando il concetto in un determinato
contesto, si possono generare malintesi tali da complicare, se non
addirittura pregiudicare, l'intero lavoro.
Per questo motivo, alcuni ritengono che si debba preferire "sostenibilità
dello sviluppo", in quanto termine meno ambiguo di "sviluppo sostenibile".

Sostenibilità forte o sostenibilità debole?
di Mathis Wackernagel, William E. Rees

Finché la Terra sarà l'unica casa possibile, la sostenibilità richiede che
si viva entro la capacità produttiva della natura. Per usare una metafora
economica, l'umanità deve imparare a vivere del reddito generato dal
capitale naturale residuo. Il "capitale naturale" include non solo tutte le
risorse naturali e i "pozzi" (bacini di contenimento) dei rifiuti che sono
necessari alle attività economiche, ma anche i processi biofisici e le
relazioni tra componenti dell'ecosfera che garantiscono i "servizi"
indispensabili alla vita.
Il capitale naturale
Per capitale naturale si intende qualsiasi stock di materiale di origine
naturale dal quale sia possibile ricavare un flusso di beni e servizi per il
futuro. Per esempio, una foresta, uno stock ittico o una falda acquifera
possono produrre un raccolto o un flusso che è potenzialmente sostenibile di
anno in anno. La foresta o lo stock ittico sono un "capitale naturale" e il
raccolto sostenibile fornisce un "reddito da capitale naturale". Il capitale
naturale, inoltre, fornisce servizi quali l'assimilazione dei rifiuti, il
controllo dell'erosione e delle inondazioni, la protezione dalle radiazioni
ultraviolette (la fascia di ozono è in effetti una forma di capitale
naturale). I ricercatori solitamente si concentrano su tre categorie di
capitale naturale: rinnovabile, ricostituibile e non rinnovabile.
Il capitale naturale rinnovabile, come ad esempio le specie viventi e gli
ecosistemi, è in grado di provvedere autonomamente alla produzione e alla
manutenzione mediante energia solare e fotosintesi. Il capitale naturale
ricostituibile comprende le sorgenti idriche di superficie e sotterranee e
la fascia di ozono situata nella stratosfera. Questi non sono stock viventi,
ma sono comunque soggetti a un continuo rinnovamento, spesso grazie a
qualche altro meccanismo alimentato dall'energia solare.
Viceversa, le forme non rinnovabili di capitale naturale, come i
combustibili fossili e i minerali, sono come fondi di magazzino: ogni volta
che vengono utilizzati, parte dello stock risulta liquidata.
Dal momento che stock adeguati di capitale naturale rinnovabile e
ricostituibile sono essenziali per il supporto alla vita (e in genere non
sono sostituibili), queste categorie di capitale naturale vengono
considerate più importanti ai fini della sostenibilità di quelle non
rinnovabili. Da tutto questo è facile comprendere che il "capitale naturale"
della Terra consiste in qualcosa di più che non un magazzino di risorse
industriali: in esso sono compresi anche quei componenti dell'ecosfera, e i
rapporti strutturali che tra essi intercorrono, la cui integrità
organizzativa risulta essenziale per la continua auto-produzione e
auto-regolazione del sistema medesimo. In effetti, è proprio questa
integrazione strutturale e funzionale altamente evoluta che conferisce all'
ecosfera le sue caratteristiche uniche di "ambiente" vivibile. Peraltro, l'
ecosfera viene in parte prodotta proprio da quegli organismi che comprende.
Inoltre, i cicli geoclimatici, idrologici ed ecologici non si limitano a
trasportare e distribuire nutrimento ed energia, ma rientrano tra quei
meccanismi auto-regolatori e omeostatici che stabilizzano le condizioni
sulla Terra per tutte le attuali forme di vita, genere umano compreso. E
anche tutte queste sono forme di capitale naturale.
Se consumiamo più degli "interessi", cioè del reddito generato dal capitale
naturale, diminuiamo la nostra salute biofisica. Il nostro futuro ne
risulterebbe compromesso perché - nonostante i continui miglioramenti
tecnologici - gli uomini restano in uno stato di "dipendenza obbligata"
dalla produttività e dai servizi forniti dall'ecosfera. In una prospettiva
ecologica, quindi, l'avere a disposizione una porzione di territorio
adeguato (e i relativi stock di capitale naturale) è fondamentale per la
sopravvivenza della nostra specie sulla Terra. Invece, la popolazione umana
e i consumi medi continuano ad aumentare, mentre l'area produttiva totale e
gli stock naturali si mantengono costanti o sono in declino.
Questi trend pongono la questione di "quanto" sia il capitale naturale
"sufficiente". Dobbiamo sforzarci di conservare o addirittura aumentare i
nostri stock di capitale naturale (sostenibilità forte), oppure - come
ritengono molti economisti - vi sono perdite di capitale naturale che
possono venir compensate da quantità equivalenti di capitale prodotto dall'
uomo ("sostenibilità debole")?
Certamente ci sono molti esempi di come la tecnologia sia riuscita a
sostituire le risorse naturali. La trasmissione a microonde e le fibre
ottiche hanno grandemente diminuito la domanda di rame. Ma spesso non c'è
possibile sostituzione: sono i casi in cui il capitale naturale (ad esempio
le foreste) sono un pre-requisito per il capitale industriale (ad esempio le
segherie). Oppure i casi in cui si perde capitale naturale di importanza
strategica senza speranza di ricostituirlo in un futuro prevedibile (ad
esempio la fascia di ozono). Anche nelle circostanze più favorevoli, la fede
cieca nella sostituzione sarebbe un'opzione molto rischiosa.
Al punto in cui siamo, il ritmo di impoverimento delle risorse e l'
accelerazione del cambiamento globale portano a valutare che gli stock di
capitale naturale attualmente disponibili siano già inadeguati per la
stabilità ecologica a lungo termine. Riteniamo dunque che, in queste
condizioni, la "sostenibilità forte" sia una condizione necessaria per lo
sviluppo ecologicamente sostenibile.
Per essere più espliciti: questa condizione si realizza solo se ogni
generazione eredita una quantità di sistemi biofisici non inferiore a quella
ereditata dalla generazione precedente (se si vogliono mantenere gli attuali
standard di vita, questa eredità dovrà essere calcolata pro capite per
tenere il passo con la crescita della popolazione).
La condizione del "capitale naturale costante" è del tutto indipendente
dallo stato del capitale prodotto dall'uomo, anche se - possibilmente -
anche questo dovrebbe essere mantenuto costante pro capite.
La sostenibilità debole
Molti economisti ritengono che la "sostenibilità debole" sia sufficiente.
Secondo questo punto di vista, la società può dirsi sostenibile a condizione
che gli stock aggregati di capitale naturale e manufatto non siano
decrescenti. In altre parole, la sostenibilità debole permette di sostituire
la dotazione naturale in esaurimento con quella prodotta dall'uomo.
In base a questo tipo di analisi, la perdita di "reddito potenziale" che fa
seguito allo smantellamento di una foresta non costituisce un problema se
una parte dei proventi della "liquidazione del capitale" viene investita in
fabbriche di potenziale economico equivalente. Viceversa, la "sostenibilità
forte" tiene conto dei servizi ecologici e delle funzioni di supporto alla
vita solitamente non conteggiati, e del considerevole rischio connesso alla
loro perdita irreversibile (oltre alla fibra di legno, le foreste
garantiscono il controllo di alluvioni ed erosione, la distribuzione del
calore, la regolazione climatica e tutta una varietà di funzioni e valori
non disponibili sul mercato). Il concetto di sostenibilità forte richiede
pertanto che gli stock di capitale naturale siano mantenuti costanti
indipendentemente dal capitale prodotto dall'uomo. Alcuni studiosi
suggeriscono che, ai fini della sostenibilità forte, anche gli stock di
capitale artificiale andrebbero mantenuti costanti affinché non vi sia
nessun tipo di deprezzamento del capitale.
Concordiamo con questo punto di vista, ma vorremmo in ogni caso sottolineare
l'importanza di gran lunga superiore del mantenimento di un adeguato
capitale naturale di supporto alla vita. Ricordiamo che dal momento che la
popolazione e le sue aspettative materiali stanno aumentando, gli stock di
capitale naturale dovrebbero effettivamente essere incrementati: ossia, sono
gli stock pro capite che andrebbero accresciuti.
La debolezza della "sostenibilità debole" risulta particolarmente evidente
nell'esposizione che ne hanno fatto David Pearce e Giles Atkinson in un loro
studio. A partire dall'assunto della sostenibilità debole per cui il
capitale naturale e quello artificiale umano sono intercambiabili, i due
studiosi hanno classificato la sostenibilità di 18 paesi particolarmente
rappresentativi, sostenendo che "un'economia può definirsi sostenibile se
risparmia (in termini monetari) più di quanto non si deprezzi il suo
capitale naturale e artificiale". Come risultato, Giappone, Olanda e
Costarica risultano essere i paesi ai primi posti in questa classifica della
sostenibilità, mentre le nazioni più povere dell'Africa vengono indicate
come a elevata insostenibilità. Questo confronto dimostra l'irrilevanza
ecologica della "sostenibilità debole", che non riesce a vedere come tanta
parte dei cosiddetti risparmi dei paesi sviluppati deriva dall'impoverimento
del capitale naturale degli altri paesi e dallo sfruttamento dei beni comuni
a livello globale.
L'apparente sostenibilità economica attribuita tanto al Giappone quanto all'
Olanda, per esempio, dipende soprattutto dalle loro rilevanti importazioni.
In realtà, a tali elevati standard materiali corrisponde un gigantesco - ma
generalmente ignorato - deficit ecologico nei confronti del resto del mondo
(ivi compresi, naturalmente, alcuni degli stati la cui performance viene
etichettata come "insostenibile").
Anche se la "sostenibilità forte" può sembrare uno strumento di
conservazione, il concetto è largamente antropocentrico e scarsamente
funzionale. Viene posto l'accento sul minimo necessario per la sopravvivenza
dell'uomo, senza alcun riguardo per le altre specie. E certamente noi non
percepiamo la vista, il gusto, la sensazione tattile, l'odore della natura
come "capitale naturale". Tuttavia, la conservazione dei sistemi ecologici
necessari all'umanità implica necessariamente la protezione di interi
ecosistemi e di migliaia di specie essenziali; queste misure, quindi, sono
destinate a produrre indirettamente benefici per molti altri organismi.
Insomma, è probabile che la speranza maggiore di mantenere sia la
biodiversità che l'esperienza della natura risieda proprio nell'interesse
dell'uomo per se stesso. Naturalmente, se l'umanità dovesse abbracciare
valori più ecocentrici, la sua sopravvivenza sarebbe maggiormente garantita.
Il rispetto e la preservazione di altre specie ed ecosistemi per il loro
valore intrinseco porrebbe automaticamente l'uomo in una situazione di
sicurezza ecologica. Bisogna d'altra parte riconoscere che le condizioni
ecologiche fondamentali non bastano da sole a garantire la sostenibilità.
Sono necessarie alcune minime condizioni socio-economiche perché siano
garantiti il consenso all'azione a breve termine e la stabilità geo-politica
a lungo termine. Sostenibilità significa anche soddisfare la qualità della
vita di ognuno. È dunque prioritario raggiungere standard di equità
materiale e di giustizia sociale entro e tra i paesi (obiettivo che oggi
sembra allontanarsi). Abbiamo anche bisogno di mettere in comune la gestione
dei nostri beni globali, un'idea che ancora stenta a farsi strada tra le
sterili retoriche della globalizzazione economica competitiva. Se non saremo
all'altezza di questo compito, semplicemente non saremo in grado di far
fronte in modo cooperativo al cambiamento globale e agli inevitabili
conflitti che esso porta con sé.

Rovesciare il concetto di carrying capacity: l'Impronta Ecologica umana
di Mathis Wackernagel, William E. Rees

Determinare quanta popolazione umana una certa regione può sostenere è
problematico per due ragioni principali. Prima di tutto il peso ecologico
totale di qualsiasi popolazione varia al variare di fattori quali il reddito
medio pro capite, le aspettative di consumo, il livello della tecnologia
(cioè l'efficienza energetica e dei materiali): in pratica, la carrying
capacity dipende tanto dai fattori culturali quanto dalla produttività
ecologica. In secondo luogo, l'economia globale fa sì che nessuna regione
sia più isolabile: tutti hanno accesso alle risorse di tutto il mondo. Anzi,
molti osservatori sottolineano che il commercio è in grado di far superare
qualsiasi limite di crescita imposto dalla penuria di risorse a livello
locale. Vi sono altri fattori che complicano ulteriormente il problema:
diversamente dai consumi di altri animali, i consumi umani non sono
determinati esclusivamente dalla biologia.
A causa della tecnologia, il peso imposto dal nostro metabolismo biologico
viene accresciuto enormemente dal metabolismo industriale. Mentre la maggior
parte delle specie consuma ben poco oltre al cibo, il grosso dei consumi
umani è fatto di merci prodotte (energia, abiti, auto e una infinità di
altri beni).
Nei paesi industrializzati questo stile di vita è incoraggiato dalla cultura
del consumismo ed è limitato solo dal potere d'acquisto dei vari soggetti.
Naturalmente, se si guarda al fenomeno globalmente, coesistono livelli di
consumo individuale assai diversi: il bracciante agricolo indiano può
rappresentare il punto più basso della scala; lo staff dirigente di una
compagnia transnazionale il punto più alto.
L'analisi dell'Impronta Ecologica supera alcune delle difficoltà del
concetto "tradizionale" di carrying capacity invertendo semplicemente i
termini del problema. L'Impronta Ecologica parte dal presupposto che ogni
categoria di consumo di energia e di materia e ogni emissione di scarti ha
bisogno della capacità produttiva o di assorbimento di una determinata
superficie di terra o di acqua. Se sommiamo i territori richiesti da ogni
tipo di consumo e di scarto di una popolazione definita, la superficie
totale che otteniamo rappresenta l'Impronta Ecologica di quella popolazione
sulla Terra, indipendentemente dal fatto che questa superficie coincida con
il territorio su cui quella popolazione vive. In breve, il modello dell'
Impronta Ecologica misura la superficie di territorio richiesta da ogni
persona (o popolazione), anziché la popolazione possibile per ogni unità di
territorio. Come si vedrà, tale semplice inversione si dimostra assai più
istruttiva della tradizionale carrying capacity nel delineare il dilemma
della sostenibilità.
Più specificamente, l'analisi dell'Impronta Ecologica di una data
popolazione o economia può essere definita come la superficie di territorio
(terra e acqua) ecologicamente produttivo nelle diverse categorie (terreni
agricoli, pascoli, foreste ecc.) che è necessaria per:
1) fornire tutte le risorse di energia e materia consumate;
2) assorbire tutti gli scarti di quella popolazione, data la sua attuale
tecnologia indipendentemente da dove tale territorio sia situato.
Sono compresi nel conteggio i consumi domestici, i consumi del mondo
produttivo e quelli delle istituzioni amministrative. Si noti che, poiché l'
analisi dell'Impronta Ecologica è basata sui flussi di reddito naturale,
essa è in grado di fornire su base territoriale una stima delle esigenze di
capitale naturale di una certa popolazione.
Come già ricordato, la dimensione dell'Impronta Ecologica non è fissa, ma
dipende dai redditi medi, dai valori prevalenti, dalla tecnologia e da altri
fattori socio-culturali. Quali che siano le variabili, bisogna ricordare che
l'Impronta Ecologica di una certa popolazione rappresenta la superficie di
territorio necessaria esclusivamente per quella popolazione: i flussi e gli
stock utilizzati non saranno più a disposizione di altri.
Un'analisi completa dovrebbe includere sia le esigenze dirette di
territorio, sia gli effetti indiretti di ogni tipo di consumo di materia e
energia. Cioè, non dovrebbe tener conto solo della superficie dei vari
ecosistemi (capitale naturale) necessari a produrre risorse rinnovabili e
servizi vitali (forme diverse di reddito naturale), ma anche della
superficie biologicamente perduta a causa di contaminazioni, radiazioni,
erosioni, salinizzazione e urbanizzazione, che rendono il terreno
improduttivo. Dovrebbe conteggiare, inoltre, l'uso di risorse non
rinnovabili, esaminando i processi energetici e i relativi effetti
inquinanti.
Al momento, però, l'analisi si basa su un numero limitato di tipi di consumo
e di flussi di scarto. Ogni elemento aggiuntivo aumenterà quindi le nostre
stime attuali. Inoltre, i nostri calcoli partono dal presupposto che il
territorio necessario (ad esempio, foreste o terreni agricoli) venga
utilizzato in modo sostenibile. Purtroppo di solito non è così: i terreni
agricoli, ad esempio, vengono degradati dieci volte più velocemente di
quanto non possano ricostituirsi biologicamente. Ciò significa che,
nonostante l'Impronta Ecologica delle regioni industrializzate sia
terribilmente alta, essa è certamente sottostimata. È probabile che le
nostre valutazioni attuali debbano essere incrementate di un cospicuo
"fattore sostenibilità" che corregga tale semplificazione.
Rovesciare il concetto di carrying capacity consente di fare piazza pulita
di molte obiezioni mosse a questo tipo di analisi applicata agli esseri
umani. È vero, infatti, che cercare di misurare la carrying capacity umana
come il massimo peso sopportabile regionalmente è un esercizio futile: le
popolazioni locali sono talmente influenzate da cultura, tecnologia e
commerci da rendere oscuro il loro rapporto con i limiti biofisici del
territorio di appartenenza. Hong Kong, ad esempio, è densamente popolata ed
estremamente prospera, eppure ha una carrying capacity naturale estremamente
limitata, mentre alcuni paesi africani con possibilità biofisiche maggiori
soffrono la fame.
L'analisi dell'Impronta Ecologica evita questi problemi e misura il peso
ecologico totale della popolazione anziché il numero di persone. Ci dice
che, seppure confuso dalla tecnologia e dai commerci, il peso della
popolazione si fa sentire da qualche parte: se il commercio sembra aumentare
la carrying capacity locale, certamente la riduce in qualche altro posto.
Il nostro metodo mostra gli impatti di una data popolazione analizzando i
consumi aggregati (cioè: carico totale = popolazione x consumi pro capite) e
convertendo questo dato in una superficie di territorio corrispondente. È
così possibile esprimere la domanda ecologica con un unico dato (necessità
di capitale naturale) che - diversamente dalla carrying capacity
tradizionale - riflette anche le variabili del commercio netto, della
tecnologia prevalente e dei redditi medi.
L'impronta ecologica così calcolata può essere messa a confronto con l'area
su cui vive la popolazione e mostrare di quanto è stata superata la carrying
capacity locale e, quindi, la dipendenza di quella popolazione dal commercio
(vi possono essere piccoli pezzi di Impronta di una certa popolazione sparsi
un po' su tutto il mondo). Questa analisi, inoltre, facilita il confronto
tra regioni, rivelando l'effetto delle diverse tecnologie e dei diversi
livelli di reddito sull'impatto ecologico. Scopriremo co- sì che l'Impronta
media di ogni residente a Hong Kong è enormemente superiore a quella di un
agricoltore etiope.
Lo scenario dell'Impronta Ecologica può essere adattato ad altre analisi di
sostenibilità. Ad esempio, potremmo calcolare l'impronta ecologica del
commercio per rivelare quanta carrying capacity è racchiusa nelle
importazioni di una regione e a quanta carrying capacity essa rinuncia per
produrre le esportazioni necessarie a pagare ciò che importa.
Inoltre, l'Impronta Ecologica media procapite può essere paragonata con una
suddivisione equa della Terra, cioè quella fetta di terra produttiva del
nostro pianeta oggi teoricamente a disposizione di ogni persona (con tante
scuse alle altre specie!). Oggi questa porzione è di 1,5 ettari
(corrispondenti a un quadrato di 122 metri di lato), di cui solo 0,25 ettari
sono terreno arabile.
L'analisi dell'Impronta Ecologica ci consente di stimare il sovraccarico
globale e il deficit ecologico di qualsiasi regione o paese. Il
"sovraccarico" è la parte di Impronta Ecologica complessiva dell'umanità che
supera la carrying capacity complessiva.
Oltre un certo punto, la crescita materiale dell'economia mondiale può
essere ottenuta solo attraverso l'impoverimento del capitale naturale e
minando i servizi naturali vitali da cui noi tutti dipendiamo. In altre
parole, siamo in sovraccarico quando i consumi dell'economia eccedono i
redditi naturali e creano declino ecologico.
Il deficit ecologico (o di sostenibilità) è invece la misura del
sovraccarico "locale": stima la differenza tra la capacità ecologica di una
data regione o nazione e la sua effettiva Impronta Ecologica, svelando così
quanto la regione sia dipendente da capacità produttive extra-territoriali,
attraverso il commercio o l'appropriazione dei flussi naturali. Già oggi è
evidente che l'Impronta Ecologica umana supera la carrying capacity globale.
Tale sovraccarico è possibile. solo temporaneamente e farà pagare gravi
prezzi alle generazioni future. Senza uno sforzo concertato per ridurre il
flusso di materia e energia, i nostri figli si troveranno a dover soddisfare
le necessità biologiche di una popolazione più numerosa avendo a
disposizione degli stock di capitale naturale (la vera ricchezza) assai
diminuiti.