Re: contro il mito della crescita




Gentile Signora Ravaioli, gentile Agostini, gentili tutti.

Occorre capire che molto probabilmente facciamo un errore quando diciamo:

>"sviluppo e crescita senza senso e senza finalità comunitarie".

Occorre capirlo, altrimenti non possiamo fare progressi.


A mio avviso, lo sviluppo senza limiti perseguito dagli stati ha un senso e finalità ben precise, per giunta con intenti perfino altamente rispettabili.

Cerco di spiegarmi citando quanto segue:

"... Esiste, in verità, una ragione realmente valida che ci ha condotto finora lungo la strada di uno sviluppo demografico/economico/tecnologico ad ogni costo. Questa ragione consiste nel fatto che occorre scongiurare il pericolo reale di una invasione, fors'anche dapprima solo commerciale, e di una successiva sopraffazione totale del proprio Paese da parte di qualsiasi altro Paese del mondo che sia in grado di crescere più velocemente e di acquisire maggiori capacità. Si tratta di un pericolo concreto, estremamente attuale, che proviene tanto dall'occidente quanto dall'oriente, che spiega perfettamente perchè i Governi continuino caparbiamente a perseguire una crescita di stampo tradizionale ben oltre il limite che sarebbe consigliabile. Si tratta di una minaccia che va affrontata con il massimo impegno, cominciando col dichiarare apertamente, continuamente e diffusamente la tragica realtà delle cose umane, e prendendo quindi i dovuti provvedimenti ..."

Se non capiamo questo, se non capiamo la vera origine del nostro problema, se non comprendiamo che all'origine di uno sviluppo ad oltranza, solo apparentemente senza ragioni, vi sono seri motivi di difesa, non saremo mai in grado di trovare la giusta soluzione. Soluzione che, sempre a mio avviso, in questo caso potrebbe essere:

"... Occorre adoprarsi affinchè ogni Paese, di concerto, si doti di mezzi costituzionali per autodisciplinarsi in modo da mantenere entro livelli moderati ciò che altrimenti, inevitabilmente, condurrebbe ad uno straripamento massiccio, foss'anche solo commerciale o culturale, nei territori altrui. Occorre istituire apposite norme e commissioni internazionali che stabiliscano i livelli dei vari tipi di sviluppo, demografico, economico, tecnologico, raggiungibili da ogni Paese e con obiettività tengano sotto controllo i livelli raggiunti. Perchè la pace, così come oggi concepita, non è più sufficiente ed occorre immaginare i modi per raggiungere una pace più profonda, più solida e tenace ..."


Qui sta il punto: occorre capire la causa strategica (possiamo quasi dire: il fine militare dello sviluppo) e concentrare le nostre energie, le energie di tutti, al fine di stabilire, quantomeno all'inizio tra i popoli ipersviluppati, patti indissolubili di autocontenimento demografico/economico/tecnologico.


Bisogna capire che i politici faranno fare ai liberisti il comodo loro finchè gli stessi saranno necessari alla difesa nazionale. Una volta invece che venissero stipulati tali patti di autocontenimento, il liberismo si ritroverebbe automaticamente ridimensionato.


Se guardiamo le cose da questo punto di vista, tutto si chiarisce, altrimenti tutto rimane oscuro, per cui poi siamo costretti a dire:

>"sviluppo e crescita senza senso e senza finalità comunitarie".


Se qualcuno qui l'avesse capito, aiuti gli altri a comprenderlo, altrimenti che gli dei, non importa quali, ci aiutino loro, perchè lo sviluppo, quale blanda, nascosta, ma comunque tragica, guerra tra i popoli, continuerà per sempre, insieme ai lamenti!


Saluti e baci,

Danilo D'Antonio
Laboratorio Eudemonia


Come vincere la corsa allo sviluppo:
http://www.hyperlinker.com/change/index_it_0.htm







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On 08/09/04 at 6.51 Andrea Agostini wrote:

>dal manifesto.it
>
>numero  9  settembre 2000
>CONTRO IL MITO DELLA CRESCITA
>Carla Ravaioli
>
>"Ciò che noi combattiamo non è il liberismo o il capitalismo selvaggio, ma
>il capitalismo senza aggettivi: questo è il nostro nemico, sviluppo e
>crescita senza senso e senza finalità comunitarie, un modo di produrre
>consumare e vivere che significa un modo di non produrre e non vivere per
>gran parte del mondo e che genera infelicità anche nel mondo avanzato" (la
>rivista del manifesto, n. 6, maggio 2000).
>A differenza di quanti, rispondendo alla proposta Pintor, insistono
>soprattutto sulle forze da arruolare e sul modo di organizzarle per la
>costituzione di una nuova formazione politica, io credo che la riflessione
>debba piuttosto muovere da questo passaggio. Dove, nel prevedere un
>possibile programma, con elegante e d'altronde dichiarata nonchalance (lui
>dice "schematismo" e "vaghezza") Pintor mette a fuoco alcuni nodi centrali.
>Dunque il nostro vero nemico è il "capitalismo senza aggettivi", fatto di
>"sviluppo e crescita senza senso e senza finalità comunitarie". Questa è la
>verità, che appare in tutta la sua lampante chiarezza oggi, quando
>l'ossessivo inseguimento di una forsennata produzione non importa di che
>cosa, non importa per chi e per quale bisogno, non importa con quali
>conseguenze, di una crescita appunto priva di qualsiasi fine che non sia
>l'aumento del Pil, denuncia una drammatica separazione tra economia e
>società. Ma è una verità non solo di oggi, è una verità di sempre. È "la
>verità" del capitalismo senza aggettivi; di un sistema di produzione,
>scambio e consumo fondato sull'accumulazione, e dunque sull'aumento continuo
>del prodotto ("la moltiplicazione esponenziale delle merci", di marxiana
>memoria) che, tuttavia, per un periodo relativamente lungo, è parso trovare
>convergenza tra il proprio agire e l'utile sociale.
>Perché questo è accaduto, e questo ha irretito le sinistre politiche in una
>finora insuperata contraddizione. Il passaggio alla società industriale ha
>rappresentato per la maggioranza delle popolazioni occidentali, pur tra
>squilibri, sofferenze, sfruttamenti feroci, un fatto oggettivamente
>positivo; che ne ha considerevolmente migliorato gli standard di vita,
>alimentari, abitativi, igienico-sanitari, educativi, di accesso a consumi
>non di prima necessità, e così via. Ciò che forse, inevitabilmente, ha
>indotto nei movimenti operai e nei loro partiti l'assunzione di una linea in
>qualche modo schizoide: da un lato, al grido di "morte al capitale", si
>coltivava la promessa della rivoluzione; dall'altro, la difesa del posto di
>lavoro, la lotta alla disoccupazione, la battaglia per un miglior salario
>comportavano la salute della fabbrica, cioè la messa in opera di strategie
>che, per risultare utili agli operai, inevitabilmente dovevano assecondare
>gli interessi imprenditoriali, risultare funzionali alla prosperità
>dell'azienda, alla fortuna del datore di lavoro e dell'intera economia
>capitalistica. Nascevano così e si consolidavano nelle sinistre - mentre
>ancora si sognava l'ora X della presa del potere - il mito
>dell'industrialismo, il culto dell'economia acquisitiva, la fede nel Pil
>misuratore di benessere, l'identificazione tra crescita e progresso sociale:
>fino a quella sostanziale e sempre più indiscussa accettazione dell'ordine
>socioeconomico dato, oggi comune a quanto rimane del passato operaio.
>
>Dunque la crescita produttiva, nella forma dell'accumulazione capitalistica,
>per oltre un secolo è risultata vantaggiosa non solo per i padroni ma anche
>per i lavoratori. Questo era "capitalismo senza aggettivi". Quello stesso
>"capitalismo senza aggettivi" che nel suo polimorfo evolversi oggi si
>propone come "neoliberismo", "capitalismo selvaggio", "globalizzazione", ma
>che è ancora e sempre fatto di "sviluppo e crescita senza senso e senza
>finalità comunitarie", cioè di accumulazione. La quale, anche quando i suoi
>meccanismi creavano occupazione e crescente benessere nei paesi
>industrializzati, agiva secondo obiettivi di mera autoreferenzialità, non
>solo del tutto priva di finalità sociali, ma ignara delle stesse non
>intenzionali ricadute positive che fino a un dato momento si registravano
>nel sociale.
>Il consumismo, questa accelerazione coatta nell'uso di beni sempre meno
>necessari, che nulla ha a che fare con una giusta diffusione di consumi tra
>tutti i ceti, che non è in alcun modo finalizzato al benessere delle masse,
>e non serve altro obiettivo che la continua alimentazione della spirale
>produttivistica, avrebbe dovuto svelare la sua verità di strumento del
>capitale; il suo essere non l'aspetto negativo, eccedente, dello sviluppo
>capitalistico, ma la più vistosa manifestazione della sua stessa essenza, la
>concreta rappresentazione del fatto che (come diceva Claudio Napoleoni) "la
>funzione specifica del valore d'uso consiste nel fornire un supporto al
>valore di scambio".
>Nessuna lettura del genere ha avuto luogo tra le sinistre. E tranquillamente
>si è lasciato prosperare, anzi si è con ogni mezzo sollecitato, favorito e
>auspicato "un modo di produrre, consumare e vivere che significa un modo di
>non produrre non consumare non vivere per gran parte del mondo e che genera
>infelicità anche nel mondo avanzato". Ed è un altro punto cruciale che, con
>invidiabile "schematicità", Pintor mette a fuoco. Perché anche quando
>oggettivamente le condizioni sociali dei paesi industrializzati andavano
>migliorando, questo veniva pesantemente pagato dal Terzo mondo, da un lato,
>e dall'altro dal progressivo squilibrio dei sistemi ecologici del pianeta
>dall'altro. Due fenomeni di cui il primo è stato a lungo occultato e
>inghiottito dal colonialismo, poi mistificato in operazioni sedicenti di
>"aiuto", il secondo è stato fino a ieri o del tutto ignorato, o osservato
>separatamente dalle sue cause, che sono essenzialmente economiche, e
>separatamente da esse ritenuto emendabile. Due problemi cui non è più
>possibile mettere la sordina, quando la distanza tra ricchi e poveri del
>mondo va paurosamente allargandosi, mentre la crisi ambientale accumula
>catastrofi e prospetta terrificanti presagi, sommandosi a quella diffusa
>infelicità che, anche nei nostri ricchi paesi, l'acquisizione ossessiva di
>cose non riesce a compensare.
>Partendo da queste considerazioni - e approfondendole ben più di quanto mi
>sia qui possibile - forse è meno arduo mettere a fuoco realtà e domande del
>"popolo degli astenuti", di quell'arco di forze che è "espressione
>dell'impossibilità di esprimersi nell'attuale quadro politico"
>(Santomassimo, la rivista del manifesto, n. 7, giugno 2000), e che non può
>certo ritenersi "mobilitabile con un' aggregazione solo organizzativa"
>(Chiarante, ibidem). Un arco di forze entro cui certo figurano quanti non si
>riconoscono più in una sinistra che non fa niente "di sinistra", che affida
>la prosperità del paese al taglio delle pensioni e allo svuotamento dello
>stato sociale, ma non ne rappresentano la maggioranza né quantitativa né
>qualitativa. Perché i più, nell'impossibilità di esprimersi mediante gli
>strumenti della politica costituita, si esprimono - come è stato
>sottolineato - in molti altri modi, che vanno dal volontariato alle attività
>sociali più diverse, dall'universo delle Ong alle sempre più numerose
>manifestazioni che, da Seattle in poi, assediano gli istituti mondiali del
>potere.
>Se tentiamo di decifrare le istanze di tutti costoro, non è difficile
>ricondurle - tutte, benché estremamente diversificate - a quel "capitalismo
>senza aggettivi" di cui parla Pintor e al quale mi sono riferita finora.
>Certo i linguaggi di questi soggetti non sono immediatamente traducibili nei
>termini della comunicazione ordinaria, e men che meno del gergo politico. Né
>si può chiedere loro la lucida consequenzialità di argomentazioni logiche,
>fatti come sono soprattutto di gesti, colori, alfabeti allusivi, parole
>corporee, vocaboli simbolici, silenzi: strumenti idonei a dire ciò che si
>sente più di ciò che si pensa. Ma se cerchiamo di cogliere i punti nodali
>della loro protesta, leggiamo chiaramente: guerra, disuguaglianza,
>distruzione della natura, mercificazione della vita, disparità tra i sessi.
>Leggiamo cioè i portati ineliminabili del "capitalismo senza aggettivi",
>sistema socioeconomico basato sull'accumulazione, sulla coazione a crescere.
>Sono dunque problemi "di sinistra", problemi molto simili a quelli che alla
>sinistra hanno dato vita e ragione, o addirittura gli stessi che ritornano,
>magari con facce diverse e da regioni lontane. Oppure sono problemi nuovi,
>sconosciuti all'agenda storica delle sinistre, ma che le sinistre non
>dovrebbero aver difficoltà a riconoscere come propri: per fare un esempio,
>3500 italiani che secondo l'Organizzazione mondiale della sanità muoiono
>ogni anno a causa dell'inquinamento atmosferico, parrebbero cosa di cui le
>sinistre siano tenute a farsi carico. Ma nulla o pochissimo del genere
>accade. Così che il "popolo degli astenuti" rimane forse la vera sinistra
>oggi riconoscibile. La sola area sociale che dice "cose di sinistra". Le
>dice confusamente, non di rado contraddittoriamente, o magari tacendo,
>semplicemente defilandosi dalla politica e rifiutando il voto? Non c'è da
>stupircene se le sinistre istituzionali non le dicono in alcun modo. Le
>dicono in modo estremo? Non si vede in che altro modo potrebbero in un mondo
>che dice solo "crescita".
>Perché è questo che questa sinistra extrapolitica ha capito e, sia pure
>confusamente e magari contraddittoriamente, dice. Ha capito che finché la
>crescita del prodotto sarà l'obiettivo primo del nostro agire economico,
>anzi dell'intera nostra esistenza, è inutile sperare pace: le armi sono
>merci, e alla pari di tutte le altre merci vengono progettate, fabbricate,
>commercializzate, e in questo processo creano valore aggiunto, reddito,
>puntualmente contabilizzato nel computo del Pil, il mitico indicatore del
>benessere e del progresso sociale; e pertanto le guerre, grandi e piccole,
>sono necessarie per far quadrare i conti del mondo. È inutile sperare
>uguaglianza, o anche solo meno disuguaglianza, in ambito internazionale come
>all'interno dei singoli paesi: se è vero (per limitarci a un esempio,
>fornitoci da una fonte insospettabile quale l'Onu) che la spesa sostenuta in
>Occidente per cure dimagranti basterebbe a salvare tutti gli affamati della
>Terra, e che questo non solo tollera ma esige e dispone l'attuale
>organizzazione economica. La quale è strutturalmente attrezzata per
>promuovere (tra pubblicità, mass media, ecc.) Un ulteriore aumento della
>spesa per cure dimagranti, ma non prevede in alcun modo di attivarsi per
>eliminare la fame; compito affidato ad organi extraeconomici come la Fao e
>l'Unicef, o solo finanziari, come la Banca mondiale e il Fmi, elemosinieri
>istituzionali d'altronde attentissimi a non turbare le regole del sistema,
>anzi tenuti a curarne strenuamente gli interessi e a imporne dovunque modi e
>modelli.
>È inutile sognare un ambiente risanato o anche solo un po' meno inquinato e
>dissestato, perché (come è apparso chiarissimo dopo le varie conferenze
>internazionali dedicate alla materia) l'economia mondiale non può cessare di
>aumentare quanto possibile la propria attività produttiva, e quindi la
>quantità di rifiuti, solidi liquidi gassosi, sistematicamente rovesciati sul
>mondo. È inutile illudersi che ogni scoperta scientifica venga debitamente
>testata e controllata nella sua possibile nocività prima di trovare
>applicazione tecnica e sfruttamento industriale, perché questo andrebbe a
>ledere l'immediato aumento della produttività e dei profitti che
>l'imperativo della crescita, sotto la sferza della competitività planetaria,
>impone. È inutile attendere una reale parità tra uomini e donne finché
>l'organizzazione industriale planetaria, impiantata sull'iniquità della
>millenaria tradizione patriarcale, non potrà rinunciare a quell'attività di
>produzione e manutenzione della forza lavoro a costo zero cui le donne
>dovunque sono costrette a beneficio della prosperità economica.
>Tale è il "capitalismo senza aggettivi", che fino ad alcuni decenni fa in
>qualche misura consentiva il convergere degli interessi del padronato con
>quelli dei lavoratori. Quello stesso che oggi invece, continuando
>esattamente come ieri a inseguire la crescita produttiva quale suo obiettivo
>primario e irrinunciabile, crea disoccupazione, insicurezza, mostruose
>povertà accanto a oltraggiose ricchezze, danni irreversibili per la vita di
>tutti, travolgendo come semplici impacci i diritti del lavoro, le ragioni
>dell'ambiente, i dubbi sulle attività transgeniche, le istanze sociali di
>ogni tipo. Quello che, sia pure in modo confuso e magari contraddittorio, i
>"figli di Seattle" - cioè una cospicua quota del "popolo degli astenuti"-
>hanno individuato come il "nemico". Rivelando una consapevolezza che
>potrebbe forse mettere in crisi l'economia capitalistica più di quanto
>possano oggi farlo le tradizionali rivendicazioni operaie, e che, qualora
>venisse fatta propria dal lavoro dipendente, potrebbe prospettare nuovi
>orizzonti all'attuale ordine socioeconomico.
>Questo a me parrebbe il primo compito di quella nuova formazione di sinistra
>su cui si sta discutendo. Raccogliere ciò che questa sinistra extrapolitica
>sente e dice in mille modi, cercare di leggerne fino in fondo i contenuti e
>il senso, affrontarli organicamente e sistematicamente, provare a ricavarne
>una strategia finalmente all'altezza dei problemi del mondo. E magari,
>chissà, potrebbe anche essere, più di qualsiasi impegno organizzativo, il
>modo per riportare alle urne il "popolo degli astenuti".
>
>